Il nuovo rapporto tra Il nuovo rapporto tra Israele e Bahrein

 

di Giancarlo Elia Valori

President of International World Group

La questione del nuovo rapporto, che segue l’accordo già siglato tra Gerusalemme e gli Emirati Arabi Uniti, tra Israele e il Bahrein, è di particolare interesse; e segna un riallineamento del mondo sunnita, in evidente funzione anti-iraniana, con lo stato ebraico e, quindi, indirettamente, con l’occidente.

Ma Israele non pensa sempre, sul piano strategico, come i suoi alleati occidentali, e questo è un bene.

Cambia oggi il leverage petrolifero tra Est arabo e Ovest euro-americano (ma l’UE non se n’è ancora accorta) visto il sorgere della potenza petrolifera Usa.

Ma cambia, quindi, anche quello che potremmo definire come il “livello di protezione” militare tra mondo arabo sunnita e sistema di difesa dell’Ovest, tra NATO e accordi specifici degli Usa o dell’Alleanza Atlantica con i Paesi arabi sunniti. Europa, ovviamente, non pervenuta.

Finalità primarie: per gli arabi, giocare in pieno la carta occidentale rispetto alla Federazione Russa e, per certi rispetti, anche alla Cina; per gli occidentali il gioco n. 1 è quello di riprendersi il mondo sunnita dopo la crisi jihadista e poi, sempre per gli occidentali, quello di creare un nuovo mercato dei prezzi del greggio quando, proprio oggi,  lo shale oil Usa cambia tutto il sistema dei prezzi, ma, alla fine, si tratta, per Washington, di evitare che Russia e Cina si “prendano” strategicamente il mondo sunnita.

Il mondo della sunna sa che non può fare mai a meno dell’Ovest per contrastare seriamente l’Iran e i suoi proxies, ha poi bisogno delle tecnologie Usa e UE per fare il “passaggio energetico” dagli idrocarburi alle rinnovabili, ha infine bisogno delle armi e delle tecnologie ma, probabilmente, anche dell’aiuto militare diretto di Usa e Nato.

E, in futuro, anche dello stato ebraico.

L’Iran è una minaccia esistenziale anche per loro, e le zone di influenza e contatto, nel Medio Oriente, tra Iran e mondo sunnita sono tali da non poter essere composte da un qualche trattato di pace. Il caso dello Yemen insegna. Ogni mossa, nel Golfo, è un gioco a somma zero.

Ora facciamo un passo indietro, ma comunque necessario. L’”Accordo di Abramo” tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti e poi il Bahrein si basa su future “normali relazioni” tra lo stato ebraico e gli UAE.

Un accordo scritto a metà agosto 2020, comunque, ma lungamente preparato dai Servizi e, successivamente, dalle diplomazie delle due parti. E anche da qualche Servizio europeo.

Queste “normali relazioni” presuppongono i consueti rapporti di affari, i voli diretti, il turismo, gli scambi scientifici, il pieno riconoscimento diplomatico.

E’ del tutto ovvio, però, che gli Emirati non manderanno un ambasciatore proprio a Gerusalemme.

Non c’è poi scritto negli accordi, ma c’è comunque, uno specifico scambio di informazioni tra i relativi Servizi, come è peraltro accaduto, e da molto tempo, tra Gerusalemme e l’Arabia Saudita.

Sempre secondo gli Emirati, ma il testo è comunque chiaro al riguardo, l’accordo Israele-UAE blocca immediatamente ogni tentativo di annessione, da parte di Gerusalemme, della West Bank, ma ipotizza anche un rinnovo delle trattative tra ANP e stato ebraico per far “cessare il conflitto”.

Vaste programme, avrebbe detto De Gaulle. E’ che ormai i palestinesi dell’ANP, creatura, peraltro mal pensata, della fine della guerra fredda, non servono più a nessuno.

Né ai sovietici, che non ci sono più e non hanno più bisogno di campi di addestramento cumulativi per terroristi europei, o magari di sistemi di pressione per i loro alleati arabi, né alla sinistra europea (e alla UE, ma non lo sa) che nulla sapeva di politica estera ma voleva solo la “riduzione” di Israele, men che meno alla Cina, che non sa che farsene, né, perfino, alla galassia jihadista, che ha pochissimo utilizzato la rete della guerriglia di antica origine palestinese.

E, oggi, il ruolo preminente di Hamas, nella Striscia di Gaza e anche nella West Bank, un movimento emanazione della Fratellanza Musulmana, che accetta esplicitamente i “Protocolli dei Savi di Sion” nei suoi statuti e che, comunque, è notoriamente sostenuta ormai completamente da Teheran, con il Jihad Islamico palestinese, è un ruolo che non interessa certo ai Paesi sunniti del Golfo.

Forse solo al Qatar e alla Turchia, che con la Fratellanza hanno moltissimo a che fare. Ma non credo che Ankara e Doha vogliano andare fino in fondo a questa partita strategica, con il rischio di inimicarsi i sauditi e buona parte degli Emirati.

E, comunque, i costi per il mantenimento salatissimo dell’ANP non li vuole sostenere più nessuno. Strategicamente inutili, molto probabilmente perfino pericolosi.

Israele e gli UAE hanno già tentato la normalizzazione anni fa. Nel 2015, lo stato ebraico aprì un ufficio diplomatico a Abu Dhabi, in relazione alla International Renewable Energy Agency, poi ci sono stati incontri sportivi, Israele era stata anche prevista come ospite nella EXPO mondiale del 2020, oggi rimandata all’ottobre 2021, salvo altre valutazioni, a causa della pandemia da Covid-19.

Il vero segnale che a Gerusalemme l’accordo con gli Emirati importava molto è stato il rinvio, il 1 giugno 2020, da parte di Netanyahu, sine die, dell’annessione della West Bank.

I palestinesi, immediatamente, hanno richiamato il loro ambasciatore negli Emirati.

A Gerusalemme importa poco dell’ANP, relitto di una guerra fredda che non ha più significato strategico, salvo il ruolo filo-iraniano di Hamas e di una parte di Fatah, il vecchio gruppo politico di Mahmoud Abbas, quindi Israele tende solo alla West Bank e, in pieno accordo con l’Egitto, al controllo anti-jihadista della Striscia di Gaza e del Sinai.

Ovviamente, né i sauditi, né gli Emirati, né il Bahrein né altri Stati dell’area sunnita (anche se il Bahrein è a maggioranza sciita, ma con una classe dirigente sunnita) ma men che meno Israele vogliono legarsi a una classe politica corrotta e totalmente inefficiente come quella dell’ANP, che è ormai il guanto dentro il quale si tende la mano di Teheran, l’unica, interessata, potenza disposta a prendere per mano le due aree politiche della vecchia ANP.

L’”accordo di Abramo” è stato accettato anche dal Bahrain, come dicevamo, di cui tra poco tratteremo, poi dalla Giordania, che ha un vecchio trattato di pace con Israele datato 1994, ma gravato dalla successiva e grave crisi del 2015-’16 sempre con Israele, al tempo della annessione di Gerusalemme Est e quindi della Moschea di Al-Aqsa, l’”ultima”, l’”estrema”.

Poi vi è l’accettazione anche dall’Egitto, che vede risolversi, in prospettiva, la tensione jihadista nel Sinai con una collaborazione più diretta e esplicita dello stato ebraico, infine l’”Accordo di Abramo” è stato pubblicamente elogiato dall’Oman, ora che il nuovo Re Hatham bin Tariq vuole continuare la modernizzazione del regno di Oman e di Muscat nel solco del defunto Qaboos, le cui Guardie vestivano il kilt scozzese e suonavano la cornamusa;  e con un maggiore tasso di indipendenza strategica dagli altri Emirati e dai sauditi.

Chi è contro? L’Iran, ovviamente, che vede addensarsi all’orizzonte una correlazione strategica tra Israele e il mondo sunnita, con la chiusura, gravissima per Teheran, dell’area emiratina, dove avrebbe potuto giocare con operazioni di influenza contro l’Arabia Saudita e gli Usa.

Poi è contrario il Qatar, legato anche militarmente alla Turchia e base, finanziaria e politica, della Fratellanza Musulmana, invisa a tutti gli altri Stati sunniti del Golfo e, per alcuni aspetti, in via di riconciliazione perfino con gli sciiti iraniani-siriani e libanesi.

Naturalmente, anche la Turchia è contraria all’accordo, non per l’accettazione dello stato ebraico nel quadro delle relazioni interarabe, Stato con il quale peraltro Ankara ha rapporti diplomatici fino dal 1949, pur non avendo mai riconosciuto il Piano di Partizione dell’ONU da cui la stessa indipendenza dello stato ebraico nasce.

Ankara è fredda sull’”Accordo di Abramo” soprattutto perché si troverà isolata negli Emirati e nell’area del Golfo, essendo legata, in modo lasco, alla Fratellanza Musulmana, ed ha un progetto di espansione centro-asiatica che non gli permetterà di tenere lo status quo ad essa attualmente favorevole nel Golfo e nemmeno, in prospettiva, i buoni rapporti con il Qatar.

Il Bahrein, e poi sarà la volta, se tutto va bene, del Sudan e dell’Oman, poi del Marocco, sta accettando e, anzi, ha già accettato, lo ripetiamo, l’accordo abramitico.

Il Marocco ha già avuto ministri ebrei nei suoi governi, e l’uomo degli affari privati di Re Hassan II era un italiano, di Ferrara, che era stato peraltro l’unico a manifestare solidarietà con lui quando il giovane Giorgio Bassani fu espulso dal Liceo, in esecuzione delle infami “leggi razziali” del 1938.

Il Re Hamad ha già permesso a dei dirigenti israeliani di partecipare, in futuro, a una riunione regionale sulla sicurezza del Golfo, il Manama Security Dialogue 2020, che si terrà nella capitale del Regno il 4-6 dicembre prossimi.

Netanyahu ha già incontrato il defunto Re Qaboos dell’Oman nel 2018.

Il Bahrein, perché riconosce ufficialmente Israele nel quadro dell’”Accordo di Abramo”?

Intanto, perché lo stato ebraico è una brillante success story.

Per la tecnologia, per la sua stabilità, per la sua forza militare, perfino per la sua ottima intelligence, Israele fa gola a molti, nel mondo arabo e oltre. Il sultano bin Khalifa ha sempre manifestato apertamente la sua stima per lo stato ebraico.

Il ministro degli esteri del Bahrein, nel 2018, postò un messaggio su Twitter a favore di Israele nella sua guerra contro i canali sottoterra creati da Hezb’ollah, poi ha reso esplicito il suo favore nel vedere che anche l’Australia aveva riconosciuto Gerusalemme Est come capitale dello stato ebraico.

Il Sultano del Bahrein ha apertamente compiuto fortissime pressioni perché il Consiglio di Sicurezza del Golfo designasse Hezb’ollah come “organizzazione terroristica”.

E qui non si tratta di tensioni tradizionali tra sunniti e sciiti, ma di una scelta geopolitica e strategica: rendere gli Emirati e tutto il Golfo un’area pacificata, in modo da avviare, il prima possibile, la transizione energetica e economica che deciderà il futuro degli stati petroliferi dell’area.

La guerra congela le posizioni, è costosa e non permette la grande transizione economica che tutte le classi dirigenti del Golfo, con la sola eccezione dell’Iran, intendono iniziare al più presto.

Ovvio: l’Iran non gioca tanto sul petrolio, quanto sul gas naturale, che non è contemplato nel sistema OPEC.

Si ricordi inoltre che il Bahrein ha ospitato il White House’s Peace to Prosperity Workshop del 2019, e in quella occasione vennero accolti nel Regno ben sette giornalisti israeliani.

Si noti poi che il Bahrein è strettamente connesso, per l’economia e la selezione della classe dirigente, all’Arabia Saudita.

E che ha la maggioranza della popolazione sciita, con una casa regnante e una classe dirigente sunnite. Quindi, più che per altri Paesi del Golfo, l’Iran, che è davanti alle sue coste, è una minaccia esistenziale.

E il legame tra Manama e Riyadh è sempre più saldo, soprattutto dopo il 2018, quando il piccolo regno costiero ha dovuto reprimere, e spesso duramente, le “primavere arabe” che, peraltro, avevano più di un nesso con Teheran.

Il più straordinario errore recente degli occidentali nel Medio Oriente, la “primavera araba”, dopo il Trattato Sykes-Picot, quando i francesi persero un po’ del loro potere perché il traduttore era Luis Massignon, con il suo arabo raffinatissimo che i predoni del deserto non capivano, mentre l’interprete degli inglesi era Lawrence d’Arabia, abituato alla strada e alle plebi arabe.

E i palestinesi? Il 3 settembre scorso è stata indetta, quasi contemporaneamente all’annuncio dell’”Accordo di Abramo” da parte di Donald J. Trump alla Casa Bianca, una videoconferenza tra Beirut e Ramallah che ha visto la partecipazione di Abu Mazen e di tutte le fazioni palestinesi, si noti bene, inoltre, che la videoconferenza era stata organizzata sia da Fatah che da Hamas, caso più unico che raro.

A Beirut si trovava Ismail Haniyeh, il capo dell’Ufficio Politico di Hamas, poi c’era Ziad Nadalia, il segretario generale del Jihad Islamico, e tutti i capi delle fazioni che non hanno il permesso di operare all’interno dei territori dell’Autorità Nazionale Palestinese.

C’era anche, a Ramallah, Mohammed Barakeh, già membro del parlamento israeliano.

Per tutti, la chiave strategica per l’interpretazione dell’accordo “di Abramo” era la rottura dell’Iniziativa di Pace Araba, l’iniziativa saudita del 2002, poi riaffermata nel 2007 e ancora nel 2017 da tutti i summit della Lega Araba.

Questa “iniziativa” riguarda, in nuce, l’abbandono da parte di Israele di tutti i territori occupati, una “giusta sistemazione” per i rifugiati palestinesi sulla base della Risoluzione ONU n.194, e la costituzione di uno stato palestinese con Gerusalemme Est come capitale.

Il frutto della videoconferenza? La netta e ovvia percezione dell’isolamento dell’ANP, che ormai nessuno vuole più mantenere at full cost, visto che si tratta di un “relitto strategico”, l’accordo tra Hamas e Fatah, cosa più unica che rara, l’apertura inevitabile dei Territori dell’ANP ai nemici dichiarati del Patto di Abramo, ovvero il Qatar, che tenterà una correlazione strategica e militare tra Libia-Tripoli e Striscia di Gaza e anche per la West Bank, poi la Turchia, con i suoi Fratelli Musulmani, che sono quelli che hanno fondato Hamas, ma soprattutto sarà un affare per l’Iran, che già sostiene il Jihad Islamico alcune altre fazioni palestinesi, in ovvia funzione antisraeliana e in attesa che Hezb’ollah ritorni a fare operazioni oltre il Litani.

Quindi, nel gergo dell’OLP e della ANP, “lotta popolare”, ma non c’è alcun riferimento alla “lotta armata”, nel documento finale della videoconferenza, inoltre la richiesta di uno Stato Palestinese entro i confini del 1967, poi la evidente verifica della caduta del consenso per la causa palestinese tra gli stati arabi sunniti del Golfo, da cui deriverà una ulteriore restrizione degli aiuti economici all’ANP.

Ma il vero pericolo, che dovrebbe riguardare anche Israele, è la completa implosione dell’ANP, che potrebbe creare fenomeni militari, migratori e economici di portata globale.

E la Federazione Russa? Deve ritornare ad essere indispensabile in Medio Oriente, l’”Accordo di Abramo” mediato dagli Usa e da alcune intelligence europee può far cessare il vantaggio comparativo e strategico della vittoria di Mosca in Siria e dell’attentissimo management dei rapporti militari e informativi con Israele.

Per non parlare del raffinato containment russo della pressione iraniana in Siria, uno degli obiettivi veri della presenza russa nella repubblica di Bashar el Assad.

Cosa potrebbe giocare la Russia nel nuovo Medio Oriente che si va disegnando in questi giorni? Molto.

Intanto, fin dal 2018, Mosca ha ricominciato a incontrare il Jihad Islamico, mentre anche Abu Mazen ha incontrato, nel 2019, i dirigenti russi per realizzare un nuovo “formato” della pace tra Israele e ANP mediato dalla sola Federazione Russa.

Poi, c’è la carta libanese, la presenza di Mosca è sempre più visibile nel Paese dei Cedri, per un ovvio spillover dalla Siria.

Quindi, il gioco numero uno di Mosca nel nuovo Medio Oriente è quello di tenere rapporti stretti con tutti, ma proprio tutti, gli attori regionali, statuali e non statuali, per arrivare a essere l’unico arbitro supremo (anche nei confronti di Israele) della futura e, ormai, inevitabile pace mediorientale.

La Cina? Pechino non vede di buon occhio l’accordo abramitico, dato che si tratta, per Pechino, di un abbandono de facto del Medio Oriente da parte degli Usa, e quindi di un aumento dei costi del controllo strategico dell’area, ma anche di un ritorno di tanti Paesi sunniti di rilievo nell’ambito di un’orbita economica americana, proprio mentre la Cina stava seducendo i sauditi e gli Emirati.

L’”Accordo di Abramo” chiude le porte del Golfo a molti Paesi che volevano entrare nell’area.

Farà comunque buon viso a cattivo gioco, Pechino, sostenendo un paese amico de facto, Israele, e mantenendo i consueti ottimi rapporti con il mondo sunnita, nella speranza di sostituirsi, tra breve, agli Usa come referente politico-militare dell’area.

 

Giancarlo Elia Valori

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