Intervista di Manuela De Leonardis
Ho un piccolo catalogo dalla copertina nera che mi inviò, esattamente dieci anni fa, un amico che allora viveva al Cairo. Aveva visto alla Cairo Berlin Art Gallery le fotografie di Youssef Nabil (Cairo 1972, vive tra Parigi e New York), rimanendo particolarmente colpito. Nella cornice di Villa Medici lo porgo a Youssef, che lo sfoglia con una certa sorpresa. E’ stato pubblicato in occasione di “Prèmiere” (1999), la sua prima mostra. Da allora l’artista egiziano ha esposto a livello internazionale, partecipando a numerose rassegne, tra cui i Rencontres Internationales de la Photographie di Arles e la Biennale della Fotografia Africana di Bamako, dove nel 2003 si è aggiudicato il prestigioso premio Seydou KeÑ—ta per il ritratto.
“I won’t let you died” (a cura di Francesca Fabiani su progetto di Guido Schlinkert), all’Atelier del Bosco, è la sua prima personale italiana, nonché il titolo del volume edito da Hatje Cantz (2008).
Seduto sul divano rosso, accanto alla curatrice, Youssef risponde sorridendo alle domande. La voce è ferma, lo sguardo diretto trasmette coerenza. In mostra circa cinquanta fotografie, tutte raffinatissime stampe ai sali d’argento colorate ad acquarello, che raccontano le tappe del suo percorso artistico, a partire da “Ehsan and light” (1993) fino ai ritratti del 2008. Gli autoritratti, in particolare, sono concepiti come metaforici souvenir de voyage: evocano sospensione temporale, transito verso l’incognito.
Soprattutto all’inizio della tua carriera, nel 1992, realizzavi tableaux vivent invitando a posare amici, o comunque persone con cui avevi una certa empatia. L’atmosfera è quella glamour dei vecchi film egiziani. Già in queste immagini emerge la tua dote narrativa di cantastorie, in cui è sempre aperto il confine tra realtà, sogno e finzione…
Sì. Qualche volta si tratta di miei sogni. Sono cresciuto guardando film in bianco e nero degli anni ’40 e ’50, dove ogni dettaglio era bello, patinato e romantico. Non erano solo film egiziani, anche hollywoodiani, italiani e francesi.
Ci sono dei film – degli attori – che più di altri hanno stimolato la tua fantasia?
No, non ci sono film particolari è il cinema in generale. Tra gli attori, sicuramente, Faten Hamama, che ho anche ritratto. E’ conosciuta come la “Lady dello Schermo Arabo”. Quando ci siamo incontrati, oltre alle fotografie abbiamo avuto una conversazione in cui lei racconta di quell’epoca.
Ti sei laureato all’Università Ain Shams del Cairo in letteratura francese. C’è un collegamento tra la tua formazione e l’attività artistica?
La mia idea non era esattamente quella di frequentare l’università. Avrei voluto fare arte o cinema, ma non sono stato ammesso né all’Accademia d’Arte, né a quella di Cinema. Forse é stato meglio così. Ho deciso di seguire un percorso mio. Comprai una macchina fotografica e iniziai a fotografare gli amici. La letteratura francese é, comunque, fra le forme d’arte quella che sentivo più vicino a me.
Quando e come è nato l’interesse per la fotografia? Quanto è stata importante l’eredità dell’orientalismo: in Egitto, tra il XIX e il XX secolo, erano attivi molti fotografi, tra cui Lehnert & Landrock, Abdullah Freres, Lekegian, Zangaki…
Le mie prime fotografie sono del 1992. Quando ho iniziato a fotografare non avevo alcuna informazione sulla storia della fotografia. Le immagini nascevano dalla mia immaginazione o dalle suggestioni del cinema. Non mi considero esattamente un orientalista. Sono egiziano, non faccio che parlare della mia vita e del mio mondo.
Il collegamento con questi vecchi fotografi mi è venuto in mente anche per via della tecnica fotografica “old fashion” che usi: stampe in bianco e nero colorate a mano…
Questa tecnica viene dal cinema in technicolor degli anni ’50 e, soprattutto, dagli studi fotografici del Cairo dove ancora oggi è possibile farsi fare il ritratto in bianco e nero colorato a mano. Personalmente ho un affetto profondo per questa vecchia tecnica. Amo tutto quello che é manuale. Sono un nostalgico. Non riesco a concepire la pellicola a colori, né tanto meno il digitale che appartiene ad un’era che guarda in avanti. Preferisco il passato. Cairo è una città molto moderna, quindici anni fa c’erano ancora laboratori dove ho imparato a colorare le fotografie. Oggi è tutto molto cambiato, è difficile trovare la pellicola a colori, quasi impossibile quella in bianco e nero.
Quindi non scatti mai in digitale?
Ho una piccola macchina digitale con me. La uso qualche volta per prendere appunti, mai al livello artistico.
David Lachapelle e Mario Testino – New York e Parigi – due incontri fondamentali nella tua vita…
Entrambi questi incontri sono stati importanti. E’ stato molto incoraggiante per me la consapevolezza di essere preso sul serio. Tutti e due hanno creduto nella serietà del mio lavoro e vi hanno trovato qualcosa di speciale. Non avendo avuto una formazione specifica, lavorare con loro è stata una grande lezione. Un pò come nel Rinascimento, quando gli artisti frequentavano le bottega d’arte per imparare il mestiere.
Natacha Atlas scrive di te: “Youssef sembra avere un terzo occhio che svela il carattere profondo del soggetto e lo fa uscire in superficie”. Nella galleria dei tuoi ritratti ci sono molti protagonisti del mondo dell’arte, della letteratura, della musica, del cinema, molti dei quali provenienti dal mondo arabo: Nagib Mahfuz, Mona Hatoum, Zaha Hadid, Omar Sharif, Shirin Neshat, Ghada Amer… Nel tuo sito internet, poi, ci sono gli omaggi a due icone femminili senza tempo: Nefertiti e Oum Kaltoum.
Non mi interessa l’aspetto fisico delle persone, che siano giovani o vecchi, belli o brutti, quando decido di ritrarre qualcuno è per quello che c’è dietro: quello che rappresentano con il loro lavoro. Con molte delle persone ritratte, poi, c’è un’amicizia stretta, come con Natacha Atlas, Tracey Emin, Shirin Neshat, Marina Abramović… Mi piacciono le donne dal carattere forte.
Alcuni dei ritratti sono indiretti, focalizzano solo oggetti o dettagli del corpo. Il corpetto da odalisca di Natasha Atlas, ad esempio, gli stivali di Tracey Emin vicino ad una borsa egiziana, una camicia da notte rossa…
E’ il mio modo di usare la fantasia, l’immaginazione. Una visione parziale che è il riflesso della vita, dove niente è completo. Analizzare il particolare è cercare di capire la verità di quella cosa. In fondo siamo sempre alla ricerca di un qualcosa che non potremo mai arrivare a capire completamente.
Alcune immagini sono cariche di erotismo, spesso coniugato ad un’idea di morte. C’è anche una componente provocatoria?
Sono parte della vita di chiunque. Ne parlo perché mi riguardano, come del resto riguardano tutti.
Nell’intervista con Shirin Neshat affermi di aver sentito l’esigenza di lasciare l’Egitto, perché la connotazione sessuale del tuo lavoro infastidiva molte persone conservatrici (che nel tuo paese rappresentano la maggioranza). C’è mai stata una vera censura?
Non si conosce mai, esattamente, il limite tra esprimere se stessi e ferire gli altri. Per non rischiare di dover arrivare a compromessi, cambiando la mia arte e sensibilità, e magari non riuscire a portare avanti progetti che mi andava di fare, ho preferito lasciare l’Egitto. Non c’è mai stata una censura, ma ogni volta che ho fatto una mostra c’era qualcuno che veniva a controllare e diceva quello che si poteva esporre e quello che, invece, bisognava togliere. Sono andato via perché avevo il bisogno di sentirmi libero al cento per cento, non al settantacinque per cento.
Molte delle tue fotografie sono autoritratti. Ossessione, narcisismo, estetizzazione o forma di conoscenza?
Ho iniziato a fare autoritratti quando ho lasciato l’Egitto. Prima ero troppo preso dal cinema. La mia vita, allora, è cambiata completamente. A Parigi non conoscevo molte persone e, stando molto tempo da solo, ho avuto modo di interrogarmi su me stesso, sull’esistenza, sul senso della vita. Mi sentivo come un visitatore di passaggio. Lo stesso sentimento che, in realtà, avevo in Egitto e che ho ovunque, a Parigi, Roma… Un sentimento che abbraccia tutta la vita. Non è sempre facile per me fotografarmi, ma è un modo per riflettere su questi temi. No, non è un’ossessione.
In mostra c’è una serie di quattro immagini, “I will go to Paradise” (Hayers 2008), in cui dando le spalle all’osservatore, vestito con la gallabeya, entri nell’acqua e cammini fino a scomparire del tutto…
Quest’opera parla della morte, tema ricorrente nel mio lavoro. Il titolo allude ad un paradiso, anche se non condivido l’idea religiosa dell’esistenza di un inferno e un paradiso, di buoni e cattivi. “Andrò in Paradiso” è la sicurezza di andare in paradiso, un luogo che penso sia accessibile a tutti, ad eccezione, forse, di chi si è macchiato di gravi delitti. Ma è anche l’incognita e, allo stesso tempo, la speranza di andare in un posto bello, migliore.
Progetti futuri?
Sto lavorando al mio primo film. Per il momento dovrebbe essere un corto, anche se non è escluso che si possa realizzare un lungometraggio. E’ una storia autobiografica sulla relazione tra me e il mio paese, tra me e mia madre. Benché sia autobiografico non recito alcuna parte.
“Youssef Nabil. I won’t let you died”
Accademia di Francia a Roma – Villa Medici
dal 1° aprile al 24 maggio
a cura di Francesca Fabiani su progetto di Guido Schlinkert
Youssef Nabil, Natacha Atlas, Cairo, 2000
stampa fotografica ai sali d’argento colorata a mano
27 x 40 cm
© Youssef Nabil, courtesy: e x t r a s p a z i o, Roma
Youssef Nabil a Villa Medici, Roma 2009
(Foto Manuela De Leonardis)
Youssef Nabil, My time to go, Self Portrait, Venice, 2007
(dittico) stampe fotografiche ai sali d’argento colorate a mano
40 x 27cm cad.
© Youssef Nabil, courtesy: e x t r a s p a z i o, Roma
Youssef Nabil, Self portrait with the Sunset, Rio de Janeiro, 2005
stampa fotografica ai sali d’argento colorata a mano
27 x 40 cm
© Youssef Nabil, courtesy: e x t r a s p a z i o, Roma
Youssef Nabil, Ehsan and Light, Cairo, 1993
stampa fotografica ai sali d’argento colorata a mano
40 x 27cm
© Youssef Nabil, courtesy: e x t r a s p a z i o, Roma
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