L’ACCORDO PROPOSTO ALLE PARTI SOCIALI È ANCHE UN “PATTO NAZIONALE” OFFERTO DA DRAGHI AI PARTITI (CHE SE LO BOCCIANO, MUOIONO)

di Enrico Cisnetto

C’è una larga parte di italiani, oserei dire la maggioranza di essi, e c’è l’Europa, quella di Bruxelles ma anche di tutte le forze non sovraniste dei vari paesi continentali, dietro la proposta di un “patto per la rinascita” avanzata da Mario Draghi all’assemblea di Confindustria. E che nei prossimi giorni allargherà ai sindacati e alle altre forze sociali. Non è, come più d’uno ha erroneamente interpretato, una riedizione della “concertazione” dei tempi di Carlo Azeglio Ciampi (luglio 1993, quando era a palazzo Chigi), né tantomeno la sua successiva degenerazione consociativa. Così come non c’entra il presunto “partito di Draghi” che per taluni il presidente del Consiglio avrebbe formato insieme con quel migliaio di imprenditori che si sono spellati le mani per applaudirlo: stiano tranquilli, i timorosi, l’ex presidente della Bce non ha alcuna intenzione di imitare Mario Monti. Per non parlare della stupidaggine evocata dai soliti complottisti all’amatriciana, secondo cui quelli erano i “poteri forti” (magari ci fossero in questo paese ridotto ad un cencio da anni di declino) che stavano festeggiando la conquista del dominio da parte di uno di loro.

No, il patto invocato da Draghi altro non è che il tentativo di creare le condizioni di stabilità sociale che consentano di poter pienamente dispiegare le risorse imprenditoriali e del lavoro che servono per provare a centrare sia l’obiettivo congiunturale della ripresa economica che quello strutturale del cambiamento del modello di sviluppo. Propositi, riassumibili nella volontà di voltare finalmente pagina, che sono alla base del consenso che il Paese, nelle sue diverse articolazioni sociali e territoriali, sta tributando a Draghi. Così come sono, questi propositi, in cima ai pensieri di chi vuole che l’Europa prosegua a camminare lungo la strada dell’integrazione, e sa che le forze nazionaliste ed egoiste sono con i fucili puntati convinti (purtroppo a ragione) che se dovesse fallire l’attuazione del Pnrr italiano a quel punto le forze europeiste, moderate e riformiste, sarebbero costrette ad alzare bandiera bianca.

Draghi sa che le risorse europee del Next Generation Ue sono da investire in un arco temporale che arriva fino al 2026 (e forse anche oltre, perché più tempo serve a tutti i paesi), e che sono a “stato avanzamento lavori”, cioè arrivano solo quando si è dimostrato di realizzare gli investimenti nella maniera e nei tempi prefissati. Inoltre, è consapevole che per rimettere in moto l’Italia non basta né il tempo breve che ha davanti lui (anche nel caso che arrivi alla fine della legislatura, nel 2023, come è ormai quasi certo) né l’azione del suo governo, che sconta diversi limiti di qualità e concretezza. Per questo ha scelto di coinvolgere le parti sociali, chiamandole alla responsabilità: per dare continuità al lavoro che sta facendo, traguardandolo oltre le scadenze istituzionali. Gli imprenditori hanno risposto entusiasticamente, sia perché credono nel suo pragmatismo sia perché per loro la stabilità è un valore che incide direttamente e in modo significativo sul business, e in particolare sugli investimenti (che fanno in misura proporzionale alla confidenza che hanno circa la tenuta degli assetti politico-istituzionali, la stabilità del quadro regolatorio e il livello di pace sociale). Anche se devono avere più coscienza del loro ruolo (non è un caso che Draghi abbia chiesto loro “maggiore coraggio”) e darsi pace sui loro intendimenti associativi. Infatti, il Carlo Bonomi che giovedì ha salutato il presidente del Consiglio come “uomo della necessità” al pari di De Gasperi, Baffi e Ciampi è lo stesso presidente di Confindustria che qualche mese fa (quando l’ingaggio di Draghi era già nell’aria e da molti auspicato) si era convintamente speso a favore della continuità di Conte: è evidente che qualcosa non va.

Quanto ai sindacati, paiono divisi tra coloro che sono infastiditi (vedi le posizioni di Landini sul green pass) e coloro che sono silenti (in particolare la Cisl). Atteggiamenti, questi, accumunati da una medesima avversione, anche se di grado diverso, nei confronti di accordi per lo sviluppo che richiedano un po’ di briglie sciolte al mercato del lavoro e meno corporativismo. Peccato, perché queste posizioni, oltre che sbagliate in assoluto, finiscono per essere anche autolesioniste, perché sono convinto che la gran parte dei lavoratori guardino con favore a Draghi (non fosse altro per quanto fatto nella lotta alla pandemia) e alla sua sollecitazione rivolta alle parti sociali (come dimostra il proliferare di accordi aziendali dove si concretizza lo scambio tra produttività e salari-welfare).

In realtà, però, con questa mossa del patto sociale, Draghi si è soprattutto proposto di parlare a nuora (le parti sociali) perché suocera intendesse. E la suocera sono le forze politiche, a cominciare da quelle di maggioranza, che fin qui hanno maledettamente faticato a intendere, finendo per essere yesman in Parlamento e casinisti nelle piazze e tra di loro. Per i partiti il patto sociale offerto a imprenditori e lavoratori si declina in un “patto nazionale”, che serve per realizzare e portare a termine il Pnrr. Ergo, si traduce (o meglio, si dovrebbe tradurre) in una tregua non della lotta politica (che è il sale della democrazia) ma in uno stop a quella campagna elettorale permanente di cui un po’ tutti sono interpreti indefessi (non sapendo fare altro). Come ha giustamente fatto notare l’amico Stefano Folli, è lo stesso principio su cui Mattarella e Draghi hanno formato la maggioranza trasversale che sorregge l’esecutivo: garantire la massima spinta alla ripresa e la massima coesione sulle riforme da attuare, ma nello stesso tempo incoraggiare i partiti a rinnovarsi, convincendoli che il vero consenso, forte e duraturo, si conquista partecipando da protagonisti allo sforzo in atto, non lucrando sulla reciproca delegittimazione.

Ma chi è pronto a sottoscrivere convintamente il “patto nazionale”, e soprattutto a rispettarlo? Entrambe le coalizioni del nostro sgangherato “bipopulismo” non lo sono. A sinistra, dopo tanti (troppi) sbandamenti, Letta sembra disposto a far fare al Pd la sua parte. Ma portandosi dietro la contraddizione, cui non ha ancora posto rimedio, dell’alleanza con i 5stelle divisi tra Conte (la cui posizione politica è inesistente, e l’unica cosa certa è l’avversione personale nei confronti di chi gli è succeduto a palazzo Chigi) e Di Maio, assai più convinto di dover consolidare tutto ciò che favorisce il governo del Paese. Un’alleanza destinata a disfarsi come neve al sole dopo le amministrative di ottobre – nonostante che sia facilmente pronosticabile la vittoria in tutte le maggiori città tranne Torino (forse) dei candidati sindaci del centro-sinistra – non fosse altro per la batosta sanguinosa che riceverà il movimento 5stelle. E alla quale il Pd, finora, non ha costruito alcuna ipotesi alternativa.

A destra, da un lato si vive la contraddizione di due forze su tre che sono in maggioranza ed esprimono alcuni ministri, e di una che sta all’opposizione ma vorrebbe vincere le elezioni per poter andare al potere con chi contribuisce a quella minestra governativa che definisce non commestibile, mentre dall’altro tocca ogni giorno assistere agli indecifrabili e masochistici comportamenti di Matteo Salvini. Il quale non intende uscire dal governo, ma non rinuncia a distinguersene quotidianamente nel tentativo quasi ossessivo di contendere elettori a Giorgia Meloni. Anche a costo di spaccare la Lega e di rendersi inaffidabile come interlocutore del mondo economico e industriale, cosa incredibile se si pensa che quella è una prateria lasciata sempre più incustodita da Berlusconi e da quel che (non) resta di Forza Italia. Con la quale l’idea di un futuro “partito unico” appare sempre meno praticabile, non fosse altro per il fortissimo desiderio senile del Cavaliere (insoddisfacibile, ma tant’è) di diventare presidente della Repubblica.

Parliamoci chiaro: le prossime elezioni politiche saranno vinte da chi avrà fatto propria convintamente e fino in fondo l’agenda Draghi, con quel che significherebbe in termini di sua permanenza al governo anche dopo il voto del 2023. Altrimenti non ci sarà alcun vincitore, e queste forze politiche saranno irrimediabilmente destinate a sparire dalla scena. Forse chi ha ancora qualche neurone attivo dovrebbe rifletterci sopra.
 

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