Pena di morte. Tra ragione e sentimento

 Gli Stati Uniti hanno ripreso le esecuzioni capitali federali lo scorso luglio dopo una pausa di 17 anni. Qualche giorno fa è stata eseguita la condanna a morte di Lisa Montgomery, prima donna in 70 anni. L’esecuzione federale era stata sospesa per perizia psichiatrica. Era accusata di aver ucciso nel 2004 una donna incinta per rimuoverne il feto e rivendicarne la maternità.
Un delitto tremendo, efferato. Ma il delitto compiuto dallo stato che condanna a morte, anche è tremendo, efferato, solo che non ha giustificazioni.
Se l’omicidio è un gravissimo male, lo è sempre. Uno stato che condanna l’omicidio, non può commettere un omicidio, giacché commette il male gravissimo che condanna. Solo nel caso della legittima difesa, l’omicidio trova una sua giustificazione, giacché si è costretti ad uccidere per salvare la propria vita o la vita di altri, ma anche in questo caso l’omicidio non diventa un bene, resta un male. Un male che si è costretti a compiere.
Si fa l’abitudine a tutto,  compresa l’uccisione fredda e programmata di esseri umani. Hitler aveva creato strutture idonee per uccidere moltitudini d’innocenti. Gli stati in cui vige la pena di morte, hanno creato strutture idonee per uccidere persone colpevoli, ed ogni tanto, per errore, qualche innocente. C’è un’enorme differenza, è vero, però ci sono anche innegabili analogie. Ciò che sconcerta in coloro che sostengono ancora oggi la pena di morte, è la confusione tra sentimento e ragione, nonché la rinuncia a quest’ultima. Chiedono, per mettere in imbarazzo chi non è d’accordo: «Saresti dello stesso parere, se avessero ucciso un tuo familiare?». E cadono così nella confusione tra sentimento e ragione.
Renato Pierri

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