LA FEROCIA DELL’INDIFFERENZA

LA FEROCIA DELL’INDIFFERENZA

C’è stato un momento in cui davvero ho creduto che Riforme e Carta Costituzionale fossero ritornate a essere “vista prospettica” per disegnare un futuro più a misura di essere umano anche dentro una cella. Le parole pronunciate da uomini e donne dello Stato in tutta la loro autorevolezza, affinché il carcere italiano non risultasse più un luogo di ingiustizia, di illegalità, di violenza, sono state così profondamente giuste e oneste intellettualmente da risultare un dovere ascoltare e condividere. Non riesco a capacitarmi di quanto le parole siano fragili, vittime predestinate dell’usura del tempo, fotogrammi ingialliti in cui le verità si travestono di proclami, di slogan, di cartellonistiche più o meno scopiazzate qua e là. È di qualche giorno fa la notizia volutamente poco illustrata in tutta la sua drammaticità, intenzionalmente poco sottolineata per la sua irraccontabile verità, di un detenuto, garrotato “lentamente, inesorabilmente, con la testa nello spioncino del blindato della propria cella. Aveva messo la testa in quel poco spazio per guardare fuori per qualche attimo dal perimetro della solitudine e miserabilità imposte, stava elemosinando un pugno di luce negli occhi, stava cercando di mostrare a sé stesso di esser ancora vivo, di non essere diventato una maledetta cosa, un oggetto in disuso, un numero senza più alcun colore né musicalità. È rimasto lì, appeso a quello spioncino, tra un sussulto e un tremolio feroce quanto l’umanità a pochi passi, ma divenuta giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno, irraggiungibile. È rimasto lì con la voce strozzata in gola, con il respiro che non esce dai polmoni, con la follia della disperazione a fare buio e non più luce in quegli occhi rovesciati all’indietro. Quella cosa, quell’oggettistica a poco prezzo, quel numero a scalare dal sovraffollamento creato a misura, stava scontando la propria pena, o forse e peggio, stava attendendo un giudizio definitivo. Un uomo privato della propria libertà, ma non di morire solo, appeso a una esistenza senza più speranza né compassione, soprattutto senza più quel rispetto necessario a tutelare la vita umana. È rimasto penzoloni senza alcuna attenzione, deprivato della benché minima prossimità umana. In questa affermazione c’è tutta la devastazione della dignità di ciascuno, nella mancanza di rispetto per sé stessi e per gli altri, dentro un luogo, una dimensione in cui non c’è possibilità di affidarsi al valore che abbiamo di noi, a quel valore che sta alla nostra ritrovata ragionevolezza che valiamo ancora qualcosa. Invece è rimasto lì, icona inguardabile della sconfitta della speranza contro ogni speranza, abbandonato all’indifferenza più feroce.

 

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