Un punto dell’economia: la presenza della politica

di Sandro Trento

Leggendo i giornali scopriamo che prima la Grecia e ora la Spagna stanno entrando nel mirino dei grandi investitori internazionali.
I grandi investitori americani parlano di PIGS, “porci” in inglese ma anche “Portogallo – Italia – Grecia – Spagna”. Di fronte a questi eventi, di fronte al rischio di una crisi finanziaria molto rilevante che possa colpire Paesi a noi vicini, la Grecia e la Spagna, abbiamo il paradosso di un Paese che ha bloccato per settimane intere risorse del Parlamento per discutere di questioni che non hanno nulla a che vedere con l'emergenza economica, ma di leggi che interessano al Presidente del Consiglio.
Nella mozione presentata dal Presidente Antonio di Pietro al Congresso nazionale è presente un affermazione che potrebbe sembrare paradossale: “il mercato è lo strumento per sconfiggere Berlusconi”. Qualcuno direbbe che Berlusconi è il difensore del mercato in questo Paese, ma è un equivoco pensare che il centrodestra sia il partito che difende il mercato e la concorrenza. In queste settimane sono usciti dei volumi molto interessanti sul ministro Tremonti, da cui si scopre come il ministro possiede una cultura anti mercato, contro la globalizzazione, contro l'apertura internazionale, contro la Cina, contro la concorrenza, è un nostalgico della proprietà pubblica, affermando che si stava meglio quando c'era l'IRI, ed è un nostalgico delle banche pubbliche (guarda caso fu una banca pubblica, la BNL a guida socialista, la prima banca che finanziò Berlusconi nella costruzione di Milano 2).
Il paradosso italiano è che le forze di centrodestra, che apparentemente dovrebbero richiamarsi ai principi del mercato e della concorrenza, hanno un impostazione culturale di stampo statalista, dove si rivendica maggior intervento pubblico, contrastando la concorrenza e l'apertura dei mercati. A questo si associano altri elementi preoccupanti, come lo scarso rispetto di una democrazia costituzionale. L'idea che l'unica fonte di legittimazione sia il voto popolare, e quindi accusare una serie di organismi intermedi, come la magistratura, la Corte costituzionale e le autorità di vigilanza, di non essere legittimati è un concetto del tutto assente dalla tradizione liberale e democratico liberale occidentale.
Un altro elemento preoccupante riguarda il principio della laicità dello Stato. In questo momento siamo di fatto l'unica forza del Parlamento che fa della laicità dello Stato un cardine fondamentale del proprio programma di governo. E' a rischio la libertà religiosa, qualcuno vorrebbe un Paese diviso tra due, tre fondamentalismi che si scannino l'uno con l'altro, si è impedito di fare ricerca con le cellule staminali, precludendo possibilità di innovazione tecnologica, e si intende impedire alle persone di scegliere la propria sorte nei momenti terminali della propria vita.
Il principio di rispetto delle regole costituzionali, il principio di laicità e il principio di centralità del mercato sono tre elementi che fanno della destra italiana un anomalia nel panorama internazionale, europeo e occidentale.
Affermare che il mercato è lo strumento per sconfiggere Berlusconi significa che in questo momento, in Italia, si devono rivedere una serie di norme e regole di comportamento individuale. Molte delle nozioni tradizionali della sinistra italiana ed europea non sono più utilizzabili per affrontare la crisi in cui versa l'Europa e l'Italia in particolare.
Penso alla questione della proprietà pubblica, che nella storia recente italiana è stata fonte di corruzione e di inefficienza. Pensate alle vicende dell'Enimont, alle vicende dell'Eni, e pensate a quanto è costato e continua a costare all'Italia la liquidazione dell'IRI. Salto sulla sedia quando sento che uno dei leader del principale sindacato italiano invoca la nazionalizzazione di fronte alla crisi dell'Alcoa. Abbiamo già dato, questo tipo di soluzioni non funzionano, non è questa la strada per far fronte alla crisi economica. La proprietà pubblica è fonte di corruzione, di inefficienza, di sperpero di denaro pubblico. La domanda è: come possiamo trovare nuovi acquirenti alle imprese in difficoltà? Il punto da cui partire è: come mai in Italia attiriamo pochi investitori internazionali? Come mai i grandi investitori internazionali non scelgono il nostro Paese per fare degli investimenti? Non credo ci sia un problema di colonizzazione, ne vorremo molti di più, la Germania e la Francia intercettano una quota molto rilevante di investimenti internazionali, e le ragioni per cui questi non investono i loro soldi in Italia sono le stesse per cui il nostro Paese è in crisi: la mancanza di infrastrutture, gli eccessivi dei tempi della giustizia, le inefficienze della burocrazia pubblica, l'eccessivo costo delle materie prime come l'energia, la scarsità di una forza lavoro qualificata, la scarsa qualità della nostra istruzione, e cosi via. Questi fattori fanno si che il nostro Paese, nel confronto con gli altri, venga scartato al momento di decidere dove investire le proprie risorse. Una moderna politica industriale incide su questi fattori, modificando la convenienza relativa di fare impresa in Italia o in un altro Paese.
Un altro punto importante da tenere in considerazione è la spesa pubblica, altra battaglia tradizionale della sinistra europea. Possiamo dire che la spesa pubblica non è la soluzione per affrontare e risolvere i problemi dell'economia italiana. Una delle ragioni è l'elevatissimo debito pubblico e il fatto che molte delle riforme e delle azioni che vi sto elencando non richiedono interventi di spesa pubblica. Questa rivoluzione liberale, che ritengo dovrebbe essere il cuore della nostra azione riformatrice, è rivolta essenzialmente a modificare una serie di regole e di comportamenti, che fanno riferimenti agli individui in tutte le loro accezioni.
Un altro elemento importante è il fatto che siamo un Paese nel quale la presenza della politica è troppo pesante nell'economia e nella società. Siamo un Paese nel quale gli imprenditori, per decidere gli investimenti che devono fare, si recano a Palazzo Chigi e ad intervistare politici prima di prendere una decisione. Pensate alle vicende delle scalate Telecom, pensate alle vicende Unipol e alle vicende Alitalia. Questa commistione tra politica ed economia è una commistione malata, una commistione che va rotta. Una rivoluzione liberale introduce il mercato come strumento di disciplina e di crescita economica, non la politica e Palazzo Chigi. Gli imprenditori, in un Paese normale, decidono i loro investimenti a prescindere da quello che decide Palazzo Chigi.
Questo “eccesso di politica” fa riferimento anche a un nodo fondamentale nel funzionamento di un economia di mercato: l'informazione. Siamo uno dei pochi Paesi nei quali gran parte dell'informazione non sono indipendenti. Non parlo solo della televisione, ma anche della stampa, e lo viviamo sulla nostra pelle: come partito pubblichiamo programmi, facciamo interventi, stiliamo documenti, che vengono sistematicamente ignorati dalla stampa nazionale. Perché? Perché anche in questo caso c'è una commistione tra blocchi di potere e proprietà dei mezzi pubblici. Sarebbe necessaria una legge di separazione tra editoria, politica e potere economico.
Essere liberali non vuol dire voler smantellare lo Stato. In questo momento lo Stato italiano è troppo debole di fronte alle lobby economiche e troppo debole di fronte agli interessi privati. Siamo liberali e vogliamo uno Stato forte, che sia in grado di fare le funzioni che gli competono.

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