Il nuovo libro di Serpentini e Di Giovanni sulla prigionia di Enrico Sappia
a Castel dell’Ovo di Napoli
di Goffredo Palmerini
L’AQUILA – E’ uscita in questi giorni per i tipi di Artemia Nova Editrice l’ultima fatica degli studiosi Elso Simone Serpentini e Loris Di Giovanni dal titolo “Il prigioniero dimenticato. La detenzione di Enrico Sappia a Castel dell’Ovo (1850-1854)”. Nella precedente biografia di Enrico Sappia, cospiratore e agente segreto di Giuseppe Mazzini, scritta a quattro mani da Elso Simone Serpentini e Maurice Mauviel, alla detenzione del “nizzardo errante” nel carcere napoletano di Castel dell’Ovo è dedicato il secondo capitolo, per un totale di cinquantatre pagine. Viene descritto sommariamente un arco di vita di poco meno di quattro anni, da quando Sappia non aveva ancora compiuto 18 anni, a quando ne stava per compiere 22, dal dicembre 1850 al febbraio 1854. Ulteriori ricerche condotte da Serpentini e Di Giovanni presso l’Archivio di Stato di Napoli e in altri archivi, tra cui quello privato Damiani di Palermo, hanno consentito di scandire con maggiori dettagli e con più minute informazioni questa detenzione napoletana di un personaggio singolare, la cui vita avventurosa attraversa per lungo tratto gli accadimenti più significativi della seconda metà dell’Ottocento e lo porta a contatto diretto con le maggiori personalità italiane ed europee del proprio tempo.
Nell’introduzione citata alla biografia di Enrico Sappia si rimarcava che più si investigava su questo misterioso personaggio – un lungimirante intellettuale che aveva messo il suo genio al servizio di un ideale repubblicano mosso da una democratica visione dell’Europa – più cresceva il desiderio di conoscere meglio la sua personalità, per molti versi sfuggente, in quanto volutamente tenuta nascosta ai curiosi. L’analisi dettagliata dei documenti relativi alla sua detenzione a Castel dell’Ovo e dei nuovi documenti rinvenuti conferma la segnalata impressione e porta gli autori di questo volume ad esprimere la soddisfazione per la riuscita del tentativo di mettere in luce molti aspetti di un periodo cruciale della vita tumultuosa di Sappia, determinante per la formazione del suo carattere, di cui negli anni successivi si avrà un’espressione ancora più articolata.
Il contributo ad una maggiore conoscenza del personaggio Sappia, così come esso si viene formando nell’età giovanile, viene soprattutto dai rapporti della polizia borbonica, dai suoi scritti vergati durante la detenzione, specie quelli poetici, dai suoi comportamenti in carcere, alla continua ricerca di un modo, sempre assai scaltro, di rendere più tollerabile la detenzione. Mentre altri detenuti, anche di rilevante notorietà, ebbero a soffrire a Castel dell’Ovo pene e sofferenze indicibili, il giovane Sappia, pressoché imberbe, seppe ricorrere ad una incredibile serie di stratagemmi per alleviare le sue sofferenze con una proteiforme capacità di simulazione e di adattamento. Giocò con la polizia napoletana e con i suoi carcerieri con grande astuzia, promettendo rivelazioni in cambio di trattamenti più benevoli, concedendone alcune, vere ma mischiate ad altre false e incredibili, al solo scopo di rendersi “appetibile” agli occhi di chi era abituato a servirsi delle confidenze dei carcerati, estorte in vari modi, non esclusa la tortura o la minaccia di tortura, per avviare sempre nuove istruttorie e nuove carcerazioni.
Anche riguardo ai quattro anni della detenzione a Castel dell’Ovo vale ciò che si diceva nella citata introduzione alla biografia di Sappia. Lo storico apprende progressivamente che la sua ricerca non può mai avere fine. Perciò quanto trovato nei fascicoli dell’Archivio di Stato di Napoli e nell’Archivio Damiani, o in altre fonti documentaristiche, deve essere considerato non l’ultimativa e definitiva ricostruzione di un’incredibile odissea, quale fu la vita di Sappia, ma un terreno di coltura sul quale il seme dell’indagine può ancora attecchire e germogliare. Non tutte le porte si sono aperte e non di tutte le serrature si sono trovate le chiavi, perciò alcune domande restano senza una risposta conclusiva e portano solo ad ipotesi storiche e storiografiche, illuminate anche dallo svolgimento successivo degli elementi biografici del nizzardo.
Ad altre domande la risposta che viene data in questo lavoro è compiuta e certa, così come le ipotesi che ne conseguono. Il giovane prigioniero usò l’arte dell’infingimento e le sue mosse furono, nonostante la giovanissima età, sempre avvedute, pur avendo a che fare con vecchie volpi ed esperte faine, che seppe ingannare e tenere avvinte alle sue reti e alle sue capacità seduttive. La stessa strategia usò con il non meno esperto comandante del Forte, direttore del carcere, di cui seppe cogliere le debolezze, riuscendo ad infiltrarsi nella sua famiglia, della quale seppe guadagnarsi le grazie. Le sue profferte di sudditanza al Re, che si proponeva di uccidere a suo arrivo a Napoli, sembravano sincere, ma non lo erano, così come non erano sinceri i suoi pentimenti e le sue abiure del settarismo, le sue conversioni religiose e i suoi cedimenti. Questo anche nella seconda parte della sua detenzione, gli ultimi due anni, quando in parte il suo gioco venne scoperto e le condizioni carcerarie si fecero più dure.
Tutto quello che disse e tutto quello che fece aveva un solo obiettivo: alleviare la sua sofferenza. Tutto il resto non contava e passava in secondo piano. La sua scaltrezza è indubbia. Perfino il far finta di non avvedersi che gli erano stati messi alle costole agenti provocatori, con il compito di spiarlo e di riferire ciò che faceva, ciò che diceva e ciò che pensava faceva parte del gioco e del suo armamentario. Di quegli agenti egli si servì per far sapere ai suo carcerieri ciò che desiderava che essi sapessero, pur consapevole che essi non avrebbero creduto, per nulla o in parte, alle informazioni che egli dava loro con quel mezzo. Il gioco a rimpiattino fra le due parti fu un gioco di specchi contrapposti nel quale ciascuno tentava di essere più scaltro dell’altro e fare la mossa vincente.
Gli ultimi due anni, più pesanti, furono per lui a Castel dell’Ovo oggettivamente più difficili. Ma il gioco continuò, mentre l’indifferenza sostanziale del governo piemontese alle sue sorti, o il ritardo con il quale se ne occupava su sollecitazione di taluni membri dell’apparato, faceva di lui, di fatto, un “prigioniero dimenticato”, che perciò doveva fare affidamento solo su se stesso per sopravvivere fino alla sospirata scarcerazione. E, quando questa alla fine arrivò, restò nel prigioniero Sappia una rabbia contenuta a fatica, che gli fece perfino immaginare di poter tornare subito a Napoli, per prendersi chissà quale rivalsa, o, forse, fingere di volervi tornare per confondere i suoi carcerieri. I protagonisti di quello che la stampa inglese descrisse come un inferno in terra, quello delle prigioni borboniche, di cui tante altre vittime si dolsero con espressioni tanto e tanto a lungo gridate – si pensi a Luigi Settembrini e a Sigismondo Castromediano -, a fronte del giovane e scaltro Sappia appaiono personaggi di rango inferiore a quello descritto in altri racconti, spesso confusi dalle arti quasi magiche del giovane prigioniero piemontese.
Il terribile Prefetto di Polizia Gaetano Peccheneda, quasi un mostro di misfatti, l’orco dei racconti, a fronte dell’impudenza di Sappia acquista, così come il suo successore Orazio Mazza, non meno famigerato, un carattere “più umano”. Castel dell’Ovo, che per altri fu, e tale apparve, lo Spielberg italiano, capace con la sua durezza di piegare anche i temperamenti più solidi. Per Sappia invece fu, per lunghi tratti, quasi un comodo albergo, con vista sul mare, nel quale potersi concedere il tempo per la poesia e dal quale uscire per gite di piacere nelle principali località turistiche del circondario napoletano. Così si chiude il condensato del libro in terza di copertina: “[…] Lui è Enrico Sappia e dal primo momento gioca con i suoi carcerieri, con il Comandante del Forte, col Prefetto di Polizia, con lo stesso Sovrano, una partita a scacchi che ha una posta altissima: la vita. E’ una partita che dura quattro lunghi anni, tra alterne vicende, delazioni, ritrattazioni, lusinghe, spie, agenti, provocatori, arroccamenti. Poi arriva la mossa a sorpresa che mette il Re “sotto scacco” e gli apre la porta di una delle più temute prigioni del Regno. […]” Dopo la scarcerazione, l’esperienza detentiva si rivelò educativa per il cospiratore e agente segreto di Mazzini. Enrico Sappia farà tesoro di questa esperienza quando diventerà l’agente di Mazzini, cambiando mille volti e mille nomi per apparire e scomparire, quasi per incanto, in tutti gli scenari più importanti del Risorgimento italiano.
Giova infine dare, al lettore di questa nota, solo qualche cenno sull’intensa e movimentata vita di Enrico Sappia. Era nato il 17 aprile 1833 a Toetto di Scarena, un villaggio allora piemontese (ora Touët de l’Escarène, nelle Alpi marittime francesi) nella contea di Nizza, da un’antica famiglia benestante. Trasferitosi con la famiglia a Nizza, il giovane Enrico si forma nel Collegio dei Gesuiti seguendo studi classici. Appena quindicenne nel 1848 lascia la città per seguire Giuseppe Garibaldi in Lombardia, nella guerra d’indipendenza contro l’Austria. Dopo la sconfitta si rifugia a Roma, dov’era stata costituita la Repubblica Romana e vi conosce Giuseppe Mazzini. Mentre le truppe francesi stanno per entrare a Roma riesce a fuggire e ad imbarcarsi per Costantinopoli, entrando in contatto con irredentisti repubblicani che si ripromettono di attentare ai principali sovrani d’Europa. Rientrato a Nizza avvia una rete di contatti con repubblicani italiani e francesi. Nel settembre 1850, a Torino, concorda una missione nel Regno delle Due Sicilie, pare con l’intenzione d’attentare alla vita del re Ferdinando II. Fatto sta che appena arriva a Napoli viene arrestato dagli agenti borbonici e ristretto nel carcere di Castel dell’Ovo, subendo una durissima detenzione – di cui si parla diffusamente in questo interessante volume di Serpentini e Di Giovanni – durata ben quattro anni.
Scarcerato nel 1854, torna in Piemonte e veste la divisa di granatiere, ma quattro anni dopo, retrocesso nel grado, è presto costretto a lasciare l’esercito. Inizia quindi la sua peregrinazione da Torino a Firenze a Roma e quindi in Francia, dove nel 1869 dà alle stampe a Parigi, con uno pseudonimo, il libro Mazzini, Histoire des conspirations mazziniennes (tradotto da Elso S. Serpentini e pubblicato nel 2020 da Artemia Nova Editrice), con il quale si propone di coniugare il pensiero mazziniano con il socialismo rivoluzionario. Segue un’intensa attività giornalistica contro Napoleone III, tanto che viene processato e condannato a 15 anni di carcere, ai quali si sottrae raggiungendo Parigi, dove partecipa ai disordini seguiti alla sconfitta francese del 1870, subita nella guerra contro la Prussia. Ripara quindi a Londra, da dove denuncia la repressione francese dei moti irredentisti del febbraio 1871 a Nizza, per il ritorno della città sotto il Regno d’Italia. Nel 1874 torna a Napoli, poi va in Puglia, quindi in Abruzzo, a Teramo, dove svolge attività giornalistica e di docente, pubblicando numerosi lavori storici e d’arte. Resta in Abruzzo una decina di anni, fino al 1890, trasferendosi poi a Caserta, insegnando italiano e storia in un seminario. Nel 1896 torna a Nizza dove tenta la carriera di romanziere, scrivendo in italiano, ma senza successo. Nel 1898 fonda il periodico Nice historique, mentre continua a seguire – con Academia nissarda – un’attività culturale di difesa della specificità nizzarda rispetto all’invadenza francese. Muore a Nizza il 29 settembre 1906.