di Enrico Cisnetto
PER DRAGHI È IL MOMENTO DELLA SVOLTA
SI GIOCA TUTTO IN DUE SETTIMANE
Due settimane. Entro le quali dovrà finalmente decollare la campagna vaccinale, finora andata molto più lenta di quel che si sperasse, cui non potranno che essere subordinate le “riaperture”, e dovrà completarsi la preparazione del PNRR, il piano per il Recovery da consegnare entro fine mese alla Commissione europea e al Parlamento italiano, dal quale dipende la ripresa economica e occupazionale. Dunque, è in questa manciata di giorni che ci separano dall’inizio di maggio che Mario Draghi si gioca tutto. Andare oltre significherebbe, da un lato, mortificare ulteriormente le speranze che la vaccinazione di massa ci consenta un veloce, anche se graduale, ritorno alla “normalità”, e dall’altro ritardare ancora l’uscita dalla recessione, con tutto quel che significa sia in termini sociali che di finanza pubblica.
Sul fronte della lotta alla pandemia, i passi avanti rispetto alla gestione precedente sono evidenti sotto il profilo dell’analisi dei problemi e delle premesse metodologiche: l’ingresso in campo dell’Esercito e della Protezione Civile per quanto riguarda la logistica; il deciso intervento nella negoziazione con le big pharma, anche a costo di tirare le orecchie a Bruxelles e mettersi in urto con Berlino, per assicurarci la dotazione delle dosi necessarie; il richiamo delle Regioni a comportamenti unitari, oltre che ragionevoli (fin qui ascoltato solo parzialmente). Ora, però, le ambizioni devono tradursi in fatti e far scattare il moltiplicatore: senza il tetto, a questo punto minimo, del mezzo milione di inoculazioni al giorno, addio aperture ed estate quasi normale. A Draghi il compito di capire perché questo non sia ancora successo e agire di conseguenza, se necessario anche con decisioni “forti”, magari commissariando le sanità regionali più indietro e meno collaborative (le due cose vanno di pari passo).
Ma pur sapendo che i risultati ottenuti con la campagna vaccinale di massa sono propedeutici alla ripresa dell’economia, tra i due fronti è il secondo su cui c’è maggiore ritardo e di conseguenza si concentrano i maggiori rischi. Potrà sembrare paradossale, vista la storia e le competenze di Draghi, ma è così. Per due ordini di motivi. Il primo: perché di questo benedetto piano, che deve servire non solo a lasciarci la recessione alle spalle ma addirittura a riscrivere il codice genetico del nostro capitalismo, introducendo i parametri della modernizzazione digitale e della sostenibilità ambientale, poco si parla e ancor meno si sa. Le indiscrezioni fanno temere che si tratti più di una riscrittura – diciamo, una messa in bella – della “lista della spesa” redatta dai ministeri e raccolta a palazzo Chigi quando vi albergava l’avvocato Conte, piuttosto che l’esito finale di una discussione strategica sul profilo che il sistema-paese dovrà assumere nei prossimi anni. Il secondo motivo: perché è proseguita senza soluzione di continuità la politica dei ristori, al tempo stesso inefficace e dispendiosa, già adottata da Conte, peraltro perfettamente iscritta nel codice genetico dell’unica politica economica che l’Italia ha conosciuto nell’ultimo decennio, e cioè quella dei bonus e delle risorse distribuite a pioggia, a sua volta figlia del ben più longevo prevalere della spesa pubblica corrente su quella per investimenti in conto capitale. E se, come ha mirabilmente scritto Carlo Bastasin, aiutare le attività e le imprese fragili humanum est, perseverare autem diabolicum.
Non c’è dubbio, infatti, che la pandemia da noi sia intervenuta ad aggravare un quadro economico già patologico, con la produttività e la competitività rimaste al palo – soprattutto se paragonate ai competitor – e un numero di persone attive così basso e una disoccupazione, specie giovanile e femminile, così alta da configurare che un terzo di persone che lavorano mantengono gli altri due terzi, al lordo di lavoro nero e sommerso. Ecco perché l’effetto Covid in Italia è stato più devastante, come si è visto dalla caduta del pil l’anno scorso, e rischia di essere frenante nella fase di cambio di passo dell’economia (tanto per fare un paragone, è di ieri la notizia che la Cina nel primo trimestre è cresciuta del 18,3% rispetto allo stesso periodo del 2020). Ora, se si continua a sforare il deficit corrente a botte di decine di miliardi alla volta – l’ultimo, ennesimo scostamento di bilancio è di 40 miliardi – nell’ottica di salvare l’esistente, e in particolare i settori meno produttivi perché maggiormente colpiti dalle “chiusure” causate dalla pandemia, sarà difficile, per non dire impossibile, contemporaneamente “ristorare” e indirizzare la politica dello sviluppo racchiusa nel Recovery verso l’obiettivo di alzare il livello produttivo medio del sistema rafforzando i settori più innovativi e tecnologici. Sostentare le componenti deboli e più colpite della nostra economia è cosa umanamente (ed elettoralmente) comprensibile, ma contraria ad accelerare lo sviluppo delle attività del futuro. E siccome si calcola che siano almeno un quinto del totale le attività senza prospettiva, e considerata quanto sia vasta la platea dei garantiti – per capirlo basta incrociare il dato sul numero di pensionati che abbiamo con quello sulla nostra età media e sulle attese di vita, e con il tasso di natalità in picchiata – ecco reso evidente che più si assiste questa parte della società e dell’economia tanto meno c’è spazio per chi ha prospettive di crescita. Le due cose confliggono, e costringono a scegliere. Tanto più per un paese che già portava sulle spalle il fardello di un debito pubblico tra i più grandi del mondo, che a più riprese aveva già mostrato di faticare a mantenersi sostenibile, e che adesso lo ha gonfiato fino alla prossimità del 160% del pil, e che dunque non può permettersi il lusso di spendere senza limiti e soprattutto senza porsi il problema del rientro dal debito, per quanto venturo.
Fin qui il PNRR – salvo sorprese che saremmo lieti di avere – è un insieme di fogli excel redatti frettolosamente, a volte di una genericità intollerabile, a volte con un dettaglio di spesa al centesimo e per questo inevitabilmente falso. Esse sembrano rispondere a tutte le possibili ambizioni del “politicamente corretto” (green, digitale, cultura) e del “corporativamente corretto” (sociale, territori, categorie) e di conseguenza non avere un filo rosso strategico che le leghi. Considerato che, almeno finora, di riforme strutturali non c’è neppure l’ombra, neanche di quelle indispensabili a far funzionare la macchina degli investimenti, le ambizioni da “piano Marshall” sembrano francamente fuori luogo. Tanto più che ai progetti straordinari del Next Generation EU si sommano, formando un unico, quelli dei fondi strutturali europei e nazionali (un altro centinaio di miliardi) che poco hanno a che fare con le modalità di una programmazione straordinaria e sui quali notoriamente grava l’italica incapacità di usarli.
Inoltre, delude il fatto che circa la governance del Piano, si sia ritenuto di non poter fare altro che seguire l’impostazione precedente, affidandosi alle procedure ordinarie della pubblica amministrazione centrale e periferica. Rinunciando così all’idea, lanciata da Giorgio La Malfa e confortata da molti, di creare un’entità apposita a cui affidare sia la progettazione che l’esecuzione del PNRR. Eppure, si sa che sul processo di assegnazione di queste risorse europee pesa un doppio meccanismo voluto dai paesi antipatizzanti del Recovery: il giudizio iniziale sulla congruità del Piano e, soprattutto, l’assegnazione dei fondi a “stato avanzamento lavori”. Due ostacoli contro cui l’Italia potrebbe inciampare, con la conseguenza che i paesi ostili – complice il cambio degli assetti politici continentali, con l’uscita di scena della Merkel e le incertezze che gravano sulla rielezione di Macron – potranno dimostrare che il Recovery è inutile perché chi doveva averne il maggiore beneficio non è in grado di usufruirne, e tentare di farlo abortire o comunque di ridimensionarlo.
Da Draghi, insomma, ci si aspetta il doppio miracolo di far decollare il piano dei vaccini per portarci velocemente fuori dalla pandemia, e di cambiare radicalmente il PNRR, nella logica di cambiare il verso all’intera politica economica. Il tutto in un paio di settimane, o poco più, perché andare oltre farebbe saltare il sistema delle aspettative che lo hanno accompagnato a Palazzo Chigi. I due mesi iniziali gli sono serviti per impratichirsi, misurare il rapporto con i partiti che lo sostengono e gestire la pesante eredità del precedente governo. Ora è il momento della svolta.