Mentre scrivo non so ancora come si svolgerà e soprattutto che conclusione avrà la kermesse a scopo mediatico pomposamente chiamata Stati Generali d’Italia. Ma date le premesse, un’idea me la sono già fatta: derubricherà il lavoro della task foce di esperti guidata da Vittorio Colao – a prescindere dal merito delle proposte fatte, ma per evitare che il manager si consolidi sulla scena – e tenterà di affermare la figura di Giuseppe Conte come premier (che non è), decisionista e garante nei confronti dell’Europa. Uno show – di cui non si sentiva alcun bisogno, mentre lo sforzo della ripartenza del Paese inciampa nella mancata traduzione operativa delle misure prese, giuste o sbagliate che siano – che potrà avere una sola possibilità di evitare l’immediata archiviazione nel bidone della spazzatura delle cose inutili: se sarà servito a dire sì al Mes in modo definitivo e inequivoco, senza se e senza ma. Sugli altri temi immagino ci sarà la solita esibizione di buone intenzioni, ma sulla sanità post Covid, e dunque sul Mes – che proprio a rafforzare i sistemi sanitari dei paesi europei serve – no, non ci potrà e non ci dovrà essere nessuna ipocrisia. Prendere o lasciare. E se la decisione sarà di lasciare – o di non decidere, che equivale a non prendere – lo si dovrà spiegare agli italiani, a cominciare dalle famiglie di coloro che in questi mesi ci hanno lasciato la pelle o hanno sofferto maledettamente.
E sì, perché non c’è dubbio che al cospetto del coronavirus l’Italia si è presentata con una sanità che in realtà sono venti Servizi Sanitari Regionali (SSR), diversi e senza alcun collegamento tra loro – se non quelli lasciati alla buona volontà individuale dei medici – e con una qualità a macchia di leopardo, sia dal punto delle strutture che delle terapie offerte, che va dall’estremo dell’eccellenza mondiale a quello opposto della più assoluta fatiscenza e inefficienza. Sono anni che TerzaRepubblica segnala la distorsione del “federalismo sanitario”, che è l’effetto più perverso del regionalismo, ma nulla si è fatto. Ora, però, dopo una pandemia di questa gravità e proporzioni, che ci ha colti colpevolmente di sorpresa, non si può certo continuare a far finta di niente, magari approfittando dell’attenuazione (speriamo che duri) della circolazione e della pericolosità del Covid.
Dunque, uno dei pilastri della ripresa nazionale non può non essere una riforma strutturale del sistema sanitario definito nazionale ma che tale non è. Riforma che deve avere tre finalità: una ridefinizione giuridico-amministrativa del sistema sanitario, un recupero della territorialità e della funzione del medico di base, e infine una modernizzazione e un potenziamento delle strutture edilizie e delle infrastrutture tecnologiche e digitali. Va da sé, poi, che ripensare il sistema sanitario significa ripensare il decentramento amministrativo, considerato che la spesa sanitaria pubblica incide per oltre il 70% sul bilancio delle Regioni, anche (ri)mettendo mano alla riforma del titolo V della Costituzione.
Sto parlando di cose per le quali è richiesta in primis la volontà politica – compresa quella di metter fine al potere di chi maneggia Asl e ospedali – ma anche e soprattutto molti soldi. Perchè dunque non prendere a tasso quasi zero il prestito Mes, che per noi sarebbero due punti di pil, la cui unica condizionalità è appunto quella di usare la risorse per la sanità? Solo perché qualcuno nella maggioranza di governo (i 5stelle, ma forse non tutti) ha pregiudizi di tipo ideologico, peraltro non dissimili da quelli di Salvini e Meloni? Qui Conte deve prendersi la responsabilità di decidere. L’ha fatto in questi mesi anche andando oltre i confini costituzionalmente definiti – prendendosene i meriti fino al punto da riassumere in lui il governo e far balenare l’ipotesi che si possa costruire un partito tutto suo – ora non può tirare il fondoschiena indietro. Facile fare il decisionista con la gente terrorizzata da un nemico invisibile. Ora è più complicato, ma qui si vedrà se ha davvero tempra o è solo un prodotto mediatico e per di più a scadenza breve.
Ma come si dovrebbero spendere i circa 36 miliardi del Mes? Quale sanità ne dovrebbe uscir fuori e in capo a chi? Considerato che la spesa sanitaria corrente ammonta 115 miliardi, ovvero il 6,6% del pil, e che contando anche la spesa privata si arriva all’8,9%, il problema non è spendere di più – anche se nell’ambito del nostro welfare il peso della sanità rispetto a quello della previdenza andrebbe un po’ riequilibrato – ma spendere decisamente meglio. Per farlo occorre prima di tutto smontare il meccanismo che ha delegato la sanità alla Regioni, con la sciagurata riforma del Titolo V del 2001. Prima di allora, l’Oms metteva la sanità italiana al secondo posto nel mondo. Poi, la creazione di 20 sistemi diversi, oltre a complicare i processi decisionali e moltiplicare le procedure amministrative, ha lasciato campo a gestioni clientelari delle Asl (nomine, acquisti, appalti) con i servizi che sono andati via via peggiorando pur a fronte di un incremento della spesa (+22% rispetto al 2000, al netto dell’inflazione). Evidentemente qualcosa è andato storto. Forse perché le Regioni gestiscono la sanità per due terzi con fondi non legati al loro prelievo fiscale, quindi senza doverne rendere conto. E infatti numerose sono state commissariate. Inoltre, con 20 sistemi sanitari diversi sono sorti fenomeni distorsivi: dal “turismo sanitario” (soprattutto da Sud a Nord) ai “costi non standard”.
Ma è in questa emergenza che lo scollamento del sistema è venuto fuori in tutta la sua gravità. Come spiega con competenza professionale e acume politico Cesare Greco, il prezzo più alto è stato pagato proprio da quelle regioni che, in virtù dell’autonomia definita dalla riforma del 2001, più di altre si erano spinte nell’indirizzare l’organizzazione dell’assistenza verso le patologie croniche più rilevanti, concentrando nelle grosse strutture ospedaliere attrezzature e risorse umane, e affidando alla gestione dei privati lo sviluppo di centri di assoluta eccellenza, altamente remunerativi, ma non in grado di fare fronte a eventuali emergenze come quella appena attraversata. Tutto questo a scapito dell’assistenza sul territorio, con il taglio indiscriminato delle strutture più periferiche, della rete dei medici di medicina generale e trascurando qualsiasi organizzazione di cura domiciliare dei pazienti fragili; tutte cose che avrebbero permesso di intercettare con tempestività, e precocemente, il dilagare dell’infezione e ridurre drasticamente la pressione sulle strutture ospedaliere i cui pronto soccorsi si sono rapidamente trasformati in aree di facilitazione del contagio, per pazienti e operatori sanitari. La progressiva burocratizzazione del sistema ha inoltre affidato le decisioni strategiche ad amministratori ottusi e incompetenti quanto supponenti, scelti sulla mera base della fedeltà al politico di turno e al suo partito, e che hanno non poco contribuito a generare il caos evidente a tutti.
Ora è evidente che per ridare unicità al servizio sanitario da Bolzano a Trapani, ripristinando il dettato costituzionale che tutela l’uguaglianza dei cittadini, e per affrontare le storture appena denunciate, occorra riaccentrare le competenze sanitarie in capo allo Stato attraverso una moderna forma mutualistica, sul modello olandese. In Olanda, dal 2006 vige un sistema pubblico-privato che prevede l’obbligo di assicurarsi, con costi differenti in base al reddito, e con la possibilità di cambiare facilmente la compagnia assicurativa. In questo modo aumenta la concorrenza sul lato dell’offerta economica ma, attraverso il vincolo di legge a fornire all’assicurato un “pacchetto” di prestazioni essenziali, c’è la garanzia sulla qualità e l’efficienza dei servizi offerti (il 70% degli utenti accede al servizio entro venti minuti dal momento in cui manifesta, proprio nei nostri Pronto Soccorso). Poi, una volta fatta questa scelta, si potranno fare tutte le cose che molti think tank stanno meritoriamente suggerendo, a partire da quelle indicate da un paper dell’Associazione M&M e della Fondazione Cerm, riassunte in un articolo del Corriere della Sera a firma di Fabrizio Pagani e Fabio Pammolli.
Ne seguirebbe, come ovvio, un ripensamento dell’intera architettura, elefantiaca e obsoleta, delle autonomie, perché le Regioni senza la sanità non avrebbero più ragion d’essere, e una loro messa in discussione – prendendo atto, a 50 anni esatti dalla nascita, del loro fallimento – aprirebbe la porta ad un ripensamento più generale. Come ha saggiamente suggerito l’ex presidente della Consulta, Cesare Mirabelli, facendo notare come il “micro sovranismo” regionale, cui abbiamo assistito con raccapriccio durante la gestione della pandemia, non abbia senso compiuto in un Paese come l’Italia che non è federale ma i si comporta come se lo fosse. Chi da anni segue TerzaRepubblica sa che non abbiamo mai amato il federalismo e tanto meno siamo caduti nella tentazione di pensare che fosse giusta l’equazione decentramento amministrativo uguale maggiore vicinanza ai problemi dei cittadini e miglior soluzione di essi, e dunque abbiamo sempre spinto per una semplificazione del sistema delle autonomie: troppe 20 regioni, 120 Province (mai cancellate nonostante i proclami), oltre 8 mila comuni (di cui più dei due terzi sotto i 5 mila abitanti), senza contare l’universo composto da comunità montane, enti di bacino, municipi e consigli di quartieri e i molti altri enti di secondo e terzo grado, con potere di spesa e diritti di veto.
Ora, visto che, complice il fallimento della riforma costituzionale voluta da Renzi, la legge Delrio ha prodotto un solo effetto semantico – le province sono state ribattezzate “aree vaste” – ma le vecchie provinciali, previste espressamente in Costituzione, hanno conservato la competenza su 130 mila chilometri di strade e 5.100 edifici scolastici (con risultati disastrosi), e considerato che è necessario avere tra i Comuni e lo Stato un soggetto intermedio, tanto vale prendere atto che le Regioni sono diventate costosissimi staterelli in conflitto permanente con lo Stato centrale, e che la loro competenza fondamentale, la sanità, gli va tolta dalle mani, e decidere una volta per tutte che quelle istituzioni cuscinetto hanno da essere le Province, cui poi trasferire le poche residue funzioni delle Regioni. Naturalmente, provvedendo ad un loro accorpamento, alla stessa stregua di ciò che occorre fare con i Comuni mettendo i 5 mila (o anche i 10 mila) abitanti come numero minimo. La Società Geografica Italiana ha ridisegnato la mappa d’Italia immaginando la creazione di 35 aree provinciali (ma non sarebbe scandaloso se arrivassero fino a 50, comunque meno della metà delle attuali).
Troppo impegnativo e ambizioso? Capisco, ma se è vero che questo è il momento del cambiamento per la rinascita e la ricostruzione, come fu dal 1945 in poi, sono scelte di questa portata che fanno davvero la differenza. Pensate, partendo da quei 36 miliardi del Mes, dove si potrebbe arrivare. E se non lo farà il governo Conte, avanti il prossimo.