Il blocco sociale della depressioneUna lettera firmata da oltre cento economisti italiani punta il dito contro le politiche varate dai governi europei: “Non servono contro la speculazione e rischiano di provocare una caduta ulteriore dei redditi e dell’occupazione”.
di Emilio Carnevali
Un’indagine condotta da Demos-Coop per l’Osservatorio sul capitale sociale certifica come la quota di popolazione che esprime un giudizio positivo sull’operato del governo sia ad oggi del 42%, il livello più basso degli ultimi 2 anni. Fra le persone in difficoltà economica e occupazionale la percentuale scende al 34. “Si tratta di una novità”, ha scritto Ilvo Diamanti sulla Repubblica di ieri (14/6) commentando i risultati del sondaggio. “Negli ultimi anni il governo Berlusconi aveva attraversato le crisi economiche senza pagare un prezzo significativo, dal punto di vista del consenso politico. Ora qualcosa si è rotto in questo meccanismo. Anche se ciò non implica necessariamente una svolta”, ha aggiunto.
Infatti, nonostante il calo di consenso prodotto dalla recente manovra economica e dal perdurare degli effetti della crisi, il malessere sociale presente nel paese non trova ancora una traduzione politica in grado di mutare gli equilibri esistenti. E questo essenzialmente per due ragioni.
In primo luogo a causa dell’affermarsi a livello di “senso comune” di una concezione “meteorologica” della crisi: quest’ultima sarebbe simile a un fenomeno naturale di origine ignota le cui responsabilità politiche non sono certamente attribuibili al governo in carica (tanto più visto che l’epicentro della scossa sarebbe individuabile negli Stati Uniti d’America e nei famigerati mutui subprime che hanno dato avvio ai tracolli finanziari); allo stesso modo sarebbero da considerarsi necessarie e “obbligate” le manovre di riduzione del debito varate dai governi europei per contrastare la speculazione internazionale sui propri titoli di stato.
La seconda ragione risiede nella mancanza di una alternativa credibile a livello politico: non è un caso se nello stesso sondaggio citato sopra l’opposizione raccoglie solamente il 25,5% di giudizi favorevoli (percentuale che non muta nemmeno fra le fasce più esposte al disagio).
I due fattori – aspetti analitico-descrittivi ed elementi politici – sono tuttavia indissolubilmente legati: le difficoltà delle sinistre italiane ed europee affondano le proprie radici nell’incapacità di scrollarsi di dosso interpretazioni e proposte politiche subalterne alle tesi neoliberiste. Atteggiamento tanto più miope quanto più la crisi economica si sta traducendo anche in una crisi delle teorie ortodosse che fino a poco tempo fa godevano di una egemonia semi-incontrastata.
Un segnale rilevante di come la dialettica interna al mondo scientifico ed accademico si stia aprendo forse di più di quanto avvenga nel mondo politico è costituito dalla lettera firmata da oltre cento economisti italiani – fra i nomi più noti quelli di Roberto Artoni, Paolo Bosi, Marcello De Cecco, Pierangelo Garegnani, Augusto Graziani, Paolo Leon e Giorgio Lunghini – e consultabile sul sito www.letteradeglieconomisti.it.
La lettera – indirizzata “ai membri del Governo e del Parlamento, ai rappresentanti italiani presso le Istituzioni dell’Unione europea, ai rappresentanti delle forze politiche e delle parti sociali, ai rappresentanti italiani presso le Istituzioni dell’Unione europea e del Sebc, e per opportuna conoscenza al Presidente della Repubblica” – è stata presentata oggi a Roma da Emiliano Brancaccio e Riccardo Realfonzo dell’Università del Sannio e Antonella Stirati dell’Università di Roma Tre (promotori dell’iniziativa insieme a Bruno Bosco e Roberto Ciccone).
Nel testo si punta decisamente il dito contro le politiche di tagli e sacrifici attuate dai governi europei per risanare i bilanci pubblici, allontanare la speculazione e salvaguardare l’euro. Queste politiche rischiano di aggravare “il profilo della crisi, determinando una maggior velocità di crescita della disoccupazione, delle insolvenze e della mortalità delle imprese”, e potrebbero “a un certo punto costringere alcuni Paesi membri a uscire dalla Unione monetaria europea”.
Il punto fondamentale da comprendere, sostengono gli economisti, “è che l’attuale instabilità della Unione monetaria non rappresenta il mero frutto di trucchi contabili o di spese facili. Essa in realtà costituisce l’esito di un intreccio ben più profondo tra la crisi economica globale e una serie di squilibri in seno alla zona euro, che derivano principalmente dall’insostenibile profilo liberista del Trattato dell’Unione e dall’orientamento di politica economica restrittiva dei Paesi membri caratterizzati da un sistematico avanzo con l’estero”.
Con queste politiche restrittive l’Italia rischia di ripercorrere la strada del 1992, quando un attacco speculativo nei confronti della lira indusse il governo a varare un gravoso programma di “austerità” che tuttavia non riuscì ad evitare l’uscita dallo Sme (Sistema monetario europeo) e la conseguente svalutazione della nostra valuta.
È evidente che oggi occorre porre un argine alla speculazione in corso. Ma per farlo, si legge ancora nel documento, è necessario “sgombrare il campo dalle incertezze e dalle ambiguità politiche”: bisogna “che la BCE si impegni pienamente ad acquistare i titoli sotto attacco, rinunciando a ‘sterilizzare’ i suoi interventi.
Occorre anche istituire adeguate imposte finalizzate a disincentivare le transazioni finanziarie a breve termine ed efficaci controlli amministrativi sui movimenti di capitale”. E “se non vi fossero le condizioni per operare in concerto, sarà molto meglio intervenire subito in questa direzione a livello nazionale, con gli strumenti disponibili, piuttosto che muoversi in ritardo o non agire affatto”.
Inoltre, per evitare che la crisi si avviti su se stessa e che le politiche restrittive stronchino sul nascere i timidi segnali di ripresa comparsi nei mesi scorsi, “occorre sollecitare i Paesi in avanzo commerciale, in particolare la Germania, ad attuare opportune manovre di espansione della domanda”.
Purtroppo gli indirizzi di politica economica dei governi europei, compreso quello italiano, vanno in direzione esattamente contraria. “A quanto sembra”, per usare le parole di Paul Krugman riportate sulla prima pagina del Sole 24 Ore di domenica, “i falchi del disavanzo hanno preso il controllo del G-20”.
L’allarme però è lanciato. Un’opposizione degna di tale nome dovrebbe farlo proprio e attrezzarsi di conseguenza per dimostrare che una politica economica alternativa al “lacrime e sangue” promesso da Berlusconi-Tremonti-Merkel non solo è possibile, ma è tanto più necessaria oggi che in gioco c’è la stessa sopravvivenza dell’Europa come soggetto politico e “modello sociale”.