IL VOTO TEDESCO E LE SVOLTE RADICALI CHE STRAVOLGERANNO LA POLITICA ITALIANA

di Enrico Cisnetto

C’è molto da imparare dalle elezioni politiche tedesche di domenica scorsa. La prima cosa è la lezione che ci viene da una campagna elettorale moderata, composta, rigorosamente esigente, in cui gli aspiranti alla Cancelleria hanno marcato le differenze senza bisogno di delegittimarsi a vicenda. Bernard-Henri Lévy lo ha notato versando lacrime per quanto le cose vadano diversamente in Francia. Figuriamoci se dovessimo misurare la distanza – siderale – che separa il modo di essere e di esprimersi della politica italiana da quella tedesca. Poi l’affluenza alta, aiutata dall’uso del voto per corrispondenza e nonostante che si votasse in un solo giorno e con i seggi aperti fino alle 18: modalità da paese civile che noi ci sogniamo. Quindi la preventiva “conventio ad excludendum” dei quattro maggiori partiti nei confronti sia dell’estrema destra dell’AfD sia della sinistra radicale di Linke, che esenta la Germania dal rischio di avventurismi. Inoltre, essendo vigente un sistema parlamentare – come da noi – a nessuno viene in mente di strapparsi le vesti, come invece capita in Italia, perché i partiti e le loro rappresentanze parlamentari devono impegnarsi in una trattativa per formare una maggioranza di governo (probabilmente lunga, tanto che si pronostica che la Merkel resti a disbrigare gli affari correnti fino a Natale). E non fa scandalo che le possibili combinazioni siano almeno quattro, se non cinque o sei, proprio perché il sistema politico è disegnato intorno alle due forze centrali, Spd e Cdu-Csu, tra loro alternative ma allo stesso tempo intercambiabili, tanto che negli ultimi anni hanno sempre governato insieme. Insomma, in Germania non si forza la complessità per farla passare a tutti i costi dalla cruna della semplificazione e del semplicismo, ma la si gestisce per quella che è.

 

Infine, parliamo della rappresentatività delle forze politiche. Al di là che i socialdemocratici con il 25,7% siano in risalita rispetto al 2017 quando crollarono al 20,5% (ma sono comunque lontani dai loro standard storici) e che i democristiani fermandosi al 24,1% (dal 32,9% delle precedenti elezioni) registrino il loro peggior risultato di sempre, puniti dal non aver saputo costruire in tutti questa anni di “leadership Merkel” una successione adeguata, sta di fatto che gli elettori tedeschi hanno consegnato la metà dei loro voti ai due partiti su cui la Germania ha costruito il suo sano “bipolarismo articolato”. Consensi che diventano i tre quarti del totale se si aggiunge il 14,8% dei Verdi e l’11,5% dei liberali (che rappresenta il successo politico più significativo), cioè se si sommano i quattro partiti titolati ad entrare nel nuovo esecutivo perché tutti non affetti dalle tre principali malattie che invece affliggono i partiti (si fa per dire) nostrani: populismo, sovranismo e giustizialismo. Un risultato, questo, che in misura non piccola dipende dalla legge elettorale – assai diversa da quella italiana, anzi, dalle tante che si sono succedute – il cui buon funzionamento non dipende solo dai suoi meccanismi, ma dal fatto che essa è organica agli assetti istituzionali e funzionale al tipo di sistema politico che dal dopoguerra i tedeschi hanno voluto adottare.

 

Alzi dunque la mano chi, tra noi italiani, non vorrebbe far cambio. Poi si può preferire o ipotizzare l’una o l’altra delle combinazioni possibili tra quei quattro partiti, ma si è sicuri che la Germania avrà comunque stabilità e continuità di governo. Tanto che io mi azzardo a pronosticare che, alla fine, assisteremo ad una riedizione della “grande coalizione” tra sinistra moderata e centro moderato, con il supporto o dei Verdi o dei liberali della Fdp – per via dei colori simbolo dei partiti, la cosiddetta combinazione “Kenya” nel primo caso e “Germany” nel secondo – o forse persino con entrambi in un’inedita coalizione a quattro, dove alcuni eccessi ambientalisti (comunque niente di simile al nostro trasversale “partito del no”) e le pulsioni ultraliberiste si compenserebbero, nel senso di togliere a ciascuna delle due tendenze una capacità di ricatto che in una delle due combinazioni “a tre” potrebbe emergere. E dico questo perché ci sono ragioni più che fondate, anche o forse prima di tutto europee, per non disperdere un valore grande come la stabilità tedesca e per proseguire lungo la linea dello sviluppo nella solidarietà incarnata dal Next Generation Ue così fortemente voluto, e imposto ai paesi riottosi del Nord, da Angela Merkel. Una statista della quale, pur non essendo paragonabile a Helmut Kohl – ma c’è forse la controfigura di Alcide De Gasperi nascosta da qualche parte in Italia? – sentiremo la mancanza, in Italia e in Europa.

 

Si ha una bella voglia di dire che dopo la Merkel c’è Draghi. Certo, oggi nel Vecchio Continente il nostro presidente del Consiglio non ha rivali in quanto ad autorevolezza personale, tanto più che è alta l’incertezza su come andranno a finire le prossime elezioni francesi. Ma se le leadership sono importanti, ancor di più contano il peso e la credibilità dei singoli paesi. E qui, per l’Italia, casca l’asino. Siamo il paese con il più alto tasso di confusione politica e di fragilità istituzionali, il paese con il maggiore debito pubblico in relazione al pil, Grecia a parte, e il livello di produttività più basso (dal 1995 quella del lavoro è cresciuta mediamente di uno striminzito +0,2% annuo, mentre quella del capitale è addirittura arretrata dello -0,7%, contro il +1,6% dell’Ue, il +1,2% dell’eurozona, il +1,3% di Germania e Francia). Siamo il paese che ospita l’unico squilibrio territoriale che sia rimasto in Europa, il Mezzogiorno, in cui il regionalismo e più in generale il (presunto) federalismo realizzato hanno prodotto un inestricabile groviglio di funzioni e competenze, moltiplicatore di costi e demoltiplicatore di decisioni. Siamo il paese della giustizia malata, in cui la magistratura ha rotto e sovvertito l’equilibrio dei poteri. E siamo un paese vecchio, per età degli abitanti, per mentalità collettiva e per la vetustà delle infrastrutture. Certo le nostre imprese, specie quelle manifatturiere, sono un asset invidiabile, e alcune qualità italiche, come la creatività e la duttilità, attraggono. Ma complessivamente siamo in declino, e lo siamo da oltre un quarto di secolo. E per rimontare la china occorre intanto la consapevolezza della nostra condizione – che fin qui è mancata per l’ignoranza e l’ignavia delle classi dirigenti, e non solo di quella politica – e poi, per saperne uscire, serve il combinato disposto di idee, ambizione, determinazione e competenze.

 

Nel desolante quadro che ci circonda, Draghi rappresenta non solo la più alta personalità di cui l’Italia possa disporre, ma anche l’unico chiodo a cui attaccare la nostra speranza. Ma attenzione, non cadiamo nell’errore di pensare che con lui abbiamo finalmente trovato il famoso “uomo solo al comando” su cui poter scaricare l’onere  e la responsabilità della ripresa o addirittura della rinascita. Per il semplice motivo che nelle società complesse, condizionate da mille interdipendenze – si pensi solo a quello che sta succedendo sul fronte dell’energia, e in particolare sull’approvvigionamento del gas (su questo vi consiglio di vedere la puntata di War Room dedicata al tema, QUI) – è illusorio, e deresponsabilizzante, credere che esista il Nembo Kid magicamente risolutore di ogni problema, SuperMario compreso. No, la speranza è che Draghi possa innescare processi di cambiamento, favorire il nascere e il crescere di nuove classi dirigenti, liberare e sprigionare energie imprenditoriali e intellettuali, scuotere torpori e confortare ambizioni. Il che, sul piano squisitamente politico, deve tradursi – seppure indirettamente, su questo occorre esser chiari – nel creare le condizioni perché Roma somigli a Berlino.

 

I nodi da sciogliere sono sempre quelli, cari lettori, e forse vi sarete anche stufati di sentirmeli raccontare. Ma repetita iuvant. E questa volta li si può evincere guardando a quanto accade in Germania e facendo il debito confronto. Di diverso, rispetto al passato, recente e più remoto, ci sono due cose che possono fare la differenza: Draghi e il clima che si respira nel Paese. Mentre cresce la speranza che con Draghi le cose possano davvero cambiare, nello stesso tempo affiora tutto il disagio verso l’incompetenza di una classe politica giudicata totalmente incapace di guidare l’Italia in una fase in cui occorre lasciarsi alle spalle l’emergenza Covid senza per questo abbassare la guardia e in cui bisogna saper trasformare il rimbalzo dell’economia in una crescita stabile e duratura. Gli italiani stanno finalmente capendo che lo schemino politico dentro il quale i maggiori partiti si sono abituati a giocare – che abbiamo ribattezzato “bipopulismo” – e la drammatica fragilità umana, oltre che politica e culturale, delle leadership che menano quella danza, non sono gli ingredienti giusti “per rapportarsi con l’Europa che conta; padroneggiare i conti pubblici; rassicurare i mercati, domare lo spread, sventare gli “agguati speculativi” (sono le parole usate dal mio amico Ugo Magri a proposito del duo Salvini-Meloni ma che possono tranquillamente estendersi all’insensata alleanza tra il Pd e i 5stelle a trazione Conte).

 

Osservate, senza farvi prendere da pruriti gossipari ma cercando di vedere cosa c’è dietro i fatti, le vicende che toccano Salvini (caso Morisi) e Conte (caso Di Donna), e capirete che le leadership di cartapesta saranno presto un ricordo. E guardate le foto della romana piazza del Popolo stracolma di gente accorsa per il comizio conclusivo della campagna elettorale di Carlo Calenda – destinato ad avere un risultato talmente sorprendente da essere spendibile sul tavolo della politica nazionale – e consideratele la premessa di quel che accadrà con le elezioni amministrative delle prossime ore. Forse Berlino, pur con tutti i problemi che anche quella cancelleria deve affrontare, non più così abissalmente distante…
 

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