"Atletica penitenziale: alle origini della religiosità  e della ritualità  barocca in Puglia”. Saggio del grande studioso prof. Cosimo Damiano Fonseca

Con vero piacere parliamo di uno dei tanti saggi del prof. Cosimo Damiano Fonseca, ambasciatore illustre della cultura meridionale ed italiana nel mondo.
«Atletica penitenziale: alle origini della religiosità e della ritualità barocca in Puglia”, è il titolo del saggio (inserito anche nella cartella artistica di Nicola Andreace) e già in “ La Puglia tra barocco e rococò” (Milano 1982, pp. 319 372 e 391-392), di cui ha parlato nei giorni scorsi in occasione della riapertura dell’Oratorio dell’Arconfraternita SS.mo Sacramento di Massafra (Puglia).
«Finita l'Atletica penitentiale, rimase tutta la città così bramosa della Divina parola, che nuovi principij desiderato haurebbe a Missione si Santa, se non havesse compatito i Padri mezo infermi per le fatighe sostenute, e bisognevoli di riposo». Così conclude il racconto della Missione tenuta da tre Gesuiti nel 1679 a Bitonto il «dottor fisico» Bartolomeo Maiullari in un opuscolo «L'Arcano della Perpetuità» pubblicato a Napoli nel 1680.
E che si tratti di una spia particolarmente preziosa per cogliere alcuni interessanti aspetti dea pietà meridionale dove le forme di penitenza collettiva si accompagnano a tensioni emotive, ad apparati scenografci, a gestualità teatrali, varrà a dimostrarlo la stessa cifra della scrittura del medico bitontino indulgente all'enfasi letteraria, alla sovrabbondanza della citazione e del supporto erudito, all'effetto mirabolante e alla presa sicura.
La missione aveva avuto inizio il 23 maggio 1679 e «per otto giorni continui abbandonati i pubblici negotii, e familiari facende, altro impegno non si mirava, in questa non so se più Città, o pure universale Oratorio». Le giornate erano scandite oltre che da «meditazioni» e da «prediche», dalla «disciplina» penitenziale, dalle pubbliche penitenze e dalle solenni processioni: il tutto realizzato in un clima di fastosa spettacolarità. Varrà ricordare, a titolo di esempio, il modo con il quale il predicatore stimolava i presenti alla penitenza volontaria, reggendo su un panno nero un Crocifisso «disteso in mezzo a molti teschi et ossa spolpate, spettacolo, che insieme a riverenza movea et a timore»: l'effetto era immediato, in quanto alcuni recitavano il Pater noster aprendo le braccia a forma di croce, altri si schiaffeggiavano più volte «con impeto di fervorosa divotione», altri ancora baciavano i piedi dei vicini «determinatoli dall'humili comandi del Padre, o a gridar Misericordia e pieta per eccitare compuntione, o a dichiararsi peccatori, i più meritevoli di castigo, o ad accusarsi di difetti notorj in segno di pentimento costante, o ad humiliarsi a' piedi di Monsignor Vescovo ivi esemplarissimo assistente una col Reverendissimo Signor Vicario, Signor Sindaco, Nobilta e Cittadinanza con molta edificazione di chi li osservava esser de' primi a mostrar segni di solissima divotione, dalla quale si sarebbero eccitati dall imitatione cuori lavorati ad acciaro e diamante». Anche i sacerdoti presenti salivano sul pulpito «in habiti di penitenza» e ad alta voce chiedevano perdono degli scandali dati, «e con gagliarde battiture si percuotevano a colpi di ferre catene, a scossi di pugni a maltrattamenti di schiaffi, cosa che muovea più di mille oratorie persuasive le colonne !stesse della Chiesa a spirar sensi di tenerezze».
«Mostrar segni», ricercare «cose che muovea»: espressioni oltre che ricorrenti nella scrittura del Maiullari, significative di un modo di porsi della religiosità popolare di fronte alla sfera del sacro, dove più che la dimensione intellettualistica della fede, rlsultava prevalente e preminente il fatto morale, il senso della espiazione, la sofferenza che rendva possibile il riscatto: di qui il ricorso a un rituale mortificante presentato con tutti i crismi della spettacolarità e della drammatizzazione. «Era un bel spettacolo»: è un modo di.introdursi consueto del nostro Autore per descrivere episodi esemplari, come quello dei chierici che donavano al Crocifisso i loro capelli e che, con il loro gesto, spingevano «molti Assaloni avventurati sospendersi per le zazzere all'arbore vital de la Croce». Ma dove queste forme di religiosità dell'età barocca si esprimono compiutamente, con tuta la loro carica ideologica e con tutto il loro spessore morale, è nella ritualità penitenziale delle processioni, specialmente in quelle legate al ricordo della Passione di Cristo. Il Maiullari le chiama, per distinguerle da quelle private, «penitenze le più comuni e universali a buona parte o a tutta questa rassegnata città». A cominciare da quella degli Scolari d'età inferiore ai dodici anni («Questi con bell'ordine comparsero legati di fune e aspersi di cenere, con corone di spine in testa in varij atti di mortificazione, chi battendosi con disciplina di ferro, chi con canape rannodato, chi con ruvida pietra, chi contemplando un teschio spolpato, chi sospirando su d'un Crocifisso spirante, e tutti con singolar modestia, e saggio d'indole santificabile») a quella dell' Addolorata («vestita a lugubre, con velo nero in testa e pugnale al petto»), seguita alla predica sul Giudizio finale, alla processione del Santissimo Corpo di Cristo per finire a quella della Passione del Signore. Quest'ultima, maturata proprio nel clima spirituale della Riforma cattolica, permarrà (anzi permane) come un elemento costante della religiosità popolare pugliese continuamente ripresentata e riattualizzata come fatto esemplare e normativo per il fedele: la passione di Cristo come modello per la passione dell'uomo. Nella descrizione del Maiullari concorrono tutte le componenti del fasto, dello spettacolo, della drammatizzazione, della teatralità. La processione «disposta in undici squadroni con ordinatissima simmetria», composta da «gente panitentiata», si snodò dalla Porta Maggiore, detta Porta di Bari. Era aperta da uno stendardo retto da un Sacerdote scalzo e «penitentiato», preceduto da un Trombettiere vestito di nero che intonava «lugubri» melodie «con la flebilità dell'oricalco dimesso». Seguiva una grande Croce «ornata con tutti i misteri della Passione di Cristo», portata da un altro Sacerdote «mortificato e scalzo» attorniata da Angioletti e da Chierici con candele accese. Subito dop avanzava il primo «squadrone» composto dai Confratelli dell'Oratorio del Santissimo Crocifisso con «nere cappe lunghe», aspersi di cenere e coronati di spine che, poco prima, nell'Oratorio erano stati preparati al rito penitenziale da un sacerdote teatino. Il secondo squadrone era composto dai Confratelli di San Giuseppe, il terzo e il quarto rispettivamente dai giovani e dagli artigiani e dai vecchi.
Il quinto squadrone era formato da centocinquanta soldati «con armi rimesse e sospese sulle spalle più per riceverne peso, che ornarnento, e preceduti da tamburi, e bandiere tinte dal colore di quelle Parche, che sogliono le guerre seminar nelle campagne. onde si miete la gloria».
Nel penultimo squadrone confluiva la municipalità bitontina e la nobiltà precedute dal Sindaco che reggeva un Crocifisso attorniato da una schiera di angioletti «con varij Misteri della Passione di Cristo» e da alcuni Sacerdoti che reggevarlo recipienti d’argento colmi o di cenere o di «compositioni lascive» e di libri proibiti raccolti per essere bruciati o, ancora, di paramenti sacri destinati al Padre
Gesuita che doveva tenere, al termine della processione, la predica delle Benedizioni.
Chiudeva il lungo corteo il Vescovo della Città cui «per saggio di heroica humiltà» faceva da caudatario il Regio Governatore, circondato dal Vicario, dai Canonici e dai Parroci, «portando un coro di Musici penitenti quali con flebili canzoni, accompagnavano una Bara dove giva distesa la statua del morto Nostro Signore, pianto da calde lacrime di molti populani, che nell'ottavo squadrone seguivano, e di figliole scapigliate, la di cui guida era un fervente Predicator Cappuccino…». Le «penultime truppe» composte dalle Dame della nobiltà, dalle «Donne civili e poi seguite da tutte le altre del Popolo» portavano nel mezzo la «Statua della Vergine vestita di bruno».
Al termine della processione, «salito in Palco lugubre» fuori Porta Maggiore dopo che furono dati alle fiamme i libri proibiti, uno dei Gesuiti pronunziò «un breve e fervoso Sermone in lode della penitenza» e «ci lasciò con molti raccordi e con mille benedittioni divine».
Si concludeva così «l'Atletica penitentiale» nella Bitonto del 1679 con il suo corredo di riti e di gesti, con le sue espressioni di teatralità e di spettacolarità, con il suo fervore drammaturgico e la sua suggestiva capacità di incidenza entro un humus culturale dove il fatto religioso costituiva un elemento fortemente aggregante e totalizzante, oltre che sul piano spirituale, su quello sociale, civile ed umano.
Ma questa che pertinentemente è stata definita la «strategia missionaria gesuitica» all'interno della realtà territoriale pugliese contava già alcuni decenni, come risulta dalle «Annuae Litterae» della Provincia napoletana della Compagnia di Gesù dell'ultimo decennio del XVI secolo.
Comunque è su queste radici che maturano alcuni aspetti della pietà popolare pugliese, indulgenti verso la drammatizzazione e lo spettacolo, incline verso ciò che può colpire, anche visivamente, la sensibilità, compiacente verso il dolore pubblicamente espresso, attenta al pianto coralmente manifestato, generosa verso i riti di passione e di espiazione. A titolo esemplificativo basterà far cenno alle due grandi processioni tarantine dell'Addolorata e dei Misteri, certamente collegate alla strategia missionaria gesuitica, di cui rimane memoria nelle «Annue littarae» del 1592, a proposito della missione tenuta a
Taranto in un periodo di gravi tensioni sociali e politiche. A Francavilla Fontana i riti della Settimana Santa si accompagnarono a forme di spettacolo sacro. Il Di Castri, cui si deve una raccolta di testi popolari in vernacolo che evocano gli episodi dell'Ultima Cena, della Passione e del Sepolcro, e la cui proposta aveva lo scopo di intimorire, impressionare e indurre alla penitenza, ipotizza tre periodi di svolgimento di quelle forme di spettacolo il primo esauritosi all'interno degli Oratori e delle Chiese delle Confraternite: il secondo sviluppatosi in un più diretto contatto con il popolo durante lo svolgimento delle processioni della Settimana Santa. Al fine di non creare situazioni di conflitto
tra le numerose confraternite della città o di incorrere in ripetizioni dello stesso episodio evangelico, si dovette studiare la possibilità di una comune partecipazione con differenziazioni di temi intorno
a statue viventi con gruppi di attori e di coreuti che cantavano e mimavano le scene della Passione, mentre ai membri delle Confraternite era riservata la funzione del coro. A questo periodo ne sarebbe seguito un terzo nel quale le statue viventi furono sostituite con quelle in legno e cartapesta. Frammiste ad esse rimanevano solo alcune forme ed elementi del periodo precedente, quali i penitenti scalzi e col volto coperto che trascinavano pesanti travi (trai) a forma di croci sull'esempio del gruppo statuario del Cristo sotto la croce e. coreuti che avviavano i canti della Passione e incitavano al silenzio ritmando con il battaglino (trenula) il fluire del mesto corteo. Certo intorno a questi aspetti della pietà meridionale si possono tentare letture in chiave etnoantropologica e sociologica; si può sostenere che nella configurazione rituale confluisce la duplice attesa che sostanzia la domanda religiosa popolare: consacrare il tempo e lo spazio, per cui la processione attraversa il tempo per la sua durata e copre lo spazio per la sua estensione; la sua efficacia è affidata al movimento lungo, lento, cadenzato secondo il modulo della ripetizione rituale, dell'impetrazione insistente; si può indulgere sulla funzione mimetica dell'azione della Passione come nelle processioni dei Misteri, come nell'incedere e nella foggia del vestire dei perdùne, nel loro pellegrinare da sepolcro a sepolcro percorrendo l'itinerario ideale verso il Sepolcro di Cristo, come nelle donne vestite a lutto che accompagnano la processione dell'Addolorata e che cantano e gridano, sul ritmo delle marce funebri delle bande, il loro struggente dolore. Si possono insomma invocare tutte le più raffinate tecniche semiologiche per spiegare questo fenomeno, ma non si potrà prescindere, in ogni caso, da un dato certo e incontrovertibile e cioè che tali forme dì pietà, tali modelli devozionali sorti all'interno dei contesti urbani o delle aggregazioni demiche del contado in Puglia, come nelle più vaste aree del Mezzogiorno, hanno il loro antecedente storico in quel movimento di riforma promosso nell'età barocca dal veemente impegno degli Ordini religiosi, primo fra tutti quello dei Gesuiti che, attraverso una accorta e perseverante strategia missionaria, impressero un preciso volto alla religiosità meridionale.

Un personaggio, il prof. Fonseca, davvero unico nel mondo della Cultura. Ecco alcune sue brevi note riassuntive del prof. Pietro Dalena, professore ordinario di Storia Medievale (titolare della cattedra di Antichità e Istituzioni Medievali) presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università della Calabria-Cosenza. Università della Calabria che nel 2008 ha conferito all’illustre studioso prof. Fonseca la Laurea ad honorem in Storia e Conservazione dei Beni Artistici ed Archeologici
Nato nel 1932 a Massafra, compiuti gli studi teologici a Napoli, Cosimo Damiano Fonseca è stato ordinato sacerdote nel 1954, a soli 22 anni, con dispensa papale, poiché secondo il Diritto Canonico l’età minima è 24 anni.
Laureato in Teologia ed in Filosofia, con specializzazioni in Storia e Civiltà del Cristianesimo ed in Paleografia, Diplomatica e Dottrina Archivistica, ha insegnato nell’Università Cattolica di Milano (Storia medievale, sia nella sede di Milano che in quella di Brescia), a Bari (Storia medievale e Storia del Cristianesimo), a Lecce (Storia medievale) e nell’Università della Basilicata (Storia medievale, Paleografia latina e Diplomatica).
A Lecce è stato Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia per nove anni. Direttore, prima, dell’Istituto di Storia medievale e moderna, e poi del Dipartimento di Scienze Storiche e Sociali.
Ha istituito e diretto dal 1979 al 1983 la Scuola di Specializzazione in Archeologia classica e medievale (la prima scuola istituita nel Mezzogiorno), organizzando e dirigendo anche la Fototeca della Civiltà Rupestre.
Nominato nel 1981 dal Ministro della Pubblica Istruzione membro del Comitato Ordinatore della Facoltà di Lettere e Filosofia della nuova Università della Basificata, ne diveniva – creandola dal nulla – primo Rettore per il triennio 1981/84, rieletto per i tre trienni successivi.
Nel 1991 ha istituito, dirigendola per molti anni, anche la Scuola di Specializzazione in Archeologia classica e medievale con sede a Matera.
Ideatore e condirettore dell’Enciclopedia Fridericiana della Treccani, collabora al Dictionnaire d’Histoire et de Géographie ecclésiastique ed al Dizionario Biografico degli Italiani (Fondazione Treccani).
E’ membro di numerose Accademie ed Istituti scientifici, tra cui l’Accademia Nazionale dei Lincei, l’Istituto Lombardo – Accademia di Scienze e Lettere, l’Accademia Pontaniana di Napoli, l’Accademia di Scienze, Lettere e Arti di Palermo.
Componente di numerose Commissioni dei Ministeri della Pubblica Istruzione, dell’Università e della Ricerca scientifica e tecnologica, degli Affari Esteri e per i Beni Culturali e Ambientali, è stato, e per alcune lo è ancora, Presidente di diverse istituzioni.
Tanti i premi ricevuti, fra i quali: Diploma di prima classe con medaglia d’oro di benemerito della Scuola, della Cultura e dell’Arte, conferito dal Presidente della Repubblica (1981); Premio Presidente della Repubblica per la Classe di Scienze morali, storiche e filologiche dell’Accademia Nazionale dei Lincei (1988); Diploma di benemerenza con medaglia d’oro della Società Dante Alighieri (1991); Sigillo d’oro delle Università di Lecce e di Foggia; Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine al merito della Repubblica; Premio scientifico della Fondazione Stauferstifftung Göpingen (2006), attribuito per la prima volta ad un italiano, per i suoi meriti relativi alla ricerca sulla vita e sull’opera di Federico II, avviati nei primi anni ’70 e confluiti, nel 1985, in uno dei suoi fiori all’occhiello, l’Istituto Internazionale di Studi Federiciani del CNR.
Tanti gli studi in suo onore – scritti da amici, colleghi, allievi diretti o indiretti – fra i quali, solo per citarne alcuni : “Caro collega… “, omaggio di Mario Congedo (1983); “Istituzioni e Civiltà del Medioevo. La Storiografia di Cosimo Damiano Fonseca”, a cura di Hubert Houben e Benedetto Vetere (2003); “Mediterraneo, Mezzogiorno, Europa”, a cura di Giancarlo Andenna e Hubert Houben (2004), due volumi di 1182 pagine complessive; “Omnia religione moventur”, a cura di Pierantonio Piatti e Raffaella Tortorelli (2006).
Componente del Comitato tecnico-scientifico per gli Archivi del Consiglio Superiore dei Beni Culturali e Paesaggistici, il prof. Fonseca contribuisce da lungo tempo sia alla valorizzazione di quelli che definisce “memoria dello Stato e autocoscienza della società civile”, sia alla tesaurizzazione di un patrimonio immenso, ancora nascosto negli archivi diocesani e conventuali, compresi quelli della sua terra. E’, infatti, Direttore dell’Archivio della Diocesi di Castellaneta, nonché Presidente della Commissione Diocesana per l’Arte Sacra ed i Beni Culturali della Chiesa Cattolica.
La sua finezza spirituale ne fa l’esemplare guida della Sezione di Castellaneta dell’Ordine Equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme, della quale è Preside, insignito della Palma d’oro di Gerusalemme.
Gran Croce del Sovrano Militare Ordine di Malta, dirige il Centro Studi Melitensi di Taranto.
Storico della Chiesa, medievista, maestro di rare capacità intellettuali e morali, punto di riferimento costante di tanti studiosi, molti dei quali formatisi alla sua scuola, egli ha fatto del suo magistero un servizio alla comunità, esercitato anche nei luoghi dove la cultura si fa istituzione.
Sempre all’altezza dei ruoli, non smentisce mai la fama che lo precede, superando sempre, in ogni contesto, ogni possibile elogio.
Eppure, quando la discussione scivola sui successi personali ed immancabilmente su quel sense of wonder che la sua persona suscita, con la naturalezza e l’affabilità che gli sono proprie, sminuisce gli apprezzamenti, riportando ad un livello di ordinarietà ciò che è invece straordinario: ” Ho semplicemente amato la ricerca scientifica, alla quale ho dedicato una parte cospicua della mia esistenza. La ricerca è scoperta continua; diventa una seconda natura. E’ suggestione. Gratifica. Non è fatica. Per me non è lavoro, sebbene stia alla scrivania ore ed ore. E’ una sorta di stimolo continuo: è la creatività al potere. Ho agito, infatti, su un duplice binario: da una parte la ricerca ininterrotta ed individuale, dall’altra la creazione di strutture istituzionali, che consentissero ad altri di studiare. Si pensi all’Università della Basilicata, all’Area di Ricerca di Potenza del CNR, all’Istituto Internazionale di Studi Federiciani del CNR”.

Uomo di scienza, ma anche uomo di governo, Fonseca è uno Storico di indiscussa dottrina, ma al tempo stesso un protagonista della storia: ne scrive e la scrive, contribuendo al processo di emancipazione delle nostre città di provincia dalla perifericità culturale.
L’internazionalità della sua attività scientifica non lo ha mai distolto dal suo Sud, proposto all’attenzione del dibattito storiografico, oltre i confini nazionali, già a partire dalla fine degli anni ’60, quando i suoi studi sulla civiltà e sul popolamento rupestre avviavano il riscatto di un segmento importante della storia meridionale, contribuendo anche alla formazione di una nuova coscienza civile, sostenuta proprio dal recuperato solco identitario.
Questo è quanto evidenzia anche don Faustino Avagliano, curatore del volume pubblicato proprio in occasione della laurea ad honorem: “Don Cosimo – egli dice – è stato ed è il grande animatore e vivificatore dell’Italia Meridionale.
Non possiamo dimenticare la sua scelta di far ritorno in Puglia, lasciando la Cattolica di Milano ed il mondo mitteleuropeo del Nord”.
Del suo Sud è parte integrante anche la Calabria, regione alla quale oggi renderà omaggio con la lectio magistralis dedicata a “Gioacchino da Fiore: i luoghi e la memoria”, argomento quanto mai opportuno, poiché il prof. Fonseca – già Presidente del Comitato Nazionale per le Celebrazioni dell’VIII Centenario dell’Abate florense (1202 – 2002) – dirige, fra l’altro, anche il Centro Internazionale di Studi Gioachimiti, di San Giovanni in Fiore, città della provincia di Cosenza, della quale è cittadino onorario.
Quanto alla Calabria, memorabile anche il contributo dato alle Celebrazioni Nazionali per il IX Centenario della morte di San Bruno di Colonia (1101 – 2001), promosse dalla Regione, che – presso l’Eremo della Torre – conserva le spoglie mortali del santo.
Taglio critico, evidente chiarezza, elegante eloquio, rendono atteso e singolare ogni suo intervento.
”Don Cosimo è un uomo carismatico, sottolinea don Faustino. Egli, possiede infatti anche il carisma della parola e l’arte di porgerla. E’ un esempio, un modello”, poiché la cultura è il suo mondo, ma soprattutto il suo modo di essere e di vivere.
Fra sacerdozio e storiografia, l’opera di Cosimo Damiano Fonseca si dispiega, dunque, all’insegna del sapere, della sapienza e della saggezza. Le tre “S” che definiscono. e determinano, una personalità d’eccezione. La sua, per l’appunto.

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