Perché L’Aquila deve essere ricostruita dov’era e, per quanto possibile, com’era

RITORNO A L’AQUILA

di Gaetano Sabatini

La proposta dissennata di ricostruire la città dell’Aquila in un luogo diverso da quello nel quale essa è sorta sino ad ora si è andata a sommare al dolore immenso per le perdite di vite umane, per le immani distruzioni, per i danni irreparabili sofferti dal patrimonio artistico a causa del terremoto che ha colpito il cuore dell’Abruzzo.
La prima reazione che suscita l’ennesima prova dell’ignavia del ceto politico nostrano è di grande rabbia e incontenibile indignazione. Ma proprio in momenti come questi, segnati dalla tragedia e dall’emozione, è necessario mantenere la calma per mettere chiaramente in evidenza la natura pericolosa di una proposta balorda, che rischia oltretutto di distogliere l’attenzione dalle reali priorità di una fase di ricostruzione che tutti auspichiamo essere la più prossima possibile. Nelle righe che seguono, pertanto, cercherò di spiegare nel modo più chiaro possibile perché sia un grave errore parlare di una “L’Aquila 2”, precisando sin d’ora che alla storia di questo territorio ho dedicato tutta la prima parte della mia attività di studioso, che ho lavorato per 16 anni all’Università dell’Aquila e infine che la mia famiglia è originaria di questa stessa provincia, di un’area che è stata ora parzialmente risparmiata dal sisma, ma che ha conosciuto per l’ultima volta, in una interminabile serie plurisecolare, gli effetti terribili del terremoto appena nel 1984.
Cominciamo dalla storia. L’Aquila è una città di fondazione imperiale, sorta ai confini con lo Stato della Chiesa intorno alla metà del XIII secolo, quando il Regno di Napoli era appunto soggetto alla corona del Sacro Romano Impero. Per la sua posizione di confine, che ne faceva una sorta di sentinella del regno, e per essere attraversata dalla Via degli Abruzzi, principale via di terra attraverso cui uomini e merci ebbero accesso al Mezzogiorno dall’Alto Medioevo fino all’Unità d’Italia, L’Aquila conobbe nel XIV e XV secolo uno straordinario sviluppo economico – e quindi artistico e culturale – nonché demografico. La sua popolazione proveniva essenzialmente da borghi e villaggi dispersi in tutta l’area circostante. È questo un aspetto importante da sottolineare: gli abitanti scelsero di andare a vivere nella città e si mantennero fedeli a questa scelta nel corso dei secoli, anche quando a principio del Cinquecento, a causa di una rivolta, la città fu duramente punita da Carlo V, che la privò dei suoi privilegi, ne mutilò il territorio, addirittura ne distrusse una parte dell’abitato per costruire la fortezza che tuttora esiste, il celebre Castello spagnolo dell’Aquila. Nonostante queste condizioni avverse, la popolazione imparò a convivere con gli spagnoli senza abbandonare L’Aquila. Eppure sarebbe stato molto facile andarsene: il confine con lo Stato della Chiesa era lì e vi furono fasi storiche in cui i Papi facilitarono l’immigrazione per popolare aree deserte. Nel 1703, proprio quando il Regno di Napoli era a un passo dall’uscire dalla monarchia spagnola e prossimo a recuperare la sua indipendenza, un terribile terremoto colpì L’Aquila (altri meno gravi avevano avuto luogo nei secoli precedenti), provocando nell’area circa 3.000 morti e innumerevoli devastazioni. Anche questa volta, però, gli aquilani non se ne andarono e, pazientemente, ricostruirono la loro città, quello splendido centro d’arte che era L’Aquila era fino a domenica 5 aprile 2009. E gli aquilani non se ne sono andati neppure durante la epica fase di emigrazione consumatasi in tutta l’area tra gli ultimi due decenni del XIX secolo e la prima metà del XX, quando il crollo della plurisecolare pratica della transumanza lasciò senza lavoro e svuotò letteralmente molti centri della provincia.
Potrà sembrare inutile ricordare ora la storia della città dell’Aquila, ma non lo è: vi è un orgoglio nell’appartenere a questa terra che è raro incontrare persino in un paese, come l’Italia, in cui l’amor di campanile è assai sviluppato. Le ragioni di questo orgoglio sono da ricercare in una identità storica tenacemente difesa nel tempo, un’identità per la quale gli aquilani tanto hanno duramente pagato nel corso dei secoli. Privare la popolazione dell’Aquila di questa identificazione con il proprio territorio significherebbe condannarli ad un anonimato morale, ad essere degli zombies. Viene facile parafrasare il motto evangelico “Non si vive di solo pane!”: non si vive di sole schiere di palazzine, ma anche di quella trama di relazioni umane, sociali, culturali e religiose che solo la condivisione di una storia crea, consolida e rigenera continuamente con ogni nuovo apporto.
Retorica passatista, si dirà, dobbiamo pensare al futuro: non ci sono forse già esempi di città distrutte e ricostruite altrove? Certo, gli esempi non mancano, ma si tratta quasi sempre di esempi negativi: ricordo per tutti il caso di Gibellina (una rapida lettura della voce relativa nell’universalmente consultata Wikipedia è sufficiente per cogliere i motivi di quello che è stato un autentico fallimento in termini civili). Al contrario l’Italia è stata conosciuta ed elogiata nel mondo proprio per il motivo opposto, cioè per lo scrupolo con cui è stata condotta la ricostruzione in situ dei centri devastati dal terremoto del Friuli: chi non ricorda le immagini del duomo di Gemona distrutto e quelle della sua straordinaria rinascita? Occorre ricordare che le scuole di restauro italiane godono di fama internazionale?
Ma vi è almeno un altro aspetto di cui tener conto per rigettare definitivamente questa idea scellerata: dove vogliamo costruirla questa “L’Aquila 2”, che sin nel nome riecheggia in modo sinistro altre esperienze non precisamente destinate a passare alla storia dell’urbanistica? Come si è dimostrato nelle settimane successive alla prima e più violenta scossa e come sa sin troppo bene chi conosce la storia di quest’area, tutto il territorio della provincia dell’Aquila è estremamente sismico: non solo l’alta e la media montagna, ma anche la zona degli altipiani sono solcate da faglie tettoniche che hanno reso frequenti i terremoti nel corso dei secoli (come si può facilmente verificare sfogliando i due monumentali volumi del Catalogo storico dei terremoti italiani prodotti dall’Istituto Nazionale di Geofisica). Dunque, nella provincia dell’Aquila una zona asismica non c’è. Allora cosa facciamo? Spostiamo L’Aquila in Sardegna? E perché non in una delle isole artificiali che stanno rendendo famosa Dubai?
Se questi argomenti hanno qualche fondamento, inevitabilmente si fa strada un’altra domanda: cosa c’è dietro la brillante idea di fondare “L’Aquila 2”? E non mi riferisco alle sin troppo prevedibili speculazioni immobiliari – per di più, in questo caso, largamente finanziate con denaro pubblico – che da nord a sud solcano la penisola. Troppo semplice. Penso invece ad un corollario insidioso perché implicito in questa proposta: se L’Aquila viene ricostruita altrove, vuol dire che era proprio impossibile che essa rimanesse dov’era; solo un azzardo della storia ha fatto sì che essa non fosse rovinata già da molto tempo; i suoi edifici erano destinati a cadere, non sarebbe potuto accadere nulla di diverso. Ma gli edifici che sono caduti – gli aquilani lo sanno benissimo e nei giorni del terremoto chiunque abbia visto immagini televisive se ne sarà reso conto – erano, in molti casi edifici pubblici, nuovi o recentemente ristrutturati (penso all’Ospedale di S. Salvatore o alla Casa dello Studente); edifici che in teoria rispettavano le norme antisismiche e che quindi avrebbero dovuto garantire un minimo di resistenza.
Affermare di voler ricostruire L’Aquila altrove significa dunque passare un colpo di spugna assolutorio su di un processo di accertamento di responsabilità che, per quanto lungo e difficile, una comunità civile degna di questo nome non può non compiere.

Ho saputo del terremoto dell’Aquila mentre mi trovavo a Siviglia per un seminario; un quotidiano locale ne dava notizia pubblicando in prima pagina una foto che mi ha agghiacciato: quella dell’edificio della Prefettura completamente crollato, solo il portico d’ingresso sembrava essersi parzialmente salvato, inalberando ancora, per quanto divelta, la scritta “Palazzo di Governo”. In quello stesso edificio ha – aveva – sede l’Archivio di Stato dell’Aquila, scrigno della plurisecolare memoria storica della città, un luogo in cui io ho lavorato per anni alla stesura della mia tesi di dottorato. Cosa ne sarà delle centinaia di migliaia di documenti di inestimabile valore conservati in esso? Ma la fotografia, scattata da un ignaro inviato del giornale, aveva in primo piano un particolare che, se possibile, ha richiamato la mia attenzione ancor di più. In piedi su di un cumulo di macerie un carabiniere parla al telefono cellulare: lo sguardo smarrito si volge in direzione dell’obiettivo, sembra in attesa di ricevere degli ordini su cosa fare, da dove incominciare nel mezzo di tanta devastazione. Quell’immagine, quello sguardo mi sono sembrati una straordinaria e drammatica metafora della nostra condizione, in questa tragica evenienza del terremoto dell’Aquila, come in molte altre recenti circostanze della storia italiana: siamo smarriti e dall’alto, dal potere, non arriva una parola chiarificatrice, che ci indichi in che direzione dobbiamo andare. Eppure dobbiamo muoverci, qualcosa dobbiamo fare, almeno per non andare dritti nella direzione sbagliata.
Gaetano Sabatini
Università degli Studi Roma Tre
Articolo tratto da:

FORUM (147) Koinonia

http://www.koinonia-online.it

Convento S.Domenico – Piazza S.Domenico, 1 – Pistoia – Tel. 0573/22046

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