Campi di realtà

di lorenzo merlo

 

Formalizzando la realtà in campi, piani, prospettive o suggestioni è possibile riconoscere dinamiche altrimenti occulte. È possibile compiere un passo verso una condizione individuale e sociale meno alienante e perniciosa. Verso il benessere individuale-comune. Un fine concreto a mezzo della nostra evoluzione di emancipazione dalle inconsapevolezze che ci trattengono in schemi arbitrari ma vissuti come definitivamente veri. È possibile edificare un’altra storia a mezzo di un’altra concezione del reale?

 

«Una persona può rappresentarsi un qualunque fenomeno, per esempio il proprio stipendio o le proprie malattie, in modo non adeguato e, tuttavia, quella rappresentazione sarà del tutto reale». (1)

 

Realtà oggettiva

Crediamo esserci una cosiddetta realtà oggettiva. Questa, è una stregua di un oggetto. La possiamo maneggiare e conoscere in modo definitivo condiviso. È una realtà figlia dell’inconsapevolezza. E corrisponde a ciò che siamo.

 

«Mettere l’accento sul fatto che “la conoscenza, indipendentemente da come viene definita, sta nella testa delle persone, e che il soggetto pensante non ha alternativa: può solo costruire ciò che sa sulla basedella sua stessa esperienza”». (2)

 

Ciò che siamo e che nel momento sentiamo genera un’interpretazione del reale che rispetta il sentimento che ci anima. Questo, in quanto tale, è sinonimo di vita. Ovvero, non rispettarlo è sinonimo di morte. È infatti mortificante quando è vissuto come una violenza, ed è alienante quando ignaramente subìto. Come sappiamo, nessuno vuole impedirsi di vivere, neppure simbolicamente. Anche l’azione contro di sé soggiace a questa dinamica. Quando il mondo è nero – questo e null’altro che esiste nel sentimento suicida – senza più vie di fuga, la sola soluzione per continuare ad essere è affermare, comunicare la propria condizione a mezzo di un’ultima scelta, simbolicamente, un urlo di vita. Condizione disperata o ordinaria, in ambo i contesti ciò che affermiamo riflette la nostra biografia, ed è evacuato dal retto della nostra storia.

Inconsapevoli del vincolo egoico, utilizziamo argomenti che giudichiamo razionali per sostenere le nostre istanze, ma che invece – nuovamente – sono frutto del nostro interesse-sentimento-emozione-concezione. Di razionale hanno solo l’intento, il falso involucro, la suggestiva confezione. Non vestono che una maschera, autorizzata dalla cultura genuflessa al razionalismo. Una sorta di velo di maya, una specie di spinta in fondo alla caverna platonica che ci impedisce di conoscere come stanno le cose. Di conoscere le energie sottili in campo.

 

«Essa risponde all’esigenza di una decisa svolta epistemologica […], da realizzarsi attraverso il superamento della tradizionale separazione su cui si fonda ogni indagine scientifica: quella che immagina un universo del tutto indipendente dall’osservatore, e, dall’altra parte, un osservatore comodamente collocato nella God’s eye view». (3)

 

La fede che abbiamo nel razionalismo ci legittima a sopraffare il prossimo dialetticamente – ma non solo – inferiore. A mezzo del fondamentalismo con il quale la professiamo, con facilità arriviamo all’arrocco dell’arrampicamento sui vetri. Insuperata evidenza della natura emozionale delle scelte. E del muro protettivo entro il quale confiniamo l’infinito che siamo.

Con queste premesse è ordinario arrivare ad escogitare ed eleggere i protocolli, quali assoluti espedienti di indagine. Tuttavia, questi, per quanto utili in contesto amministrativo, sono disumani in ambiente relazionale. I protocolli, per quanto aggiornabili, sono per ontologia schemi chiusi con i quali classifichiamo gli uomini, e il loro peculiare infinito.

 

«Ciò che abbiamo affermato in relazione all’individuo vale anche per lo scienziato. Uno scienziato elabora una teoria, un corpus di costrutti con un punto focale e un ambito di pertinenza». (1)

 

Con i quali, senza avvedercene, perpetuiamo il meccanicismo, quella concezione che ci riduce alla stregua di macchine. Un aberrato procedere le cui conseguenze hanno a che vedere con una forte spinta alla creazione di patologie e alienazioni. La satanica dinamica si ripete con le ideologie, null’altro che protocolli anabolizzati. Ideologie a mezzo delle quali non abbiamo difficoltà all’autoreferenziale proclamazione di chi le adotta a detentore della verità definitiva.

Le inconsapevolezze che stanno alla base di queste ordinarie modalità di comportamento, legittimate in oggettive solo e soltanto per consuetudine, hanno anche altri oscuri riflessi. Arrivano a toccare il vanesio desiderio di immortalità, in quanto implicano il tentativo di perpetuare se stessi, attraverso l’alimentazione del campo in cui hanno effettivamente dominio. È inopportuno il paragone con la missione inseminatrice maschile. Questa riferisce una forza biologica, non ha nulla di vanesio, semmai lo cavalca. Semmai, è l’opportunità per ricordare che la simmetrica fertile missione femminile, ha più lo spirito del dono e contemporaneamente dell’accoglienza e del rispetto di ciò che si ha e di ciò che è. Non c’è nel femminino né spada né scudo.

Non basta. Per quanto inconsapevolmente, quel procedere conquistatorio è portatore di un’arroganza grave. Nella misura in cui cerca di costringere la vita entro la propria concezione delle cose, ritiene di essere al pari, nonché superiore, alla natura.

Tuttavia, tale modalità, entro la propria società, famiglia, clan, circolo, club, campo, da arrogante si muta in giusta, doverosa, necessaria, separatoria, da difendere. Ogni ideologia, sia minuta, contingente o strutturata è una guida che ci fa talebani. Una metamorfosi ai cui estremi sta la potenzialità devastatrice e la sua strumentalità. Solo il gradiente di emancipazione nei confronti dei protocolli e delle ideologie ci spinge verso una o l’altra estremità.

Il medesimo discorso, la medesima critica si può formulare in altro modo, attraverso il molle piede di porco dell’argomentazione concettuale, l’entità che nella nostra cultura intellettualistica gode del massimo credito e dunque di potere.

 

«Meccanica classica, poiché il grande successo di questa scienza non lasciava alcun dubbio circa il suo carattere obiettivo». (4)

 

Che però è, tra quelle che abbiamo, la dote più superficiale ed inconsistente in termini di evoluzione umana. Non ci si fa caso ma lo spirito demoniaco insito nel razionalismo è che l’esperienza sia trasmissibile. Un Tallone d’Achille che prima o poi diverrà noto anche ai più miopi. Se l’esperienza fosse trasmissibile la troveremmo scritta nel grande librone della storia, la studieremmo e saremmo definitivamente saggi. Ma per quanto evidente e banale sia riconoscere che non lo è, procediamo a testa bassa nell’arido solco del razionalismo. La prevaricazione che esso compie nei confronti dei nostri pensieri e delle nostre politiche non viene registrata, né criticata se non da alcuni settori di studiosi, non a caso di ambito relazionale (psicologi, pedagoghi, linguisti, ecc). Tuttavia, anch’essi – generalizzo, pardon – sebbene il razionalismo tenda per sua ontologia al meccanicismo e al positivismo, poco si adoperano per la promozione di un’emancipazione popolare nei confronti del mito che ne sorregge il fantoccio.

 

«Si deve smettere, una buona volta, di lasciarsi accecare dalle idee e dai metodi ideali e regolativi delle scienze “esatte”, e in particolare nella filosofia e nella logica, come se il loro in sé fosse realmente norma assoluta, tanto per quanto riguarda l’essere oggettuale come per quanto riguarda la verità». (5)

 

Infine, attraverso il criterio razional-intellettuale si crede di poter contenere e dirigere la vita, non a caso, ridotta a storia. Così, è stata uccisa l’etica delle comunità, disciolta nel mantra che il business is business. Mantra al quale siamo stati educati e con il quale abbiamo guidato le nostre vite. Ma forse, per quanto mortificati e allontanati da se stessi, gli uomini non potranno mai veder morire lo spirito di bellezza con il quale sono venuti al mondo. Chi lo desidera può fare la sua parte scendendo dalla giostra del consumismo.

Diversamente, volendo continuare a girare, restando nocchieri di finte carrozze, e a cavallo di finti destrieri, non facciamo altro che riproporre frattalicamente la storia, inclusa quella parte che contemporaneamente critichiamo. Storia che, sotto il cielo digitale, costellato dal firmamento tecnologico, seguiterà a vendere eterodirette previsioni tecno-zodiacali, indispensabile bromuro da spargere nella polveriera sociale.

L’esito è funesto: nessuna evoluzione umanistica. Se accodarsi al canone trasmesso dai passacarte filogovernativi è egoisticamente ordinario, creativamente è esiziale. Una considerazione d’importanza fondamentale se si dispone della consapevolezza che l’uomo è infinito. Quando le nostre potenzialità vengono ridotte a pochi parametri protocollabili, la dimensione della castrazione è incalcolabile.

Si tratta di modelli funzionali al sistema culturale e politico, che per molti sono soli disponibili. Incantesimi mai svelati che divengono i soli campi in cui esplicare la vita propria e altrui. Vista la maggioranza che abita la superstizione del razionalismo, si può parlare di legittimità causa ingenuità.

 

«Gregory Bateson definisce tale credenza [dell’oggettività. Nda], testualmente “una forma di superstizione”». (6)

 

Va ricordato infatti che è il credito che diamo al prossimo, a maggior ragione se incensato dalla meritocrazia che l’autorevolezza del guru e delle mostrine convalida, che crea il campo di condivisione. Che genera il vincolo energetico attraverso il quale soddisfiamo le esigenze della nostra identità. Da ciò alla realtà il passo è inesistente. Nel discorso (Foucault, Lacan, Bateson, Watzlawick, Maturana) si sviluppa la verità. Una peciosa rete emotiva che impedisce la critica. Simbolicamente, che impedisce la morte.

Pare così di comunicare. In realtà ci si sta muovendo in territori dove ambo le parti del dialogo conoscono i percorsi e le loro caratteristiche. Dove gli accessi del muro che ci avvolge, normalmente ermetici al cospetto della differenza da sé, sono spalancati. Ciò che le due parti si passano sono conforti alla propria posizione e concezione. I reciproci implementi di pensiero avvengono in quanto si fermano e si integrano su una rete strutturale dalle maglie idonee a recepire quel discorso e non altri.

Avviene che, tanto più il campo e il linguaggio ad esso idoneo sono limitati, tanto più l’equivoco tende a svanire (matematica), come l’autoreferenzialità a crescere (imbonitore). Significa che le parti in dialogo compiono un’osservazione sovrapponibile del mondo. L’etica, la morale, le leggi, eccetera sono campi solo occasionalmente comuni dove si concretizzano i dialoghi, quindi la pace.

 

«Cambiare i significati delle parole implica cambiare gli ambiti di azione e cambiare gli ambiti di azione implica cambiare il modo di convivere». (7)

 

Occasionalità che si catalizzano solo e soltanto quando i ruoli con i quali ci identifichiamo sono reciprocamente riconosciuti. Ovvero quando le parti traguardano il mondo attraverso la medesima prospettiva. Utilitaristicamente allineano a qualche dato tra gli infiniti.

Qualunque sia l’osservazione condivisa, rispetterà il principio del fermo immagine. Nel dialogo interno o condiviso con altri, dal grande volume degli elementi della realtà in permanente movimento e variabile relazione di tutti con tutto, creiamo o estraiamo e fermiamo i medesimi dati. Dalla dinamica caotica del nostro autoreferenziale cosmo personale estraiamo una bidimensionale fotografia, sulla quale speculiamo con serena certezza, ignari di rispettare solo le spinte della nostra biografia. È qui che avviene il più vero dialogo, ma leggi, il più potente. È infatti un falso scambio in cui accade di non aggiungere o modificare nulla di noi stessi. Tranne quel dato al quale mancava un solo gradino nella rampa infinita della vita. Il processo si verifica solo tra pari grado di competenza specifica. È in questo tipo di realtà che sorge l’idea della sua oggettività. In essa infatti, tanto l’affermazione, quanto il giudizio (anch’esso un’affermazione) sono estensioni di noi stessi. Toccarle, criticarle, ne comporta l’automatica difesa o offesa. Siamo nel territorio del domino dell’io su noi stessi. In cui tra noi stessi e l’io non c’è soluzione di continuità. Come pure tra noi stessi e il campo di realtà in cui ci muoviamo, soli o accompagnati.

La realtà oggettiva si genera anche dalle classificazioni e dalle intitolazioni.

 

«Il nome proprio, tuttavia, in questo gioco non è che un artificio: permette di additare, cioè di far passare furtivamente dallo spazio in cui si parla allo spazio in cui si guarda, cioè di farli combaciare comodamente l’uno sull’altro come fossero congrui». (8)

 

Significa che quando si ha a che fare con qualunque oggetto, se a questo corrisponde un nome o una categoria, come per esempio lo è una noce, questa non è altro che una noce. Ovvero, l’infinito di esplorazione che contiene il mettersi in relazione sensoriale e spirituale con essa è scacciato dalla realtà, è perduto. Così con un essere umano. Se schizofrenico, esso corrisponde a quella struttura che, per quanto argomentabile, è stata arbitrariamente definita e accreditata. Dal cosmo che può svelarci uno sciamano, sotto il titolo di ciarlatano, a parte il conforto benpensante e scientista, non troveremo nulla. Il nostro potere, la nostra conoscenza resterà costretta entro le categorie, giudizi e classificazioni nelle quali i saperi cognitivi ci costringono.

 

«”Don Juan dice: ‘Vedi quello?…’, e Castaneda risponde: ‘che cosa? Non vedo niente’. La volta seguente, don Juan dice: ‘Guarda qui’. Castaneda guarda e dice: ‘non vedo un bel niente’. Don Juan si dispera, perché vuole davvero insegnargli a vedere. Finalmente don Juan trova la soluzione. ‘Ora capisco qual è il tuo problema. Riesci a vedere solo ciò che sai spiegare. Lascia perdere le spiegazioni e vedrai’”». (9)

 

 

Realtà soggettiva

Trovarsi sul medesimo campo, impiegare il medesimo linguaggio piegato alle medesime accezioni, tende ad essere esperienza frequente in ambito tecnico-amministrativo. Ma vale anche in campo relazionale. Per lo psicoterapeuta, portare l’assistito in un campo condiviso e utile al recupero della stabilità emozionale è scopo primario. Solo così potrà avviare l’opportuno dialogo evolutivo di presa di coscienza di come, quando ed eventualmente perché, una certa interpretazione del reale ha prevaricato la stabilità emozionale del suo paziente.

 

«Queste resistenze, sia nel comunicare un costrutto sia nel sottoporlo a verifica, costituiscono una delle sfide più impegnative per lo psicoterapeuta nella relazione con il paziente». (1)

 

Si tratta di contesti puri, in cui tutti comprendiamo tutto. Più facilmente siamo in ambiti spuri, contaminati. Quelli in cui, volenti o nolenti, cerchiamo di far prevalere la nostra posizione, il nostro io, la nostra interpretazione del mondo. La cui figurazione prevede un campo per ogni osservatore. Ognuno dei quali – inconsapevolmente – ritiene il proprio come il solo valido e vero. Campo il cui sinonimo è universo. Quindi universi e cosmogonie tanto differenti, quanto inconsapevoli credono di dialogare affidandosi al razionalismo e alla propria accezione del linguaggio impiegato. L’equivoco e il conflitto ne sono l’ordinario epilogo.

 

«Identificano la conoscenza con l’universalità, considerano le teorie come gli autentici veicoli dell’informazione e cercano di ragionare in modo canonico o “logico”. Vogliono sottomettere la conoscenza al dominio di leggi universali». (10)

 

La cultura non aiuta a divenire consapevoli dell’assurdo procedere. Forse un utopistico matriarcato o un ritorno effettivo del femminino nella politica, potrebbe provvedere a tanta ottusità biecamente marziale. La nostra cultura, razionalisticamente strutturata, intellettualisticamente delimitata, riduce l’infinito alle poche, – quantunque siano – categorie nelle quale comprimere il Tutto nel niente che sa.

Tanto più ci identifichiamo con la nostra area di interpretazione, in modo direttamente proporzionale la difenderemo fino al conflitto e/o arriveremo ad essere disponibili alla sopraffazione del prossimo.

Tutto ciò è il peso e la potenzialità della realtà soggettiva. Una dimensione che – nuovamente – in certa pedagogia e in certo ambito psicoterapeutico trova totale capacità di accoglienza, quindi di dignità, rispetto e parità. Doti che, culturalmente-socialmente si riducono di consistenza fino a svanire nelle situazioni di scontro relazionale.

 

«Vi sono importanti differenze tra il mondo della logica e il mondo dei fenomeni, e queste differenze devono essere tenute presenti ogni volta che basiamo le nostre argomentazioni sulla parziale ma importante analogia tra i due mondi». (11)

 

Navighiamo ordinariamente in acque facilmente pronte alla burrasca emozionale. Ovvero con ridotte doti di governo su noi stessi. Alla riflessione, alla presa in carico delle affermazioni altrui, reagiamo secondo ruolo, in sua difesa, per un motto d’orgoglio. Una virtù tanto apprezzata e perseguita quanto tossica. Ogni volta che una relazione ci procura e provoca malessere siamo nell’evidenza di non aver saputo come raggiungere le acque chete delle rade. Lo scontro è dunque in agguato tra campi di realtà inconsapevolmente differenti. Non è inconsapevole di queste forze e dinamiche il provocatore, l’impostore, il delatore, il proboviro, l’ipocrita, il despota.

Anche nei campi soggettivi viene inconsapevolmente adottato il sistema del fermo immagine. Per interesse personale evinciamo dalla molteplicità dell’infinito una realtà bidimensionale che non ammette letture differenti dalla nostra. Queste ultime ci risultano sempre in qualche punto inficiate. Con strumenti razionali ci adoperiamo allora a piegarle entro le forme che ci corrispondono. Oppure, non godendo di dignità, divengono una ragione di allontanamento, separazione, interruzione della relazione. Il conflitto è ontologicamente latente. L’identificazione con il proprio giudizio, celebra il dominio dell’io su noi stessi. Al diavolo il prossimo.

 

«Ogni cosa, nella nostra coscienza, è come la si era messa, ma poi si scopre che non si era padroni in casa propria, che non si vive da soli nella propria stanza e che ci sono in giro spettri che buttano all’aria le nostre realtà, e che questa è la fine della nostra monarchia. Se però lo si capisce nel modo giusto e nel modo che ci mostra lo yoga tantrico, il riconoscimento del fattore psicogeno è, semplicemente, il primo riconoscimento del parusa. È l’inizio del grande riconoscimento». (12)

 

L’individuo in qualche misura consapevole dei rapporti di forza presenti nelle relazioni e in qualche misura idoneo a governare l’azione e i tempi – vedi i venditori e gli affabulatori – sanno dell’esistenza dei campi soggettivi, sanno come entrare nel nostro, come farsi aprire i portoni del guscio in cui creiamo il nostro equilibrio e la nostra verità, sanno come trascinarci nella rete che hanno predisposto per il loro vantaggio. Sanno riconoscere quando affondare.

Il campo oggettivo e quello soggettivo si abbracciano e si lasciano secondo sottili psicobioalchimie relazionali sulle quali normalmente non v’è controllo alcuno. Se così non fosse saremmo saggi da migliaia di anni. Da epoche lontane avremmo ereditato culture di armonie, in sostituzione di quelle che invece godiamo, cariche di alienazione, frustrazione, sofferenza, infelicità.

 

 

Realtà nella relazione

«Dovremmo metterci in relazione con gli latri trattandoli non come oggetti, ma come esseri che, come noi, costruiscono». (13)

 

Se le realtà Oggettiva e Soggettiva si riducono ad una soltanto e hanno carattere razionalistico, quella relazione ha un fondamento estetico, in quanto emerge dal recupero della dimensione estetica dell’esserci (Hidegger).

Consapevoli dei campetti di gioco che ognuno impiega per formulare verità e regole, per stabilire i falli laterali, i fuori gioco e le espulsioni diviene possibile riconoscere che realtà oggettive e soggettive sono soggette alla medesima critica, al medesimo limite. Sono la medesima realtà la cui variazione risiede nel condividere o meno la posizione altra.

 

«La fede nella possibilità che formarci al pensiero della relazione ci aiuti a danzare le nostre interazioni quotidiane in forme meno degradanti, meo aggressive, meno distruttive. In forme maggiormente rispettose di noi stessi, degli altri, dei contesti sociali e naturali che abitiamo». (6)

 

È una consapevolezza che ne include un’altra. Quella della logica del proprio ruolo, quando a questo ci identifichiamo. Identificarsi con qualcosa, titolo, ruolo, posizione sociale, eccetera comporta il difenderne l’onorabilità. Comporta la reazione piuttosto che la riflessione su quanto ci viene mosso a critica.

La consapevolezza che la realtà viene da noi creata in funzione della relazione che abbiamo con ciò che consideriamo esterno a noi permette di formulare l’idea che la realtà stia solo e soltanto nella relazione. Il bello e il brutto, il vero e lo sbagliato, il giusto e l’ingiusto, il pesante e il leggero, fanno capo a noi, non ad una arbitraria misurazione risedente presso il Museo di arti e mestieri di Parigi quale prototipo referente di una verità assolutamente condivisa. Fanno capo all’idea duale del mondo che comporta una realtà a noi esterna. Tutte le classificazioni, come i giudizi, fanno capo al nostro giudizio e sentimento. Considerarlo definitivo è all’origine di conflitti, malesseri e malattie.

 

«Il riguardo, la crudeltà e l’egoismo sono una questione di interpretazione e costruzione. Il mondo non si presenta di per sé con delle etichette adeguate: siamo noi ad assegnargliele, nel tentativo di dare un senso alle cose». (13)

 

Ma ciò non costituisce una premessa per concludere che dobbiamo astenerci da qualsivoglia ruolo o giudizio. Piuttosto, che la consapevolezza che questi ci trascinano in terreni motosi quando espressi sotto il dominio dell’io.

La figurazione della realtà nella relazione è uno spazio aperto, nel quale, con distanza variabile, dal contatto all’infinito, i singoli campi d’interpretazione e concezione di ogni persona si muovono secondo i ritmi delle forze in campo. Forze cosmiche che ci attraversano e si interrompono, deviano, ristagnano o scorrono in funzione direttamente proporzionale alla nostra armonia, alla nostra capacità di amare e/o di non pretendere. Ovvero di emancipazione dal nostro io.

Tutti i campi, tutti noi, che ci muoviamo nel medesimo fluido energetico, siamo anche emissari di forze. Queste agiscono indipendentemente dalla nostra capacità di riconoscere l’azione o reazione che provocano. È la nota questione del battito d’ali di una farfalla in Amazzonia che scatena la tempesta nei cieli del Texas. Tutto è contiguo e organico, ben oltre quanto si possa considerare dal razionalistico piano materialista.

 

«La microfisica ha rivelato – a livello di particelle – i limiti della nostra possibilità di osservazione: non è possibile conoscere simultaneamente posizione e velocità di una particella, ed è di conseguenza impossibile una descrizione oggettiva della realtà fisica». (14)

 

Con la consapevolezza di questo volume – da cui volumetria come concezione della realtà nella relazione – in cui la vorticosità è autopoieticamente regolata, il tempo lineare mostra la sua arbitrarietà e il suo limite. Esso diviene sentimento. Si allunga nel malessere, si ferma nel benessere. Le verità fenomenologiche e costruttiviste prendono corpo e significato.

È un territorio cosmico in cui la presa di distanza dal proprio io, dal proprio giudizio, diviene non solo possibile ma necessaria per non cadere nei difetti del mondo che l’importanza personale necessariamente crea. In cui si riconosce di cosa è capace l’uomo se dominato dall’io e dell’infinito che viene liberato a emancipazione compiuta. In cui evoluzione individuale e bene comune non presentano discrepanze; in cui alla pari dell’affermazione di sé avremo come arma di convivenza l’ascolto. Quello strumento di conoscenza e vita tendenzialmente occulto, ma assai più duttile e utile di un banco di esperti black and decker, dove chi buca, buca, chi pialla, pialla e guai a dirgli qualcosa. Dove la creatività e i talenti individuali non sono repressi nel rispetto di esiziali leggi produttivistiche.

 

I saperi scompongono la realtà. Credere in essi è uccidere conoscenza, è determinare verità e considerarle oggettive. La conoscenza impone la meraviglia.

 

«Malgrado la tesi di Kant che l’intelletto non attinge le sue leggi dalla natura, ma le prescrive ad essa, la maggior parte degli scienziati si sentono ancora oggi “scopritori”, coloro che rivelano i segreti della natura e allargano lentamente ma con sicurezza il campo del sapere umano; e innumerevoli filosofi si dedicano al compito di assicurare a questa conoscenza faticosamente acquisita l’inconfutabilità che tutti si aspettano dalla verità “autentica”». (15)

 

  • 1, George Kelly, La psicologia dei costrutti personali, Raffaello Cortina, 2004
  • 2, Ernst von Glasersfeld, Il costruttivismo radicale, Odradek, 1995
  • 3, Heinz von Foerster e Ernst von Glasersfeld, Come ci si inventa, Odradek, 2001
  • 4, Ilya Prigogine, La fine delle certezze, Bollati Boringhieri, 2014
  • 5, Lothar Kelkel e René Schérer, Husserl, Il Saggiatore,1966
  • 6, Sergio Manghi, La conoscenza ecologica, Raffaello Cortina, 2004
  • 7, Humberto Maturana e Ximena Davila, Emozioni e linguaggio in educazione e politica, Eléuthera, 2006
  • 8, Michael Foucault, Le parole e il discorso, Rizzoli, 2016
  • 9, Heinz von Foerster, Sistemi che osservano, Astrolabio,1987
  • 10, Paul K. Feyerabend, Addio alla ragione, Armando, 2004
  • 11, Gregory Bateson, Verso un’ecologia della mente, Adelphi, 1990
  • 12, Carl Gustav Jung, La psicologia del Kundalini-yoga, Bollati Boringhieri, 2004
  • 13, Trevor Butt, George Kelly e la psicologia dei costrutti personali, Franco Angeli, 2009
  • 14, Conserva, La stupidità non è necessaria, La Nuova Italia, 1996
  • 15, Paul Watzlawick (a cura di), La realtà inventata, Feltrinelli, 2008

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