STIAMO ANDANDO A SBATTERE CONTRO UNA DRAMMATICA RECESSIONE MA SENZA ESSERNE CONSAPEVOLI.

URGONO INTERVENTI RADICALI
Un silenzio agghiacciante. Reso ancor più assordante dalle inesauste, insopportabili discussioni dei presunti esperti su mille questioni più o meno importanti. Stiamo entrando nella più drammatica recessione della nostra storia repubblicana, peggiore della Grande Depressione del 1929, non dissimile dalla caduta della produzione di ricchezza procurata dalla Seconda guerra mondiale, e nessuno lo sta dicendo chiaramente agli italiani. Non il presidente del Consiglio – nonostante le sue ripetute presenze a reti televisive unificate – né il governo, non l’opposizione parlamentare, né i partiti. La classe politica è più attratta dalla spartizione delle nomine dei vertici delle grandi società pubbliche: pochi la praticano, tutti gli altri la osservano credendo di essere partecipi del grande risiko. I media sono distratti da altro: un po’ gli sfugge, un po’ temono di deprimere i lettori.

Dovremmo strapparci i capelli per quello a cui stiamo andando incontro, e invece sembra che il problema sia un giorno in più o in meno di lockdown, come se una volta ripartiti si tratterà solo di avere la pazienza di aspettare che tutto ritorni come prima, perché magicamente accada. Peccato che così non sarà, che sia una solenne bugia, una pia illusione. Perchè se non viene detta la verità al Paese – e cioè che le conseguenze economiche dell’emergenza saranno drammatiche, non solo per via della “serrata”, ma perché l’emergenza mostra tutti i ritardi e i limiti preesistenti nella nostra economia e nel nostro capitalismo – sarà impossibile uscirne. Tanto che se a livello globale è forte la convinzione che la crisi sia a V, cioè una caduta repentina cui farà seguito, già l’anno prossimo, una risalita di pari entità, per l’Italia rischia di essere se non a L (caduta seguita da stagnazione) quantomeno a U, con il sedere della lettera molto largo (ergo prima di risalire ce ne vuole) o, ed è forse peggio, a V ma con la seconda gamba, quella della risalita, che si ferma a metà. Così, per esempio si è espresso il Fondo Monetario, che ci attribuisce una caduta del pil del 9,1% nel 2020 – Goldman Sachs arriva a -11,6%, mentre intorno a una perdita di 5-6 punti si aggirano le previsioni di Bankitalia, Morgan Stanley, Confindustria, Prometeia, Fitch – e ci accredita di un recupero del 4,8% nel 2021, cioè circa la metà della ricchezza perduta. Uno scenario ben diverso da quello delineato, sempre dall’Fmi, per il pil mondiale, che dovrebbe contrarsi nel 2020 del 3% per poi rimbalzare nel 2021 più che recuperando con un +5,8%. Certo, è vero che nessuna economia avanzata rimonterà interamente la perdita in un solo anno (solo i paesi emergenti ci riusciranno), ma Usa, eurozona, Regno Unito e Canada registreranno perdite mediamente del 6% (quindi un terzo di meno di noi) e recuperi intorno al 4,5% (cioè tre quarti).

Insomma, a parte la Grecia, che fa peggio di noi (di poco), l’Italia è ancora una volta il fanalino di coda delle economie occidentali, stante non tanto la gravità del virus – ora ci sono paesi che hanno una contabilità sanitaria più pesante – quanto il punto di partenza, visto che già subito dopo l’estate 2019 ci eravamo avviati verso la recessione. Non solo. Siccome le misure prese oggi detteranno la velocità e la forza della ripresa domani – e finora sul tavolo c’è poco e quel poco è lento a materializzarsi – e considerata la quasi totale assenza di riflessione seria in materia, non è pessimismo ma ragionevole realismo immaginare pronostici ancora peggiori di questi. E sì, perché la ricetta Draghi di cui tutti in questi giorni si sono riempiti la bocca – senza averla letta o, peggio, non avendoci capito nulla per avendola compulsata – diceva cose ben diverse da quelle che recita il piano liquidità prodotto dal governo. Per l’ex presidente della Bce la soluzione sta nell’affiancare alla riconfermata politica monetaria espansiva un indebitamento “quanto basta” degli Stati, da recuperare con lo sviluppo che quelle risorse produrranno. Viceversa, noi abbiamo detto alle imprese: vi facciamo prestare i soldi dalle banche, cui presteremo parzialmente garanzie. L’effetto è che non solo non c’è ancora un euro nelle tasche di nessuno, ma che quando arriverà sarà debito che le imprese o non si vorranno accollare, preferendo chiudere, o finiranno per diventare ancora meno patrimonializzate del poco che mediamente sono, con ciò aggravando un quadro già precario.

Certo, so perfettamente che già così ci avviamo ad un rapporto debito-pil tra il 150% e il 160% – l’Fmi dice 155,5% nel 2020 e 150,4% nel 2021 – e che tutto possiamo fare meno che appesantire il debito pubblico a cuor leggero. Ma faccio notare tre cose. Primo: noi partiamo dal 137% del debito sul pil, e quel fardello di 2446 miliardi (dato di febbraio 2020) ci pesa non solo e non tanto per la sua entità, ma per la sua improduttività, visto che nel rapporto debito-pil pesa soprattutto il denominatore basso. Insomma, ci siamo indebitati per pagare stipendi e pensioni, non per fare sviluppo. E se dovessimo continuare così sarebbe un disastro di inenarrabili proporzioni. Secondo: da anni il nostro avanzo primario è positivo, cioè lo stato incassa più di quanto spende, ma a fare la differenza in negativo è il costo del debito. Gli interessi sono bassi, ma lo spread – cioè la misurazione del rischio paese – ce li fa aumentare notevolmente, e se dovessimo illuderci di poter affrontare da soli (il famoso piano B) l’emergenza finanziaria in atto, gli oneri salirebbero ulteriormente, creando un disastroso effetto valanga. Terzo: non ci resta che indebitarci usando tutti gli strumenti europei che abbiamo a disposizione, MES compreso, senza alcuna remora ideologica. A livello meramente finanziario, attingere al Meccanismo europeo di stabilità costa molto meno rispetto a emettere Btp. È stato calcolato che un Btp a 10 anni ci costerebbe fino a 600 milioni in più all’anno di interessi (6 miliardi nei dieci anni) di un prestito decennale concesso dal MES, una cifra che potremmo spendere in ben altro modo.

In conclusione, la situazione è grave, occorre fare presto, ma anche fare bene perché non si tratta semplicemente di riportare le lancette dell’orologio a prima del virus. Infatti, se è necessario che si faccia ripartire l’economia al più presto, altrettanto indispensabile è che si colga l’occasione per un reset del nostro sistema produttivo e dei servizi, e per una forte discontinuità nella pubblica amministrazione e nelle modalità di funzionamento della burocrazia e della giustizia. La frase che si sente ripetere fino all’ossessione – nulla sarà più come prima – non è solo un mantra disfattista da “fine del mondo”, e neppure l’evocazione di un palingenetico cambiamento in senso ambientalista del capitalismo cattivo, è una necessità tutta italiana. Quella di trasformare un paese vecchio, ingessato, tecnologicamente analogico quale siamo, in un paese moderno, veloce, snello, digitale, cosa per la quale occorre un salto di qualità, oserei dire un salto in un’altra dimensione.

Dunque, nel dopo lockdown dobbiamo provare a distinguere tra una fase 1 in cui sarà necessario riavviare il motore dell’economia e metterci dentro della benzina senza badare troppo per il sottile (a carico dello Stato), e una fase 2 che richiederà un radicale cambiamento del motore dello sviluppo, e persino della carrozzeria della macchina Italia. Cosa che significherà non l’aiuto a tutti indistintamente, ma scelte selezionate, e dunque anche l’applicazione di un rigoroso merito di credito, in cui saranno i privati – e anche il pubblico, laddove sia necessario che lo Stato si faccia carico di investire nelle infrastrutture e nei (nuovi) settori strategici – a produrre qualcosa che dovrà somigliare, sotto il profilo della psicologia collettiva, al boom degli anni Cinquanta e Sessanta. Ovvio che per non sprecare soldi (che non abbiamo) e per non dilatare i tempi (che altrettanto non abbiamo), occorre che entrambe le fasi siano pensate insieme, organicamente.

Naturalmente, non mi sfugge – e spero non sfugga neanche a voi, cari lettori – che fare quanto ho appena descritto con l’attuale sistema politico, i partiti e le leadership (si fa per dire) che lo popolano, l’attuale architettura istituzionale, centrale e locale, e le attuali regole del gioco, non è difficile, è impossibile. La nostra è una democrazia infartuata, inutile girarci intorno. Per questo occorre rifondare l’Italia, ridisegnandola. E per farlo l’unica modalità è un’Assemblea Costituente. Ma di questo parliamo la prossima volta, nell’attesa che il 23 aprile l’Italia esca viva dallo showdown europeo.

Per ulteriori informazioni, consultate il sito www.terzarepubblica.it o scrivete all’indirizzo redazione@terzarepubblica.it

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