L’attualità del male tra politica e storia. Machiavelli da recuperare
di
Micol Bruni*
Machiavelli è ancora (o sempre) moderno o attuale? È certo che annuncia il Rinascimento. Anticipa il nuovo tempo. Non amava la mestizia, la superbia, l’invidia, il rancore che possedeva Dante. Non amava Dante ma a Dante deve molto soprattutto al “Monarchia”. Nella sua libertà, un concetto di libertà nella storia che accoglie la “prudenzia”, si poteva permettere, dall’alto della sua saggezza vissuta, di sorridere sempre sui tradimenti altrui, sugli inganni consumati sulla sua persona, sulle gelosie che puntavano sempre la sua persona e la sua opera.
Fu, con la sua opera, non solo l’incarnazione di un secolo di mezzo quanto anche un uomo che chiedeva alla virtù di comprendere la stoltezza degli stupidi. Ed ogni inganno, ad ogni tradimento, ad ogni freccia di invidia sapeva dare la sua risposta e la sua risposta nei confronti degli uomini miseri era il sorriso.
Machiavelli, in fondo, incarna la modernità del tradimento non solo della politica e quindi della storia ma un tradimento peggiore che è quello morale tra gli uomini. Ci ha sempre raccontato che le passioni degli uomini camminano sui fili delle epoche e sono sempre le stesse. Nella nuova edizione del mio Machiavelli come filosofo di un secolo di mezzo ho attraversato proprio il male tra politica e storia (cfr. Il mio Machiavelli edito da Pellegrini).
In un Rinascimento che usurava la cittadinanza dell’umanesimo Machiavelli ha il coraggio di inventarsi il “Principe”, ovvero il Principe in politica. E lo fa ponendo all’attenzione, tra le tante sfere valoriali, due concetti chiave: la virtù e il servo. La virtù è sempre libera perché non risponde ai capi, alla discrepanza dei capi, all’agonia dei poteri, alle prepotenze, alle arroganze perché sa essere libero con l’intelligenza, con il pensiero, con il coraggio, con la lealtà verso se stessi prima di tutto. Il servo appartiene a due categorie: quella degli imbecilli e quella della vanità, ma si resta, comunque, schiavi e miseri, vuoti e sconfitti, nullità.
Tra la virtù e il servo si intaglia la tragedia. Il servo non la comprende e si affida ai protettori del divino. La virtù comincia ad intavolare una discussione con la ragione e si rende conto che non basta, poi si confronta con la storia e si rende conto che non è abbastanza incisiva, poi incontra l’ironia e propria con questa non stabilisce patti ma intreccia una bella battaglia e alla fine la virtù accoglie lo sdegno delle piccole cose, dei piccoli fatti, delle miserevoli azioni.
“Il Principe” è anche un testamento di moralità. È la vita di Machiavelli che lo segna nella intimità ma ripropone anche un’altra questione: quella della lealtà.
Infatti il suo combattere, in un secolo di mezzo, è contro quel “dantismo” accidioso che aveva penetrato l’Umanesimo e però non trovava spazio nel Rinascimento. Quel dantismo che recita la sua teologia morale ma si sa che quando si vogliono tracciare le ragnatele teologiche si scava nella morte del pensiero. E Machiavelli era convinto di questo. Il pensiero è nella libertà. Il servo è tale non solo perché non è libero ma perché non ha pensiero e quando pensa di avere un pensiero non capisce che è dettato da una teologia inconcludente che può condurre al male.
Il male è nella storia. Ma se la virtù non conosce subordinazioni e sfida con il pensiero il servo vive nella perversione perché subisce e accetta di subire. La servitù di cui si parla non è quella economica, è quella del pensare, del dire, della parola, della dignità, della rettitudine nella lealtà. Aspetti che diventano perversi per il servo perché nella sua mente c’è la subordinazione al capo. Mentre la virtù è sempre rivoluzionaria e ribelle.
Sono convinto che senza questa base etica non è possibile penetrare la sensibilità dello scritto di Machiavelli, perché soltanto in questa sensibilità si intrecciano i valori e la conoscenza dei valori ma anche la consapevolezza dell’esistenza nella storia del servo. Machiavelli ha dovuto raccogliere tutte le invidie della sua epoche ma non ha mai risposto perché la sua voce interiore era ben altra. Lo hanno ferito, lo hanno colpito, hanno cercato di renderlo vulnerabile. Ma egli non ha mai replicato perché era consapevole che chi colpisce è un servo o un traditore.
Ha scritto Maurizio Viroli: “La fortuna infligge a volte ferite che non si rimarginano più. Il racconto della vita si spezza in un prima e un dopo. Chi le ha subite avverte, da un certo giorno in poi, di non essere più la stessa persona, soffre angosce mai provate, scopre dentro di sé risorse che non credeva di possedere, vede il mondo e gli uomini sotto una luce più fredda. Può scoprirsi più forte o più vulnerabile; in ogni caso si ritrova diverso” (Maurizio Viroli, “Il sorriso di Niccolò. Storia di Machiavelli”, Laterza, 2013, p. 132).
È riferito certamente a Machiavelli. A quel Machiavelli che non amò mai Dante. Gli venne attribuito un saggio dal titolo: “Discorso o Dialogo intorno alla nostra lingua” pubblicato soltanto nel 1730, nel quale il giudizio su Dante è pesantissimo. Per ciò che mi riguarda è tutto da condividere, soprattutto nella linea marcata dallo scontro tra la virtù e il servo. E tra i due non c’è alcuna comparazione. La Firenze di Machiavelli non è quella di Dante. L’esilio di Machiavelli è esilio, quello di Dante è retorica tramandata scolasticamente. Il concetto di storia in Machiavelli interessa il concetto di Stato e di Nazione ma anche di unità etnica. In Dante va liquidata con la demagogia della teologia che va oltre l’esoterico.
Machiavelli è chiaramente l’uomo moderno che non impone una Ragione di Stato ma propone i dettagli per una Ragione della politica, in quanto la centralità della sua esperienza e testimonianza è rappresentata dalla politica come costante evolversi.
Machiavelli non venne capito dall’Illuminismo perché accecato dalla rivoluzione antitradizionale applicò, anch’esso, una teologia della subordinazione e fu realmente il Secolo dei servi.
Machiavelli sarebbe stato un anti illuminista, perché quella Ragione alla quale fa riferimento il devastante Tempio dei “Lumi” è soltanto il preambolo della prassi marxista che incontra le contraddizioni teologali del mondo cattolico. Machiavelli è oltre perché si pone il problema, come ebbe a dire Prezzolini, del Dio è un rischio.
Il Machiavelli che faceva filtrare pensieri con il coraggio delle idee spaccando il consociativismo del conformismo tra i poteri dello Stato e quelli della Chiesa (si sarebbe potuto definire un pensiero, il suo, oltre la Chiesa ma dentro il Cristo della carità) è stato maltrattato perché faceva paura. Perché poneva domande, perché cercava risposte, perché colpiva con la intelligenza e lo sdegno della virtù. Era dentro la storia. Non dentro soltanto la sua epoca. Era dentro quella Storia che diventava profezia.
D’altronde “Il Principe” è un racconto della profezia e la sua morte è stata profetica. Voleva andarsene all’inferno con la virtù piuttosto che essere accolto nel paradiso dei servi. Non è una frase provocatoria. È un percorrere machiavelliano. “Niccolò è morto… con lo stesso sorriso con il quale è vissuto… rispondeva con il suo sorriso alle miserie della vita per non lasciarsi vincere dalla pena, dallo sdegno e dalla malinconia, e per non dare agli uomini e alla fortuna la soddisfazione crudele di vederlo piangere. Ma il suo sorriso non era solo il suo modo di difendersi dalla vita; era anche il suo modo di immergersi in essa: nel suo sorriso c’era quell’amore della libertà e dell’uguaglianza civile che è stato sempre in lui fortissimo, perché è solo fra liberi e uguali, non con i padroni né con i servi, che si può davvero ridere; e c’era soprattutto un profondo e sincero senso di carità…” (Maurizio Viroli, Op. cit., p. 255).
Dunque, il Machiavelli che non teme e che ama la verità. Il Machiavelli che libera il suo pensare tra le pagine della vita, il suo scontrarsi con la storia e mai con gli uomini. Il Machiavelli distante da Dante perché non lo considera un poeta. Il Machiavelli che non accetta teologie.
La sua modernità diventa il contemporaneo senso di uno sradicamento. Ma proprio da questo sradicamento la virtù conquista la voce della bellezza. La sua chiusa con i versi del Petrarca (ne “Il Principe”) è una emblematica testimonianza: “Virtù contro a furore/Prenderà l’arme, e fia el combatter corto…”. Virtù. Ma è questa che sconfigge i servi.
*storica e filosofa