di Gianmario Mariniello
Rispondo al Giornale e in particolare ad Alessandro Sallusti che venerdi scorso ha firmato l’editoriale “L’Italia dei Marchionne (e dei Berlusconi) e quella dei Briguglio”. Grazie di cuore: un fondo, un titolo e un trittico con Berlusconi e Marchionne sono troppo. Capisco l’obiettivo ma il Giornale rischia l’eterogenesi dei fini. Fare diventare personaggio chi non lo è.
E’ vero: la mia è una storia politica e personale minore. Una piccola storia onesta. Una delle tante maturate nella piccola provincia italiana, siciliana nella fattispecie e in un partito minore, il Msi che proprio nell’anno in cui mi iscrissi (1971) con ancora i calzoncini corti proprio in Sicilia divenne fenomeno nazionale studiato anche all’estero.
Voglio tranquillizzare l’Italia di Marchionne, di Geronzi, di Scaroni e di Berlusconi: io ho sempre lavorato. Onestamente, come mi ha insegnato mio padre col suo esempio quotidiano. Come hanno fatto tanti papà “terroni” e non. Da ragazzino in fabbrica, la minuscola fabbrica di papà dove tutti si dava una mano: padre, madre, figli, zii e zie, cugini e nipoti. Limoni, succhi ed essenze: per mantenere la famiglia, mandare i ragazzi a studiare e versare una goccia nel mare del made in Italy. Vorrei dire in South of Italy. Ci si alzava alle cinque del mattino, un paio d’ore di lavoro, poi a scuola, al liceo. Passione per latino, greco e storia. Voto finale: 60/60. D’estate a pescare in ciurme improvvisate e ammutinate di studenti-pescatori, notti intere e lunghe giornate sotto il sole: pescespada, tonni, pesce azzurro. Ti spettava la tua “parte” e qualche biglietto da mille. Partecipazione agli utili, come ci insegnava il nostro segretario di sezione. Modello Volkswagen, diremmo oggi. Ho fatto anche per dieci anni il dipendente pubblico, dopo avere vinto un regolare concorso. Quindi il giornalista, pubblicista prima. Sono passati più di 30 anni. Almirante impose al riluttante Tripodi di rilasciarmi l’attestazione per gli articoli che avevo scritto per il Secolo d’Italia. Il “ragazzo”, diceva Giorgio, ne aveva diritto. Per noi giovani di allora era l’unico premio per chi si impegnava, pensava, scriveva. Poi professionista. Nulla di esaltante: il Roma, uffici stampa, collaborazioni, quotidiani ed emittenti locali. Insomma ho lavorato con la piccola etica professionale trasmessami dal mio amico Adolfo Urso: impara il mestiere, cerca di diventare un buon giornalista, non un grande giornalista. Ho imparato il mestiere. Punto e basta. Senza pretese.
Quanto alla politica e al consenso di cui secondo Sallusti, come per il lavoro, “non c’è traccia”, cerco di rimediare con qualche informazione. In tempi di facili polemiche sui deputati “nominati”esibisco pure qualche prova. Decine di candidature alle comunali, mi sono fatto le ossa come amministratore per una ventina di anni. Due candidature e due legislature all’Assemblea regionale siciliana: 8.400 voti di preferenza nel 1991 (Msi), 15 mila nel 1996 (Alleanza nazionale). Si, 15 mila cittadini avevano scritto il mio cognome sulla scheda. Primo degli eletti nella mia lista e tra i candidati di tutte le liste del mio collegio. Terzo per preferenze tra i 90 di Palazzo dei Normanni. Il consenso, caro Sallusti, quanto è duro guadagnarselo in tempi di preferenze. Com’è difficile presidiare il territorio, conquistare la fiducia della gente, rimanere impermeabili alle insidie. Soprattutto in Terronia. Ho fatto per due anni e mezzo l’assessore al Lavoro. Forse di me si ha un ricordo migliore della vicenda giudiziaria di cui il Giornale ha avuto più volte cura di scrivere, conclusasi, come ha dovuto ricordare, con un’assoluzione piena. Assoluzione piena, non prescrizione. E anche il procedimento dinanzi alla Corte dei Conti sulla vicenda minore dei biglietti aerei si è chiuso con un nulla di fatto. Poiché al Giornale non hanno tempo, spazio e memoria per farlo, ricordo qui solo una legge regionale che feci approvare allora: la 30/1998. Assicurava sgravi contributivi per sei anni alle imprese che assumevano giovani disoccupati siciliani. La “legge Briguglio” approvata dall’Unione Europea e pure lodata nelle sue pubblicazioni ufficiali. Per carità una piccola “cosa” che insieme ad altre, ancora la gente ricorda. Potrei citare altro, ma servirebbe a poco. Quella legge è una metafora, spero che dia l’idea di una visione, diciamo così, da “economia sociale di mercato”.
Quanto alla politica ho fatto la fila e la trafila come tanti miei colleghi che hanno la colpa di venire dalla gavetta e da una scuola di formazione un po’ più dura delle convention annuali e delle cene serali. Ho fatto il dirigente giovanile, il segretario di sezione, il segretario provinciale, il membro del comitato centrale: come si chiamavano nel Msi. E’ uno così, caro Sallusti, che nel partito di Fini, nel 2001 diventa deputato, è rieletto nel 2006 e ancora nel Pdl due anni dopo. Una lista con due capilista: Berlusconi e Fini. E Fini. Lo ripeto perchè molti ora vogliono dimenticarlo. In An ho diretto dipartimenti nazionali, ho fatto il capo della segreteria politica e il vice capogruppo alla Camera; sono stato componente della direzione e dell’esecutivo. Ho fatto congressi, convegni, relazioni, interventi, articoli. Decine, centinaia. Un migliaio o più (chi li ha mai contati?) di comizi in piazza, dalle città ai paesini più sperduti. Ma sempre tra la gente, come ci insegnarono fin da “piccoli”. E un po’di più i libri letti, alcuni non solo una volta, gelosamente custoditi nella stanza del tesoro di casa mia: la biblioteca. Non ho mai perso il vizio di leggere i miei dieci libri al mese. Di questo sono grato all’Alitalia e ai suoi matematici ritardi. Nel Pdl sono stato vice di Cicchitto insieme ad altri. Da self-made man credo di non avere demeritato. Per Sallusti e il Giornale avrò certamente demeritato per avere votato nella direzione Pdl contro il documento della maggioranza, a sostegno delle posizioni espresse da Gianfranco Fini. Non è colpa mia se il mio modesto pensiero politico sia stato scarsamente notato dal quotidiano di proprietà della famiglia Berlusconi. Per la verità fino a qualche mese fa i suoi cronisti, alcuni veramente bravi, mi cercavano ogni giorno. E puntualmente riportavano un pensiero, una dichiarazione, una riflessione. Avrà fatto un errore di valutazione lo stesso Giornale, se attraverso la splendida penna di Giancarlo Perna, il 12 luglio di sei anni fa, quando i tg non sbagliavano a dare spazio alle mie opinioni, mi dedicò un ritratto a tutta pagina? E così anche dopo quando da membro del Copasir difesi il presidente del Consiglio dallo “spionaggio” di Villa Certosa, molto prima di avere osato chiedere chiarimenti sulla villa di Arcore? O quando presi le difese di Vittorio Feltri contro la sospensione dall’Ordine in occasione del caso Boffo.? O quando, con disappunto di tante colleghe del Pdl che fischiavano l’ingresso in aula di Daniela Santanchè, andai a stringerle platealmente la mano in segno di solidarietà e in nome di uno stile ormai perduto? Allora al Giornale, si sapeva chi ero e sulle sue pagine è rimasta “traccia” sia di quello che pensavo che di quello che dicevo. Oggi non più. Lo trovo normale dopo la campagna scandalistica contro il presidente della Camera e dopo avere io direttamente posto al premier alcune questioni che per alcuni, lo capisco, sono inopportune o impertinenti. Gheddafi (benvenuto Colonnello!), Putin, le nostre relazioni internazionali, i Servizi deviati e inquinati, il conflitto d’interesse, il processo breve. Tutte questioni politiche, mai gossip e vicende private o familiari. Comprendo anche che difendere il mio leader, la mia visione della politica, la mia e nostra idea dell’Italia, certamente diversa da quella che hanno Marchionne e Geronzi (tornerò sul tema, Gad Lerner e Cesare Romiti hanno aperto un interessante dibattito), voglio ancora sperare non del tutto diversa da quella che ha Silvio Berlusconi, non può ottenere il consenso di Feltri, di Sallusti e del Giornale. Ma duellare con rispetto reciproco, senza alterare la verità, diventa necessario se si vuole tornare a un dibattito politico e anche a una libera informazione capaci di ritrovare la strada della civiltà e della responsabilità.