L’ultimo viaggio di Lévi-Strauss

di Ugo Fabietti*

“Odio i viaggi e gli esploratori”. Così suona l’inizio di Tristi tropici, il libro che nel 1955 avrebbe reso il suo autore e l’antropologia noti in tutto il mondo. L’autore di quel libro, Claude Lévi-Strauss, aveva cominciato a viaggiare quando, giovane professore di filosofia nei licei di provincia francesi, aveva colto la proposta di andare a insegnare sociologia a San Paolo del Brasile. Lì sarebbe cominciata la sua grande avventura intellettuale e umana: le ricerche tra gli indios, il ritorno in Francia, la guerra, la sconfitta, la fuga in America, l’esilio, il ritorno.

Claude Lévi-Strauss è morto il primo giorno di novembre, prossimo ormai a compiere cento e uno anni. L’anno passato, per il suo centesimo compleanno, festeggiamenti, convegni, articoli e riedizioni dei suoi libri (Il pensiero selvaggio, Le strutture elementari della parentela, Il totemismo oggi, la quadrilogia delle Mitologiche, Lo sguardo da lontano e molti altri ancora) erano spuntati un po’ ovunque nel mondo: un affettuoso e disinteressato omaggio a una figura intellettuale che ha saputo convogliare su di sé l’ammirazione anche di quanti non ne condividevano le scelte teoriche. La Bibliothèque de la Pléïade (Gallimard) lo aveva incluso, proprio lo scorso anno, tra i suoi “immortali” pubblicando in un volume di circa mille pagine alcune delle sue opere scelte dallo stesso Lévi-Strauss.

Comunque si sia tentati di definire la sua opera è certo che la figura di Lévi-Strauss svetta unica e solenne nella storia dell’antropologia e nella cultura del Novecento, perché il suo pensiero ha segnato in maniera inconfondibile non solo il profilo di una disciplina come l’antropologia, ma quello di tutte le scienze umane e della cultura stessa per una buona metà del secolo trascorso. Le sue teorie relative alla natura dello scambio matrimoniale, la sua analisi del “pensiero selvaggio”, e la teoria del mito come “pensiero che pensa se stesso”, unite a una grande prosa e a una straordinaria capacità di transitare dall’antropologia alla filosofia, da questa alla letteratura e alla musica e alla pittura, fanno di Claude Lévi-Strauss una figura tanto eccezionale quanto inimitabile.

La storia di Lévi-Strauss è piuttosto nota. L’ha raccontata lui stesso in Tristi tropici e poi in una serie di interviste più o meno celebri rilasciate nel corso degli anni.

Formatosi alla scuola dei filosofi francesi degli anni Venti-Trenta lascia, “deluso” (è un’ espressione sua), questa disciplina per dedicarsi all’etnologia. Nel 1934 va a ricoprire una cattedra di sociologia a San Paolo del Brasile e inizia le sue ricerche tra gli indios del Mato Grosso. Dopo qualche anno torna in patria, scoppia la guerra, è chiamato alle armi. La Francia è sconfitta, Lévi-Strauss viene congedato. E’ però “arruolato” nel progetto americano di “salvataggio dei cervelli” in fuga dall’Europa invasa dai nazisti (Lévi-Strauss, che ha anche ascendenze ebraiche, rischia più di altri).

Arrivato a New York (su cui scriverà pagine bellissime poi raccolte in Lo sguardo da lontano) entra in contatto con gli ambienti antropologici statunitensi e, soprattutto, si lega di una profonda amicizia con il grande linguista russo Roman Jakobson, fondatore con altri, nel 1929, del Circolo Linguistico di Praga e uno dei padri della linguistica strutturale. L’incontro con la linguistica strutturale segnerà in maniera decisiva tutto il lavoro successivo di Lévi-Strauss.

Contrario a una visione dello studio dell’uomo come soggetto storico capace di imporre al mondo una forma, Lévi-Strauss concepisce l’antropologia come ricognizione delle istanze inconsce, “vuote” e non illimitate (le “strutture”) che rendono possibile, allo spirito, articolare l’esperienza del reale. Marx e Freud hanno preparato il terreno per togliere al “soggetto” della filosofia occidentale quell’onnipotenza di pensiero e di azione che ora Lévi-Strauss riconduce ad una combinatoria di possibilità non illimitate in cui i singoli fenomeni registrati dal pensiero acquisiscono un senso solo perché accostati in un certo modo ad altri: è la lezione della linguistica strutturale.

Comincia così l’analisi dei sistemi di classificazione “primitivi”, l’esame dei sistemi di parentela, lo studio dei miti. La sua macchina strutturale disseziona, distingue, accosta, oppone e ricompone miriadi di oggetti in sé apparentemente privi di significato per riordinarli successivamente all’interno di una visione coerente e compiuta, fondata sulla convinzione che lo spirito umano funziona in base a leggi ineludibili presso di “noi” come presso gli “altri”, in passato come adesso e quasi certamente anche domani.

Accanto a questo Lévi-Strauss “strutturalista” affiora di tanto in tanto un altro Lévi-Strauss, meno imponente ma non per questo meno noto, e neppure meno importante per l’eco prodotta dalla sua antropologia su un pubblico ben più ampio di quello degli specialisti.

E’ il Lévi-Strauss di Tristi tropici (1955) in cui “frammenti di musica e poesia”, espressione di un raffinato clima intellettuale da cui Lévi-Strauss proviene, e che spesso costitui­scono la materia di affascinanti operazioni di bricolage testuale, funzionano come tracce di una memoria proustiana (alla quale Lévi-Strauss spesso si richiama) nei cui risvolti la teoria sembra essere in sintonia con una esperienza personalmente vissuta.

Questa esperienza personale è emblematica di quella di tutti gli antropologi, figure “socialmente anomale” la cui vocazione li spinge “a risalire il corso dei millenni” alla ricerca di un tempo doppiamente perduto, tanto dalla società alla quale essi appartengono, quanto da loro stessi che cercano, lontano dai propri simili, il senso del distacco da questi ultimi.

E’ l’esperienza de “il Lazzaro dei tempi moderni”, quello eroicizzato – filosoficamente, si intende – da Susan Sontag in un celebre saggio del 1963; il redivivo che, “morto alla sua società e ai suoi” torna tra questi compiendo il destino di chi, dopo aver viaggiato e aver preso le distanze da tutte le culture, sente la necessità di affrancarsi dall’ “ultima delle culture di cui non si è ancora liberato: la sua”.

Con Lévi-Strauss l’ambizione dichiarata dell’antropologia fu quella di presentarsi come una scienza. Il viaggio dell’antropologo strutturalista è così il viaggio che è possibile compiere attraverso quelle strutture che sono i sistemi di parentela, le forme di classificazione simbolica della realtà e i sistemi mitologici: grandi, immensi campi di fenomeni dietro i quali sarà possibile ritrovare le invarianti che li fondano, strutture che stanno ai quei sistemi come le note stanno al grandioso universo musicale costruito dall’uomo.

Il viaggio dell’antropologo strutturalista non ha infatti più di tanto bisogno di viaggi attraverso lo spazio fisico. I suoi viaggi sono soprattutto quelli che egli compie attraverso le strutture della mente. L’esperienza etnografica ha, in questa prospettiva, un valore tutto sommato limitato. Lévi-Strauss, è vero, fu etnografo prima che antropologo, e dunque viaggiò. E Tristi tropici è, tra molte altre cose, un grandissimo libro di viaggi, il più grande mai scritto da un antropologo. Ma non si deve cedere all’illusione.

Il viaggio nello spazio compiuto dall’etnografo Lévi-Strauss è l’annuncio – nostalgico – che i viaggi ormai non esistono più. Quell’ “Odio i viaggi e gli esploratori”, a cui fa da contrappunto l’altrettanto celebre conclusione del libro – “Addio selvaggi! Addio viaggi!” – mette in scena un sentimento della perdita che si riveste del disprezzo nutrito da Lévi-Strauss per i viaggi “da cartolina” e gli esploratori “della domenica”, nel momento stesso tuttavia in cui il disprezzo si confonde con una nostalgica malinconia: “vorrei essere vissuto al tempo dei ‘veri viaggi’, quando offrivano in tutto il suo splendore, uno spettacolo non ancora infangato, contaminato e maledetto….”.

Quell’ “odio i viaggi e gli esploratori” è ciò che annuncia in maniera artatamente iperbolica, la necessità di intraprendere un viaggio più “scientifico” che ci sarà dato di compiere se, cadute le nostre illusioni, ci rassegneremo a non viaggiare più nello spazio (andando incontro “alla nostra sozzura gettata sul volto dell’umanità”) ma attraverso le menti degli uomini, attraverso le strutture di cui il mondo sociale e culturale non sono che semplici efflorescenze.

Clifford Geertz, altra grande figura dell’antropologia del Novecento scomparsa tre anni fa, non condivideva la prospettiva di Lévi-Strauss, ritenendola “troppo cerebrale”. Ma ha anche detto che “il senso di importanza intellettuale che lo strutturalismo di Lévi-Strauss ha procurato all’antropologia non scomparirà tanto presto e che le conseguenze di questo fatto ci accompagneranno in modo più o meno permanente”. Oggi c’è chi vede nel lavoro di Claude Lévi-Strauss, debitamente accostato alle scienze cognitive, la promessa di nuovi frutti e di una “nuova sintesi” per l’antropologia.

* Professore Ordinario di Antropologia culturale all'Università di Milano Bicocca

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