INTELLETTUALI

INTELLETTUALI

Nell’avanzare sempre più della massificazione culturale, con conseguente esigenza di velocizzazione e semplificazione del pensiero, la riflessione sembra annullarsi nel trionfo della banalizzazione concettuale imposta nei media, urlata a diritto di democrazia in ogni dove. Opinionisti a profusione.                                                                                                                                    Pier Paolo Pasolini nel 1974 (non è un decennio tanto distante ma viene percepito lontano, e non solo per i sistemi tecnologici subentrati) dichiarava di ritenersi intellettuale perché seguiva gli accadimenti e di essi immaginava il taciuto coordinando fatti lontani, mettendo insieme “i pezzi disorganizzati e frammentari”, ristabilendo la logica “là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero”. Intellettuale Pasolini, col suo acume anche profeta per certe previsioni.                       Ma, donde viene la parola intellettuale (anche se l’intellettuale è presente sin dalle antiche età) e che cosa sta a significare?                                                                                                                                   A partire da“J’accuse” , lettera aperta dello scrittore Emile Zola al Presidente della Repubblica francese Félix Faure, pubblicata il 13 gennaio 1898 sul giornale L’aurore in difesa di Alfred Dreyfus, ingiustamente accusato di tradimento, intellectual (intellettuale) entra come aggettivo sostantivato nel linguaggio non solo dei francesi.                                             L’intellettuale è il colto, da intendersi, però, non quale semplice divulgatore di pensieri già consolidati, ma come colui che si è dotato di coscienza critica. La quale deriva poi da un uso peculiare dell’intelletto, non volto a una natura pratica, al compenso quindi, ma che pubblicamente si attiva per dare una risposta alle tantissime domande, non lasciando quindi che la coscienza critica rimanga esclusivamente per sé. Esiste ancora un intellettuale che possa definirsi tale, vale a dire con la capacità di una coscienza critica da annunciare per una lettura chiarificatrice e possibilmente trasformativa della nostra realtà inquietante? E’ difficile vederlo in atto, sarà ancor meno presente nelle successive generazioni anche a causa di una Scuola che scarsamente garantisce l’autonomia nel pensiero critico. Se mai l’intellettuale vi fosse ancora, sarebbe costretto ad isolarsi, a rinunciare al suo ruolo per non abbassarsi a banalità, alla mercificazione delle idee che istituzione e industria culturale impongono. A meno che non voglia apparire integrato per attuare di soppiatto il piano di rinascita dell’intellettuale puro, della sua funzione. Auspicabile!                                                                                                                                Zigmunt Bauman, insieme ad altri sociologi, considerando la realtà della società del XXI secolo, confusa oltre che “liquida”, andava ripetendo che l’intellettuale non deve essere soggetto a fini propagandistici e ideologici, né porsi a servizio del Potere. Aggiungiamo che deve inoltre, nella imperante strumentalizzazione e frammentazione del sapere, essere in grado di porre in relazione i diversi saperi. Cosa molto importante oggi nella prevaricazione di un solo sapere, quello tecnologico.                                                                                                  La società odierna, più che mai volta alla banalità, avrebbe bisogno di un intellettuale di tal fatta, a esempio di uno come Bertrand Russell o Hannah Arendt oppure di Simone Weil, tanto per menzionarne alcuni, di un intellettuale che abitui a usare il pensiero in modo critico, vale a dire di chi sia in grado di avere intuizioni speculative sull’attualità più importante che stiamo vivendo. Non ha la nostra società, come nessun’altra, di certo, bisogno di “filistei”, che già per Goethe erano quanti vivevano nella quiete della sicurezza economica, refrattari alla cultura e alla conoscenza profonda dei fenomeni, insensibili alle arti.                                                                                                                 Un termine, filistei, ripreso da Frank Furedi, sociologo ungherese studioso delle problematiche della vita culturale contemporanea, in “Che fine hanno fatto gli intellettuali? I filistei del XXI secolo” (Raffaello Cortina Editore, 2007), dove pone in rilievo come all’alta partecipazione alla istruzione superiore faccia riscontro la banalizzazione della cultura, anche da parte dei cosiddetti colti che finiscono con lo sciorinare una sapienza superficiale, inneggiando al senso comune, imbevuti anche delle dottrine di vanità. Nulla affrontano con la dovuta lucidità, non sono dunque intellettuali, solo filistei.                                                                                                                                     Diciamo che non sono certamente i philosophes del Settecento (Voltaire, Diderot, D’Alambert…), della Encyclopédie in 17 volumi, i quali, pur non negando la specificità dei vari saperi, li intrecciarono per una circolarità della conoscenza. Così, accanto al sapere umanistico, ebbe allora spazio quello scientifico, storico, politico, e fecero inoltre il loro ingresso le voci tecniche attraverso la consultazione di operai e meccanici e anche di donne. Sono, i philosophes, da definirsi intellettuali ante litteram proprio perché ricercarono la conoscenza senza rifugiarsi nel solitario piacere di essa, né la ritennero elitaria, anzi vollero divulgarla a educazione pubblica, sentirono quindi di avere responsabilità verso la società.                                                                                                                       Tanta lontananza dagli intellettuali/filistei di oggi.                                                      Già nel 1995 Tomàs Maldonado, designer e filosofo argentino naturalizzato italiano, in “Che cos’è un intellettuale” (Feltrinelli) dichiarava che l’intellettuale doveva essere un eterodosso da contrapporsi ai dogmi (e dogma è tutto ciò che viene accolto senza esame critico, da qualunque parte esso sia preso, e oggi è dogma ciò che prima era l’opposto), ai modelli comportamentali (possono capovolgersi ma restano pur sempre dei modelli), agli oracoli della stampa, di TV e web.                                                                                                                                        Diciamo che l’intellettuale deve essere in primis provvisto di solida cultura (mai quindi l’intellettuale di Longanesi, vale a dire “il signore che fa rilegare i libri che non ha letto”), dotato inoltre della capacità di pervenire attraverso essa a un pensiero critico che si è volto, come già diceva Norberto Bobbio, a “seminare dei dubbi”, oltre che a mettersi in gioco perché gli altri possano trarre frutto dalle sue intuizioni speculative.

Antonietta Benagiano

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