Era alta la tensione per le elezioni che domenica scorsa hanno portato al rinnovo dell’Asemblea Nacional, il parlamento venezuelano. La recente guerra sfiorata con la Colombia, ricomposta grazie ai governi latinoamericani amici di Caracas, e la provocazione dei falchi statunitensi che hanno designato un nuovo ambasciatore in Venezuela che ha esordito con parole gravissime tanto da essere respinto da Chavez che ha chiesto ad Obama di nominarne un altro, servivano ad alimentare un clima di instabilità.
Le precedenti elezioni erano state boicottate dalle opposizioni, che pensavano di rovesciare il governo con la violenza. Già nel 2002 si consumò un colpo di stato, e Usa e Spagna si affrettarono a riconoscere il nuovo governo golpista, che per loro sfortuna durò solo due giorni. Poi le pressioni del popolo e la volontà delle forze armate rimaste fedeli alla democrazia (forse memori delle parole dell’amato Libertador Simon Bolìvar: “Maledetto sia il soldato che punta le armi contro la propria gente”) hanno riportato il legittimo Presidente Hugo Chavez Frias a Miraflores. Questa volta invece le opposizioni si sono unite tutte quante sotto la sigla Mesa de Unidad. Durante la campagna elettorale nessuno dei contendenti ha risparmiato colpi all’avversario ma la tranquillità con cui si sono svolti i comizi elettorali ha dimostrato la maturità della democrazia venezuelana. I media occidentali raccontano di influenze del potere politico sui giudici che non sarebbero imparziali e di discriminazioni nei confronti dei giornalisti avversari del governo. Eppure in Venezuela non avviene nessun attacco alla magistratura come invece accade in Italia da parte del governo Berlusconi e che la durezza (e spesso la volgarità) degli attacchi rivolti al Presidente dai media venezuelani dimostrano un livello di libertà e democrazia che noi, nel nostro Belpaese, nemmeno riusciamo a concepire.
Il 26 settembre il Partido Socialista Unido de Venezuela, il partito di Chavez, ha conseguito l’ennesima vittoria conquistando 94 deputati (a cui ne vanno aggiunti altri due espressione delle minoranze indigene che sostengono il governo) contro i 61 seggi dell’opposizione. È vero che Chavez ha perso i due terzi dell’assemblea ma la maggioranza della popolazione sostiene ancora il processo della rivoluzione bolivariana. Pertanto sono inspiegabili le urla di giubilo dei rappresentanti dell’opposizione che hanno dichiarato vittoria. E suonano alquanto meschine anche le dichiarazioni odierne del Dipartimento di Stato Usa che per bocca del suo portavoce Philip Crowley ha dichiarato: “Chavez e il suo governo adesso dovranno governare come parte di una democrazia che funziona e non potranno semplicemente imporre politiche a una Assemblea Legislativa obbediente”. Come se Chavez nella scorsa legislatura avesse fatto fuori tutti gli oppositori e non fossero stati questi, consigliati proprio da Washington, a decidere il boicottaggio delle elezioni. Diceva Bolìvar che “Gli Stati Uniti sembrano inviati dalla Provvidenza per riempire l’America di miseria in nome della libertà”. Questa volta non gli è riuscito, nonostante i cospicui finanziamenti elargiti ai partiti di opposizione in barba alla costituzione venezuelana, che vieta che stati esteri finanzino gruppi politici.
Non gli è riuscito perché nonostante le loro interferenze in questi anni il Venezuela ha fatto progressi sociali enormi. Già all’inizio del suo mandato il Presidente dichiarò che: “l’obiettivo principale di una rivoluziona socialista è di garantire a tutti la massima felicità possibile”. E non sono state parole vuote se è vero che, secondo i dati imparziali della Commissione economica delle Nazioni Unite per l’America Latina, la percentuale di venezuelani poveri è scesa durante i suoi mandati dal 49,4 al 27,6%. Un dato impressionante. Così come la missione Barrio Adentro ha portato i medici cubani nei ranchos, le favelas venezuelane, garantendo assistenza medica a gente che non aveva la possibilità di curarsi. E mille altri progetti sociali… Certo, non mancano le difficoltà e le contraddizioni, la corruzione pubblica soprattutto tra le forze di polizia e i tassi elevatissimi di criminalità particolarmente a Caracas e nelle grandi città, ma la direzione che si è intrapresa è quella di una maggiore giustizia sociale, di una redistribuzione della ricchezza, della nazionalizzazione delle risorse petrolifere sottratte alle multinazionali per restituirne i proventi al popolo.
Chavez è stato in questi anni anche molto intelligente nell’usare i simbolismi: “Colombo non l’abbiamo ancora abbattuto, sta lì con la sua statua, ma non gli rendiamo più onore. Adesso rendiamo onore a Guaicaipuro, il capo della resistenza indigena al quale gli spagnoli uccisero moglie e figli e che li sfidò, quando lo stavano per uccidere, dicendo loro ”. Oppure nel restituire alla montagna che separa la capitale dal mare, prima chiamata El Avila, l’antico nome indigeno, Warairarepano.
L’ex cortile di casa degli Usa da anni sta lottando per riconquistare la propria autonomia. E nell’anno in cui si è festeggiato il bicentenario dell’indipendenza un’altra vittoria elettorale indica la via. Il prossimo banco di prova per mantenere la rotta saranno senza dubbio le elezioni presidenziali brasiliane, che si terranno domenica prossima. Come recitavano gli slogan dell’anniversario, La lucha por la independencia continùa. Non solo nella patria del Libertador ma in tutta l’America Latina.
Giovanni Maiolo