Da Nietzsche a Zambrano attraversando Pavese nel filosofico “Il sottosuolo dei Demoni” di  Pierfranco Bruni

di Lidia Caputo*

Tra i volumi pubblicati da Pierfranco Bruni, negli ultimi anni, “Il sottosuolo dei Demoni”, edito in elegante veste da Solfanelli, 2021, appare l’opera più completa ed illuminante per i significati e contenuti che caratterizzano la sua poliedrica cultura umanistica e filosofica.

A partire dall’introduzione all’opera, dal titolo “Filosofia e letteratura, vissuto antropologico”, l’autore dà prova della sua maestria nel delineare nitidamente gli influssi della filosofia nicciana sulle opere letterarie e sui vissuti antropologici di significativi esponenti della letteratura novecentesca, in primis del poeta-vate Gabriele d’Annunzio.

 

L’intentio che sottende l’avvincente opera, composta da altri trentuno saggi, è quella di offrire al lettore una specola di osservazione ed una chiave interpretativa dei magmatici contenuti filosofici, antropologici e letterari che caratterizzano la contemporanea riflessione estetico-esistenziale. Essi spaziano dall’interpretazione del mito di Frazer a “Sud e magia” di Ernesto De Martino, dalla concezione dello sciamano di Cecilia Gatto Trocchi  a “La curandera del mistero” in Carlos Castañeda, da “Il viaggio di Claude Lévi-Strauss” a Mircea Eliade e la “Nostalgia”, da “Fedeltà ed eresia” in Ida Magli al “Fuoco” in Pirandello e Pavese, dal “Divino” di Silvina Ocampo al “Sottosuolo dei Demoni” di Dostoevskij.

 

Nel  suo vulcanico testo interdisciplinare, pervaso da un magico equilibrio compositivo,  Pierfranco Bruni ha attualizzato l’aforisma di Emerson: “Per il poeta e il saggio tutte le cose sono amiche e benedette, ogni esperienza è utile, ogni giorno sacro, ogni uomo divino”.     Il saggio dell’enciclopedico scrittore calabrese è un impareggiabile esempio di immersione nelle ancestrali sorgenti mitiche, psicanalitiche, oltre che filosofico-antropologiche della cultura universale, che si squaderna attraverso millenni di contatti e contaminazioni tra Oriente ed Occidente, tradizione orale e scritta, popolare e dotta.

 

Come il “Così parlò Zarathustra”  di Friedrich Nietzsche, questo è un libro per tutti e per nessuno, nel senso che occorre accostarsi ad esso con animo limpido, scevro da pregiudizi, aperto alla conoscenza dei significati supremi dell’esistenza e del cosmo. Bruni delinea sapientemente le coordinate filosofiche, estetico-letterarie e antropologiche di un processo mitopoietico che congiunge le origini della cultura mediterranea con la contemplazione, a partire dalla civiltà preellenica, del destino umano, della vita e della morte attraverso l’arte, la poesia e la musica.

 

Le componenti mitiche, già presenti nei canti rapsodici degli aedi, organizzati poi nell’Epos, in primis quello omerico, costituiscono unitamente al culto dionisiaco e misterico, l’essenza della tragedia attica.   Nel saggio introduttivo l’attenzione è calamita dalla potenza dionisiaca dell’incantamento che si riverbera, attraverso la nicciana Nascita della tragedia, sulla contemporanea letteratura italiana e in Gabriele d’Annunzio, il suo interprete più sublime. I temi della maschera, della morte e della sua trasfigurazione nel mito sono collegati alla profezia nicciana del Superuomo e alla sua volontà di potenza che raggiunge la sua massima espressione nella dimensione artistica.

 

Tra gli autori italiani, che, oltre al poeta-vate, hanno incarnato maggiormente la concezione estetica nicciana, l’autore annovera Cardarelli, Saba, Savinio, Michelstaedter, Svevo, Pavese, Gozzano, Campana, Bontempelli, Onofri. In particolare quest’ultimo costituisce, a mio avviso, uno dei più fedeli seguaci delle teorie del grande pensatore tedesco. Come evidenzia anche Antonio Banfi, nel suo articolo del 1930, Arturo Onofri visto dai critici, questo poeta esprime la rinnovata esigenza di mutuare dall’arte antica l’obbiettività spirituale incarnata nel mito, coniugandola con l’affermazione della soggettività dell’estetismo contemporaneo. La scrittura di Onofri è metafisica nell’accezione nicciana, in quanto esprime l’elevarsi dell’io individuale all’io assoluto, come scopriamo nei suoi Discorsi di Buddha, nelle liriche influenzate dal Faust goethiano e dallo Zarathustra di Nietzsche.

 

Anche Bruni, nell’excipit del suo saggio introduttivo, sottolinea che “Zarathustra stesso è la metafora di una letteratura che ha ancora bisogno di ritrovarsi negli orizzonti dell’apollineo e nel senso del dionisiaco”. Lo scrittore meridionale si occupa altresì del passaggio del mito dall’antropologia alla letteratura nel saggio su “James Frazer e il mito come immagine”.  Il ramo d’oro di Frazer illustra come il mito abbia interagito con la fantasia lungo i percorsi della storia, creando intrecci che hanno raccontato la vita dei popoli attraverso le immagini simboliche e archetipiche. Quando ciò avviene la letteratura supera ogni forma di realismo o di descrittivismo. Come avverrà in seguito per Pavese, Frazer si ricollega a Giambattista Vico per comprendere il senso del sublime, giocando tra interpretazione simbolica e visione onirica.

 

Ricorda Bruni che Cesare Pavese ha sempre avuto ne Il ramo d’oro il testo di riferimento per interpretare le analogie tra il significato di “selvaggio” in Occidente e di “primitivo” riferito all’Oriente. Il ramo d’oro è l’immagine simbolica di quella forza spirituale ed esistenziale che contraddistingue gli uomini primitivi, ma costituisce anche per i contemporanei una chiave ermeneutica per penetrare nella dimensione onirica e magica della vita umana. La prospettiva simbolica e mitica s’irradia anche dalla riflessione antropologico-letteraria di Mircea Eliade  sul tema del nostos ne La prova del labirinto,(Jaca Book, 1979), che Bruni analizza nel saggio “Mircea Eliade e la nostalgia”. “Tramite la nostalgia”, osserva Eliade, “ritrovo delle cose preziose, ho quindi il sentimento che non perdo niente, che niente va perduto”.

 

Nei canti popolari, nelle letterature della diaspora, nei diari di viaggio in prosa e in versi degli scrittori albanesi contemporanei, rivive la pena della lontananza, la nostalgia della patria, la speranza del ritorno. Temi già presenti nelle forme archetipiche del mithos e della fiaba.      Mircea Eliade sottolinea, in “Immagini e simboli” (Jaca Book, 1980), che “Ogni essere storico riassume in sé una grande parte dell’umanità prima della storia”, ma questo sentimento di continuità con il passato rimarrebbe sterile se non incontrasse il sapere archeologico, che esprime il valore del patrimonio materiale e spirituale di ogni civiltà. Nella storia dei popoli del Mediterraneo, nonché delle tradizioni sciamaniche diffuse in Oriente e in Africa, il Salento occupa un posto privilegiato, come evidenzia Bruni nel suo contributo a “Sud e magia” di Ernesto De Martino (Feltrinelli, Milano,1959). Lo studioso napoletano è stato il primo a individuare nella cultura popolare e contadina di Terra d’Otranto, celebrata ne “La terra del rimorso”, (Il Saggiatore, Milano, 1961), la sua matrice greca arcaica e nel tarantismo la sua dimensione dionisiaca e catartica.  Da essa scaturisce il significato primordiale del nostro “essere nel mondo”, radicato nelle originarie forme rituali del canto e della danza, in cui la manifestazione del dolore è la condicio sine qua non per liberarsene:  la guarigione fisica e spirituale rappresenta il traguardo finale del profondo malessere che  attanaglia le popolazioni meridionali.

 

Nel saggio “Pitagora, il regno della magia” l’indagine di Pierfranco Bruni abbraccia i territori dell’intera Magna Grecia, portando alla luce le radici orfiche ed esoteriche della filosofia presocratica. Nelle terre italiche colonizzate dagli Elleni l’Orfismo rappresenta con Pitagora un modello di iniziazione ai misteri della vita e della morte. Il pensatore orinario di Samo non ha rivelato esclusivamente i segreti dell’armonia cosmica, fondando la scienza matematica, ma predicava l’amore e il rispetto tutte le creature e curava gli infermi mediante la musica.  Pitagora ha inaugurato una nuova visione del mondo, coniando il termine Philosofia,(amore per la saggezza) e con il suo esempio di vita ascetica ha preparato il terreno alla rivelazione cristiana della superiorità dei beni spirituali rispetto a quelli materiali.

 

Nell’ avvincente trama del suo volume polifonico, Pierfranco Bruni riesce mirabilmente a mettere in correlazione la molteplicità delle sue riflessioni  sull’influenza del Mithos, dei culti misterici, della sapienza biblica, nonché dello spirito dionisiaco del dramma greco sulla cultura filosofica e sulla produzione letteraria mondiale dal Romanticismo ai nostri giorni. La strenua ricerca dei simboli e delle figure mitopoietiche che dalle antiche religioni e filosofie proiettano il loro fascino sugli spiriti inquieti dei pensatori  contemporanei emerge in tutta la sua complessità nei saggi che spaziano da “Cesare Pavese e il cerchio del suicidio” a Nina Cassian e l’antropologia dello “sparire”, da Violeta Parra e il Cantico di San Francesco a Silvina Ocampo e il “pellegrinaggio dell’infinito”, dalle riflessioni sulla religione  di Maria Zambrano all’ermeneutica di Todorov.

 

I ponderosi capitoli su “Il pellegrinaggio dell’infinito” e “Lungo la saggezza metafisica” illuminano gli impervi sentieri della fede cristiana da Sant’Agostino a Kolakowski. Di rilevante spessore antropologico e filosofico-letterario è il contributo critico “Il sottosuolo dei demoni”, dedicato alla dimensione tragica del destino nei pensatori e letterati del XIX e XX secolo, con cui Bruni titola l’intera raccolta di saggi.  L’autore abbraccia nella sua visione poliprospettica  la produzione letteraria europea influenzata dal  pessimismo di Søren Kirkegaard, ma in primis si sofferma sulla figura emblematica di Fëdor Michailovic Dostoevskij che ha portato alla luce i “demoni” che vivono nella società scristianizzata.

Lo scrittore russo viene identificato con il “Grande Inquisisitore”che riesce a penetrare il sottosuolo dell’anima e vi scopre che “fintanto ciascun uomo non sarà diventato veramente fratello del suo prossimo, la fratellanza non avrà inizio. Difatti nessuna scienza e nessun interesse comune potranno indurre gli uomini a dividere equamente proprietà e diritti”. Quest’indagine  nel labirinto della psiche umana costituisce il tratto distintivo della produzione dei maggiori scrittori contemporanei, tra cui Pierfranco Bruni annovera Aleksandr Puskin, Gabriele d’Annunzio, Luigi Pirandello, Cesare Pavese, Aleksandr Solženicym.

 

Il pathos per la fragilità e dissennatezza dell’essere umano privo di un saldo ubi consistam si riverbera dalla tragedia della Grecia classica sulle massime espressioni del panorama letterario contemporaneo. Come sottolinea Bruni, gli autori più significativi rifuggono dal realismo di maniera, privilegiando la dimensione simbolica e onirica dell’esperienza esistenziale.     In questo itinerario nel sottosuolo dell’anima, l’intuizione della tragicità del destino umano non sempre segna una battuta d’arresto nella strenua ricerca del Bene:  la sfida dei pensatori contemporanei ci provoca ad oltrepassare i limiti delle angustie terrene per contemplare la bellezza dell’essere liberato dall’angoscia grazie alla fusione ineffabile con la natura e, per gli spiriti ascetici, con il Creatore.

 

*Unisalento

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