I dati bugiardi

di Alessandro Capezzuoli, funzionario ISTAT e responsabile osservatorio dati professioni e competenze Aidr

I dati statistici permettono di descrivere un certo tipo di fenomeno (naturale, sociale, etc.)  e di rappresentare la realtà con una buona approssimazione: questa è la buona notizia. La brutta notizia è che, laddove nel processo di produzione e di diffusione non sia applicato un metodo scientifico rigoroso, i dati statistici possono prestarsi a interpretazioni fantasiose e possono dar luogo a una conseguente distorsione della verità. La storia, anche la più recente, ha ampiamente dimostrato che una bugia “certificata” attraverso i dati può essere trasformata in una falsa verità supportata da numeri e opinioni, diffuse in contesti social-televisivi, che non provengono quasi mai da analisi scientifiche approfondite, ma da sensazioni o interessi personali. Questi ultimi, in particolare, inducono l’interessato a narrare capziosamente i dati, aggiungendo al racconto una buona dose di pathos e di trasporto emotivo che non hanno nulla in comune con la rigorosità scientifica. Umberto Eco ha insegnato che in qualsiasi narrazione esiste un patto narrativo tra l’autore e il lettore. Nel caso dei dati, affinché la narrazione sia quanto più possibile vicina alla verità, è necessario che il produttore conosca a fondo il fenomeno che sta descrivendo e i metodi per rappresentarlo con il massimo rigore scientifico possibile. Il lettore, invece, dovrebbe avere un insieme minimo di conoscenze per capire il significato di ciò che sta leggendo e metterlo in dubbio, se necessario. Questa condizione è molto infrequente poiché, spesso, anche gli addetti ai lavori sottovalutano le insidie del mestiere e, soprattutto, sottovalutano il nesso che c’è tra il dato statistico e le finalità di chi lo produce o lo diffonde.

Il metodo utilizzato per trarre in inganno i fruitori dei dati è collaudato e funziona molto bene: si sceglie la verità (o la bugia) che fa comodo e si supporta con una certa interpretazione dei dati, omettendo volutamente informazioni metodologiche o altre interpretazioni più veritiere. Accade spesso che, tra le tante interpretazioni associate ai dati, non prevalga mai quella più vicina alla verità ma quella più verosimile: e questo, laddove ci siano intenzioni dolose, o semplicemente superficialità, è molto pericoloso.

La credulità nei numeri, che deriva dalla scarsa conoscenza della matematica e della statistica, dà la possibilità ai malintenzionati di trasformare le falsità in verità e viceversa. La comunicazione, i notiziari e gli articoli sono pieni di esempi di questo tipo. L’interpretazione di qualsiasi fenomeno attraverso i dati dovrebbe essere introdotta da una frase di pericolo, come avviene per i pacchetti di sigarette, qualcosa del tipo “Con i dati si può mentire: leggere con cautela, pensare, ragionare e dubitare. Sempre”.

“Siamo invasi dai migranti” è una notizia che viene utilizzata frequentemente allo scopo di far leva sulle paure di chi vede nella diversità un pericolo e nella povertà una minaccia: questo per raccogliere consensi elettorali o per altri motivi poco nobili. Ci sarebbe da chiedersi come sarebbe una società in cui questa stessa informazione fosse divulgata in modo martellante sotto un’altra forma, descrivendo la diversità come un’opportunità e la povertà come un’occasione per abbattere le barriere piuttosto che alzarle. Di certo c’è che, a fronte di un titolo simile, un’esigua minoranza di persone consulta i dati prodotti dalla statistica ufficiale. Una minoranza ancora più ristretta riesce a contestualizzarli e a rendersi conto autonomamente che non c’è nessuna “operazione invasione” in corso. Uno dei peccati capitali delle informazioni statistiche riguarda la diffusione dei valori assoluti senza le adeguate descrizioni e contestualizzazioni. E anche dei valori relativi (percentuali) senza le dovute precisazioni. Quel numero, 700 migranti, significa tanto o poco? Diciamo che tanto e poco non hanno mai un significato vero e proprio, se non viene specificato “rispetto a cosa”. Effettivamente, in un villaggio di 10 abitanti, 700 può essere “tanto”, ma in una metropoli di 5 milioni di abitanti è relativamente “poco”. Se però, all’interno della stessa metropoli, i 700 migranti vengono fatti alloggiare in un comprensorio, ecco che per la percezione “locale” il numero significa di nuovo “tanti”. Se poi si considerano i dettagli temporali, ovvero il  periodo in cui si analizzano i dati complessivi (generalmente lo stock riferito all’anno solare), e lo status (rifugiati, richiedenti asilo politico,  minori non accompagnati o persone che si ricongiungono con un famigliare) ecco che la descrizione del fenomeno cambia ulteriormente in maniera radicale.

C’è poi un’altra questione, sempre riferita alla contestualizzazione dei dati,  che non deve essere trascurata: la definizione delle variabili analizzate.

Un articolo di questo tipo, per esempio, prima di suscitare indignazione per la situazione occupazionale del Paese, dovrebbe indurre il lettore a porsi parecchie domande: Chi sono gli occupati a cui fa riferimento la notizia?, Quali metodologie sono state utilizzate per ricavare quel numero? Che cosa rappresenta quel dato? Qual è l’errore statistico considerato?

I non addetti ai lavori probabilmente non sanno che esiste una definizione, condivisa dopo molti anni dall’Istat, dall’Inps e dal Ministero del lavoro, che identifica gli occupati nelle persone di 15 anni e più che nella settimana di riferimento (a cui sono riferite le informazioni):presentano una delle seguenti caratteristiche:

  • hanno svolto almeno un’ora di lavoro in una qualsiasi attività che prevede un corrispettivo monetario o in natura;
  • hanno svolto almeno un’ora di lavoro non retribuito nella ditta di un familiare nella quale collaborano abitualmente;
  • sono assenti dal lavoro (ad esempio, per ferie, malattia o Cassa integrazione).

Se questa definizione (peraltro incompleta per motivi editoriali) potrebbe essere lontana dall’idea comune di occupato, le interpretazioni dei dati diffusi dalle principali istituzioni prima di giungere all’accordo sono ancora più complesse e articolate da comprendere. Questa definizione, oltretutto, è integrata da altre definizioni specifiche (disoccupato, occupato a tempo indeterminato, etc), che permettono di fornire descrizioni più dettagliate riguardo alle diverse forme di occupazione. È sufficiente questa osservazione per fornire una chiave di lettura migliore? Ovviamente no. La definizione deve essere riferita a una metodologia di calcolo scientificamente valida, altrimenti resta priva di senso. I dati riguardanti gli occupati possono essere elaborati attraverso diverse fonti, integrate o meno tra loro, attraverso le quali descrivere la situazione occupazionale da diversi punti di vista. In generale, per rispondere alla domanda “quanti sono i/gli… ?”, si ricorre a due metodi, ciascuno dei quali può introdurre degli errori: o si contano tutti gli oggetti di analisi, o si stima il numero attraverso un campione. Tempo fa, mi sono imbattuto in un articolo in cui si affermava che, secondo uno studio non meglio specificato, i topi presenti a Roma fossero circa 6 milioni.

Che metodologia ha adottato chi ha condotto lo studio? Escludendo a priori che possa aver contato i topi uno a uno, e in quel caso si sarebbe trattato di un censimento, che avrebbe dato luogo a un “archivio amministrativo dei topi” con tanto di nome, cognome e indirizzo, l’ipotesi più sensata è che abbia stimato la popolazione totale di ratti attraverso un campione rappresentativo. Le parole stima e campione rappresentativo dovrebbero essere introdotte per legge a corredo delle informazioni diffuse dai media, per evitare ogni tipo di misunderstanding. Nella quasi totalità dei casi, infatti, i dati statistici rappresentano la stima di un certo fenomeno, non la misura di una verità assoluta e incontrovertibile, derivante dall’analisi di dati raccolti attraverso metodi censuari o campionari. Le stime, per definizione, sono corredate dall’errore statistico campionario e non campionario: il primo deriva dalle tecniche di campionamento, il secondo dagli strumenti e dai metodi di rilevazione. Questa affermazione, che potrebbe sembrare ovvia, non lo è affatto quando si tratta di comunicare un dato alla popolazione. Dichiarare apertamente che un dato è associato a un certo margine di errore, possibilmente descritto accuratamente in tutti i suoi aspetti, induce il lettore a dubitare e a interrogarsi sulla possibile falsificazione popperiana dei modelli applicati. Un campione statistico, per quanto accurato e rappresentativo possa essere, introduce sempre una qualche distorsione e un errore che può essere più o meno accentuato laddove si stimi la misura di fenomeni oggettivi (ad esempio il numero di biglie bianche e rosse presenti in un contenitore) o di “opinioni” derivanti da questionari sociali e indagini di mercato. Analogamente, un archivio amministrativo è affetto da altri tipi di criticità, ugualmente complesse, che necessitano di “aggiustamenti” spesso molto complessi per poter essere utilizzati a scopi statistici. In entrambi i casi, è vero che uno studio condotto su un campione o su un archivio amministrativo non può essere migliore del campione o dell’archivio su cui si basa. È altrettanto vero che da un campione (di)storto non può nascere un dato dritto. Tra le ulteriori tecniche di distorsione della realtà c’è sicuramente l’utilizzo fraudolento e spericolato di quello che nella statistica prende il nome di ’”indice di posizione”, ovvero di quel “numero” attraverso il quale si sintetizzano i risultati di un’elaborazione statistica. Gli indici di posizione più utilizzati per sintetizzare le analisi statistiche sono la media, la moda e la mediana. Anche in questo caso, è utile far riferimento a una notizia vera (o verosimile?) diffusa dai media senza le giuste avvertenze, per mettere in risalto alcuni aspetti interessanti.

Indicare il salario medio dei lavoratori di un’azienda potrebbe avere un senso laddove si abbia un certo interesse a livellare verso l’alto la rappresentazione delle retribuzioni: in un’azienda in cui ci sono tre lavoratori, uno che percepisce un salario da 5000 euro e due che ne percepiscono 500, il salario medio aziendale è 2000 euro. Lo stesso fenomeno, descritto attraverso l’uso della moda,  dà una lettura diversa:  il salario più diffuso nella stessa azienda ammonta 500 euro. La mediana, invece, suggerisce che circa la metà dei dipendenti percepisce meno di 500 euro e l’altra metà di più. Le tre affermazioni sono vere, ma ognuna descrive un aspetto diverso della stessa verità. Il problema, in questo caso, non è l’indicatore statistico, ma è l’uso che se ne fa a fare la differenza…

Potrei continuare per pagine a elencare le possibili insidie dei dati statistici, ma diventerebbe estremamente noioso e poco utile. È utile, invece, riflettere su una domanda: “Quali e quante notizie e report relativi alla pandemia hanno rispettato i requisiti minimi richiesti per la produzione e la diffusione di un dato statistico di qualità?”.

 

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