di Lorenzo Frigerio
Più di 40 summit di mafia nel giro di due anni, oltre 500 affiliati in tutta la Lombardia, 15 “locali” di ‘ndrangheta sbaragliati, 304 arresti divisi in parte equa tra Lombardia e Calabria, 55 perquisizioni, 60 milioni di euro di beni sequestrati, ingenti quantitativi di droga e armi finiti sotto chiave: sono solo alcuni delle cifre che restituiscono, del tutto parzialmente, ma efficacemente, la complessità dell’inchiesta denominata “Il crimine” e condotta dalla DDA di Milano e da quella di Reggio Calabria che ha scosso nelle ultime ore l’opinione pubblica, soprattutto lombarda.
“La più vasta operazione mai condotta nei confronti delle mafie, della ‘ndrangheta in particolare, nella storia del paese”: così i giudici Giuseppe Gennari e Andrea Ghinetti nell’ordinanza descrivono il blitz delle forze dell’ordine contro i clan presenti in Lombardia, terra di conquista e di saccheggio.
Sono state colpite le famiglie leader della ‘ndrangheta delle province di Reggio Calabria, Vibo Valentia e Crotone: i Pelle di San Luca, gli Iamonte di Melito Porto Salvo, i Pesce-Bellocco e gli Oppedisano di Rosarno (in manette anche l’ottantenne boss Domenico Oppedisano considerato al vertice delle famiglie di ‘ndrangheta). Arresti anche per altre famiglie: i Commisso di Siderno, gli Acquino-Coluccio ed i Mazzaferro di Gioiosa Ionica, gli Alvaro di Sinopoli, i Longo di Polistena.
Il brusco risveglio. Milano e la Lombardia si svegliano da un lungo torpore di questi ultimi decenni e si trovano la mafia davanti all’uscio di casa, assistendo impotenti agli arresti e ai sequestri eseguiti da un vero e proprio esercito coordinato dai magistrati: circa 3.000 uomini delle forze dell’ordine, in larga parte della Polizia di Stato e dell’Arma dei carabinieri hanno eseguito arresti, perquisizioni e sequestri.
Purtroppo si è trattato di un brusco risveglio, ma non è la prima volta che succede e anche questo è un dato che dovrebbe far riflettere su come si possa perdere facilmente la memoria in questi casi. Infatti, a metà degli anni Novanta, la DDA milanese mandò alla sbarra e fece condannare quasi tremila affiliati alle cosche. Un piccolo record – nello stesso periodo la DDA di Palermo aveva fatto arrestare e processare un migliaio di mafiosi – che passò, anche allora in cavalleria, tra il silenzio imbarazzato e lo stupore generalizzato. In quel momento, a parziale scusante, va detto che i riflettori erano puntati sul Palazzo di Giustizia di Milano per altri motivi: eravamo in piena Tangentopoli e il pool di Mani Pulite stava spazzando via un’intera classe dirigente, resasi responsabili di corruttele e malversazioni di denaro pubblico a piè sospinto.
Oggi i tempi sono cambiati, ma a differenza della polvere che si nasconde sotto il tappeto, per dare l’impressione che la casa sia pulita, oggi non è possibile liquidare nell’indifferenza boss e picciotti e quindi il loro ruolo ingombrante deve essere analizzato e metabolizzato, se si vuole trarre utile insegnamento da quanto è accaduto e rafforzare gli anticorpi.
Intanto sarà opportuno studiarsi nei dettagli la voluminosa ordinanza di custodia cautelare nella quale sono contenute le accuse ai clan colpiti dal maxi blitz: i capi di imputazione vanno dall’associazione di tipo mafioso all’omicidio, dall’usura all’estorsione, dal traffico di armi a quello di stupefacenti. Una presenza militare e soprattutto economica che sfata una volta per tutte il tabù della presenza delle mafie al nord.
La riforma federalista. Il dato più importante, che emerge dall’operazione presentata alla stampa da Ilda Boccassini, Giuseppe Pignatone e Piero Grasso e dai vertici delle forze dell’ordine, è costituito sicuramente dalla riforma organizzativa messa in campo dalla ‘ndrangheta: da struttura criminale incentrata sulle famiglie di sangue all’impiego di forme di coordinamento che ricalcano il modello fin qui adottato da Cosa Nostra. Qualcuno ha anche parlato di riforma federalista, ironizzando sul fatto che il nuovo modello sia venuto alla luce proprio in Lombardia, parte di quell’agglomerato territoriale denominato dai leghisti con un artifizio letterario “Padania”. Mentre si discute di federalismo fiscale, di costi della politica, le mafie non stanno a guardare e trovano nuovi sistemi operativi, mettendo finanche in discussione l’elemento fondamentale per la ‘ndrangheta: la centralità della famiglia di sangue nell’organizzazione dei business criminali, sacrificata oggi sull’altare dei benefici collegati alla globalizzazione dei traffici illeciti.
In terra di Calabria si consolidano i tre mandamenti – quello Tirrenico, quello del Centro e quello Jonico, composti da diversi locali – coordinati da una sorta di cupola, denominata “la Provincia” che ha il pieno potere sui clan che operano in Italia e all’estero, soprattutto per quanto attiene al narcotraffico e agli appalti pubblici: secondo gli investigatori, infatti le cosche di Reggio Calabria sono “il centro propulsore delle iniziative dell’intera organizzazione mafiosa, nonché il punto di riferimento di tutte le proiezioni extraregionali, nazionali ed estere”.
“La ‘ndrangheta – ha ribadito il procuratore di Reggio Calabria, Giuseppe Pignatone – è riuscita a diventare una vera e propria holding del mercato della droga grazie alla sua ramificazione in ogni parte del mondo”.
La novità, che sottolinea l’importanza assunta da Milano e le altre province lombarde nello scacchiere mafioso, è data dall’istituzione di un quarto conglomerato mafioso, quasi autonomo ma comunque direttamente collegato alla “Provincia”, ribattezzato – pensate che grande fantasia! – “la Lombardia”. Un nuovo soggetto criminale per il quale qualcuno, come Carmelo Novella si spinse improvvidamente a richiedere piena autonomia dalla Calabria, ricevendone in risposta soltanto dei micidiali colpi di pistola.
L’operazione ha consentito di sgominare molti locali di ‘ndrangheta. Un elenco di per sé eloquente: Bollate, Cormano, Bresso, Milano Centro, Pioltello, Limbiate, Solaro, Mariano Comense, Corsico, Rho, Pavia, Erba, Canzio, Legnano, Desio, Seregno. Da Milano città alla provincia, per arrivare ai territori della nuova provincia di Monza e Brianza, i clan avevano allargato il loro controllo, infiltrandosi in ogni modo. “I 500 affiliati di cui gli stessi boss parlano sono solo un punto di partenza – ha dichiarato Ilda Boccassini – sappiamo che sono molto di più quelli radicati nel territorio, che esercitano lavori vari. Il nostro metodo è stato entrare nella vita di queste persone e vedere con chi si sono interfacciati, quali sono stati i loro interessi, quale la portata criminale sia dal punto di vista dell’apparato militare sia dal punto di vista di appoggi e referenti. Quale sia la possibilità di penetrazione”.
Intercettazioni e silenzi. Di straordinaria rilevanza si sono dimostrate ancora una volta le intercettazioni telefoniche ed ambientali che hanno consentito alle forze dell’ordine e alla magistratura, per ben due anni, di ascoltare dalla viva voce dei mafiosi il loro giro di affari e di collusioni. Durante una di queste intercettazioni venne alla luce un episodio che si è rivelato, alla lunga, essere uno stimolo in più per investigatori e giudici nell’andare avanti con le indagini.
Dopo l’uccisione di Novella, l’investitura temporanea del nuovo capo de “La Lombardia” Pasquale Zappia, venne decisa, su indicazione di Pino Neri, altro boss temporaneamente al vertice del sodalizio, al termine di una cena, tenutasi all’interno di un circolo ricreativo per anziani che si trova a Paderno Dugnano, alle porte di Milano. Un centro intitolato – ironia della sorte o sfregio ricercato non è dato ancora di sapere quali furono le motivazioni che portarono i boss a scegliere quel luogo – alla memoria dei giudici Falcone e Borsellino.
A fare da contraltare alle voci di dentro, alle parole e alle ammissioni degli stessi mafiosi sono i silenzi e le omertà diffuse su larga scala. Su quest’aspetto ci sarebbe molto da riflettere soprattutto a livello di opinione pubblica, di realtà imprenditoriali e di istituzioni.
A distanza di pochi giorni dalla precedente operazione contro il clan Valle, la Boccassini non ha perso l’occasione per sottolineare quanto aveva già avuto modo di dichiarare: il silenzio delle vittime delle mafie è assolutamente assordante. Nessuno di coloro che è finito sotto le sgrinfie dei clan mafiosi ha ammesso di essere usurato o estorto. Segno che l’intimidazione nei loro riguardi ha raggiunto l’obiettivo, fino ad arrivare al punto di negare l’evidenza di fronte agli stessi inquirenti
Affari e politica a braccetto. L’altro elemento emerso con grande forza dall’inchiesta che ha portato a sgominare “la Lombardia” è dato dal connubio tra affari, crimine organizzato e politica. Le indagini, infatti, secondo quanto riportato dagli investigatori, avrebbero permesso di “documentare la gestione delle attività illecite in Calabria e le infiltrazioni della ‘ndrangheta nel nord Italia, dove stava estendendo i propri interessi illeciti in diversi settori economici”.
Tra i tanti arrestati, infatti, si segnalano i nomi di Carlo Antonio Chiriaco, direttore della ASL di Pavia; dell’assessore comunale di Pavia Pietro Trivi, accusato di corruzione elettorale; di Antonio Oliviero, ex assessore della Provincia di Milano nella giunta di centrosinistra guidata da Filippo Penati e degli imprenditori Francesco Bertucca e Ivano Perego, responsabile della Perego Strade, ricollegabile direttamente al clan Strangio.
Tutti questi soggetti, in attesa della convalida delle ipotesi di imputazioni, sarebbero stati organici agli affari delle cosche calabresi e di quelle operanti in Lombardia. Tramite loro i clan avrebbero avuto modo di influenzare anche le campagne elettorali.
In particolare, oltre ai diversi tentativi di uomini delle cosche di giocarsi in proprio a livello comunale, l’inchiesta avrebbe messo in luce il tentativo di indirizzare voti in favore di Giancarlo Abelli del PdL durante le ultime elezioni regionali. Dopo essere diventato consigliere regionale, Abelli ha preferito lasciare la carica, per esercitare il suo mandato alla Camera dei Deputati, dove era stato precedentemente eletto. Chiriaco e altri sarebbero stati il tramite per la compravendita di voti. Va detto che Abelli, al momento, risulta estraneo all’accaduto.
Altri nomi di politici compaiono nel provvedimento; sono quelli dell’ex assessore regionale all’ambiente Massimo Ponzoni (Pdl), dell’ esponente dell’Udc Emilio Santomauro, prima in Alleanza Nazionale e di Guido Nardini, concorrente al comune di Cinisello Balsamo per il Pdl. Nell’ordinanza si fa riferimento a loro come a “politici avvicinati dal gruppo e coinvolti in un rapporto sistematico di cointeressenze”.
Tra gli indagati sono finiti anche quattro carabinieri di Rho (Milano), uno dei quali con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa e tre per altri reati, compresa la corruzione.
Una doverosa sottolineatura. Ora inizia il lavoro più duro per la magistratura, chiamata a provare in aula il contenuto dell’ordinanza di custodia cautelare. Siamo certi che la professionalità dimostrata in passato e corroborata dai risultati dell’oggi, da un procuratore come Ilda Boccassini, sia una garanzia di assoluta imparzialità e crediamo che il processo dimostrerà la bontà dell’impianto accusatorio.
Spiace solo dover vedere in queste ore il gioco delle dichiarazioni politiche, fatto di accuse e repliche, di smentite e di “io l’avevo detto”. Ci sarebbe piaciuto che la politica, tutta la politica al di là di ogni schieramento, si fermasse un attimo e, in silenzio, riconoscesse i propri errori, le proprie sottovalutazioni e le proprie strumentalizzazioni. La situazione è molto seria, più di quello che si pensi. Siamo all’inizio di una valanga, che corre il rischio di trascinare via tutto al suo passaggio.
Confidiamo nella serietà di magistratura e forze dell’ordine come unico baluardo alla deriva che, potrebbe nel corso dei prossimi mesi, verificarsi irrimediabilmente.
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