Un sì bofonchiato

Il sì ha vinto a denti stretti e con margine risicato: 54 contro il 45,9%, il che significa che un lavorato Fiat su due non ha digerito l’ultimatum di Marchionne ed ha considerato la sua una condizione capestro. la partita è stata giocata fino alla fine e la scossa definitiva l'hanno data i colletti bianchi: nei seggi in cui si sono espressi gli operai addetti al montaggio, erano stati i “no” a prevalere. Il risultato è stato poi ribaltato dagli impiegati: su 441 voti totali, in 421 hanno votato per il sì. Tanto che Nichi Vendola, che pure è stato fischiato alla vigilia del voto davanti a Mirafiori, ha detto stamani a Skytg24 che: “La partita non si è chiusa ma si è riaperta” e, ancora, che “per Marchionne è stata la vittoria più amara e per la Fiom la sconfitta più gratificante”. “I lavoratori di Mirafiori hanno dimostrato di avere fiducia in se stessi e nel loro futuro”, è il commento, invece, dell'amministratore delegato della Fiat, che ha aggiunto che essi “Hanno dimostrato il coraggio di compiere un passo avanti contro l'immobilismo di chi parla soltanto o aspetta che le cose succedono. La scelta di chi ha votato sì è stata lungimirante. Mi auguro che le persone che hanno votato no, messe da parte le ideologie e i preconcetti, prendano coscienza dell'importanza dell'accordo che salvaguarda le prospettive di tutti i lavoratori”. Il presidente della Fiat, John Elkann, invece, invita ad “archiviare le polemiche e le contrapposizioni” e assicura “pieno e convinto sostegno” della famiglia Agnelli “alle sfide che abbiamo davanti e che vanno affrontate in modo costruttivo”. L'esito del referendum era scontato ed anzi, il risultato è sotto le attese se si considera quello molto più alto (14 punti percentuali in più) di Pomigliano. Inoltre, notano dall’ASCA, sarebbe un grave errore leggere il risultato in termini solo matematici. La democrazia più che la volontà della maggioranza e' il rispetto dei diritti delle minoranze e il futuro industriale del paese non passano attraverso la cancellazione della Fiom e della Cgil. Anche se la Camusso e Landini dovranno trarre le giuste conseguenze da questa vertenza che non rappresenta uno spot positivo per l'intero paese. Ma anche la Fiat ed il governo dovranno capire che l’industria non si salva solo con il sacrificio dei lavoratori e la cancellazione di diritti guadagnati negli anni e con molta fatica. Non è certo per la pausa pranzo che la Fiat perde fette crescenti di mercato e, secondo gli ultimi dati, scende più di tre volte rispetto ai concorrenti a livello continentale. Sono mancate politiche di investimento e di ricerca ed è questo il vero nodo da sciogliere, per trasformare la Fiat, comprensiva di Chrysler, in qualcosa di competitivo rispetto al baraccone decotto e fallimentare di adesso. Per lungo tempo la Fiat e' stata un laboratorio dove disegnare le relazioni industriali, ma oggi non e' possibile alcun raffronto con il passato. La globalizzazione, la società liquida, l'era postmoderna non sono definizioni alla moda ma esprimono la mutazione che sta attraversando il sistema economico planetario la cui data di inizio e' il crac Lehman Brothers. Ignorare questo significa non avere una visione sul futuro a medio e lungo termine. Non siamo all'inizio di un nuovo ciclo, siamo di fronte a una matrice completamente nuova delle fondamenta economiche e sociali. Ma proprio per questo non solo gli operai ma anche i dirigenti debbono cambiare marcia ed impegno. Se oggi il paese può ancora parlare sul futuro della Fiat, va riconosciuto qualche merito anche al tanto vituperato sistema bancario che mise sui piatti 3 miliardi di euro per salvare il Lingotto. Marchionne, poi, tanto amato dal governo e difeso dal “rottamatore” Renzi, è indubbiamente il maggior responsabile delle tensioni che si sono accumulate in questi mesi. E non sarà facile riportare un clima di serenità negli impianti. E' vero che l'assetto produttivo italiano del Lingotto necessita di una profonda riorganizzazione, ma non e' immaginabile una Fiat senza l'Italia. Forse alla presentazione del piano industriale in aprile serviva uno sforzo di maggiore trasparenza sugli impianti italiani. Poi l'a.d. Fiat ha sfoggiato una marcata intransigenza, ponendo in condizioni oggettivamente difficili anche quella parte del sindacato che ha sempre creduto nella possibilità di un accordo. Ma in una lunga e aspra vertenza torti e ragioni tendono a sovrapporsi. E’ anche il caso di ricordare le molte responsabilità della politica di oggi (con tifoserie contrapposte) e dell’ultimo venti anni. Sono infatti quattro lustri che manca una bozza di politica industriale, a meno che non si confonda per visione strategica il diktat ''si rinnovano gli incentivi auto se Termini Imerese non chiude''. Con espressione non molto felice del ministro Paolo Romani, che ha dichiarato che il governo non si occupa della Fiat perche' non e' un'azienda in crisi. E che si possa fare diversamente, con scelte strategiche anche pesanti ma molto chiare e serie lo dimostrano vari leader in Europa e nel mondo: Margareth Tatcher puntando su finanza e farmaceutica e sacrificando proprio l'auto e l'industria pesante e Bill Clinton, imponendo il consolidamento dell'industria aeronautica e della difesa e favorendo lo sviluppo delle nuove tecnologie. E lo stanno facendo le economie emergenti, come Brasile e Cina, ma non lo stiamo facendo noi, che, a colpi di referendum imposti con ricatto, crediamo che sia tutta colpa dei lavoratori oziosi e pretenziosi e non delle scelte politiche e di vertice non realizzate né tanto meno attuate.

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