Dalla Palestina dipende il futuro (nostro e di Israele)

di Domenico Bilotti

 

È a dir poco straniante e fastidioso iniziare un discorso sulla situazione palestinese dovendo precisare che non si è antisemiti. Con spregio dichiarato alla policy del convenzionalismo, mi professo radicalmente sostenitore di ogni avversione al razzismo semita: ammiro e studio la cultura ebraica (per l’università di Haifa preparai un paper su un rabbino marocchino e fu una delle più appassionanti esperienze di studio della mia vita); apprezzo il liberalismo politico ed esegetico dell’ebraismo conservatore; mi entusiasmo dell’ebraismo riformato e umanista. Disprezzo ogni revival nazionalsocialista. Peraltro so bene come in Israele, almeno in alcuni ambienti, questa suspiciosa cautio preliminare sia del tutto non richiesta. A Tel Aviv, cuore pulsante del nuovo laburismo libertario, numerosi cittadini israeliani supportano la causa palestinese. Persino a Gerusalemme la retorica antiaraba alligna in settori circoscritti, non accolta nemmeno da tutte le scuole rabbiniche che l’occhio occidentale s’aspetterebbe acriticamente proclivi alla propaganda governativa. Insomma: se per difendere i bambini uccisi a Gaza serve fare le analisi del sangue, posso certificare che i valori sono buoni. Quel che non ci si spiega è come mai a Ovest del muro del Pianto qualcuno pretenda si debba sempre precisare che la critica al governo di Israele non sia né antisionismo né antisemitismo e che supportare i diritti del popolo palestinese non sia cedimento al fondamentalismo. Per indole, il fondamentalismo non mi convincerebbe mai: stimo le Scritture al punto che il formalismo letteralista, indifferente alla bellezza del mondo, mi pare violativo in radice di ogni promessa di liberazione. Eppure -aggiungiamo disgiunzioni- so sul campo quanto il reticolato delle charities islamiche sia stato importante nella striscia di Gaza: dove non arrivava il liberalismo, offrire istruzione, cibo, sussidio, sarà pur sembrato un elemento necessario a chi non aveva, appunto, istruzione, cibo e sussidio. Quanto sta accadendo in Israele e Palestina non ha alcuna possibile giustificazione nella comunità internazionale. Ricorda quando un tirannello dei tempi nostri chiamò “ramoscello d’ulivo” un’operazione politica di pulizia etnica. Non simpatizzo per quell’islamismo che crede di soggiogare ogni istanza di lotta delle persone umili alla propaganda antioccidentale: persino il cd. estremismo islamico ha tale qualità e quantità d’accenti da anteporre il demone della fame al falso fantasma della nuova Babilonia. E va tuttavia ricordato che una parte non irrilevante del repubblicanesimo palestinese, come insegnerebbero con dovizia di fonti Negri e Bordin, ha da tempo scelto la via federalista democratica liberal-socialista: altro che teocrazie sunnite e nostalgie leniniste! La Palestina ha indubitabilmente un popolo e almeno in parte una classe dirigente, avversa alle soluzioni-semplificazioni terroristiche e semmai conscia degli enormi problemi di vita della sua gente. Non pochi: dalle risorse idriche ai luoghi di culto, dalla mortalità infantile alle limitanti condizioni lavorative, economiche ed esistenziali. Si tratta con ogni evidenza di un nodo scorsoio che da due estremi strangola ogni anelito di giustizia. Da un lato, il conflitto medio-orientale vede da troppo tempo l’interessata belligeranza a distanza delle grandi potenze globali, che tendono a considerare quello scenario uno scacchiere su cui collocarsi per tenere le pedine sull’area e magari ghermirne i vantaggi. Dall’altro, la situazione dopo gli attacchi israeliani somiglia sempre di più a una sistematica e reiterata violazione degli elementari diritti umani, fino a intaccare e minacciare la vita stessa delle persone. Probabilmente non si saprà mai davvero cosa ciclicamente accenda la miccia, e con tanta veemenza. Sarebbe però particolarmente utile, proprio per la sicurezza di Israele, che venisse ripristinata l’integrità territoriale della regione palestinese e che ne venisse finalmente attuato lo statuto autonomo internazionale. A questa soluzione, fanno notare le indagini demoscopiche, non sarebbe contraria la gran parte della opinione pubblica israeliana. Scopriremo forse che i veri antisemiti, di qualsiasi razza e cittadinanza, son proprio quelli che usano la vita di Gerusalemme per soffiare sul fuoco.

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