Trump è sul punto di uscire sconfitto, ma la sua presidenza ha cambiato un paese e il suo modo di concepire la politica. Oggi guardiamo gli Stati Uniti e ci chiediamo quanto li conoscevamo davvero
(foto: MANDEL NGAN/AFP via Getty Images)
Se c’è un bias che da sempre contraddistingue la narrazione che si fa degli Stati Uniti d’America, quello sta nella gloriosa etichetta che essa si porta dietro: la più grande democrazia del mondo. Non ci volevano le estenuanti elezioni presidenziali del 2020 per aprirci gli occhi sui limiti di questa definizione, ma possiamo dire che se proprio cercavamo una conferma del fatto che gli Usa non sono un modello di democrazia perfetta, ecco, oggi l’abbiamo avuta.
Il comportamento di Donald Trump delle ultime ore è qualcosa che siamo abituati a vedere nei peggiori regimi del mondo, quelli dove chi detiene il potere indice delle elezioni farsa utili solo a prolungargli il mandato, in cui però l’opinione degli elettori, dei cittadini, non è importante. L’ex tycoon sta facendo qualcosa di simile, ma in modo più sottile. Il voto, in questo caso, non è pilotato. Ma resta il pensiero che la scelta espressa dal popolo americano non conta, quanto meno se essa è una preferenza per il Partito democratico. Donald Trump, in effetti, ha accettato il voto fino a quando esso lo poneva in una posizione di vantaggio, poi ha cambiato repentinamente punto di vista nel momento in cui è cominciato il conteggio del voto domiciliare, quello in cui sa di essere svantaggiato. “Stop the count” – fermate lo scrutinio – ha gridato su Twitter e ai microfoni, proclamandosi vincitore in diversi stati ancora non ufficialmente assegnati e auto-nominandosi nuovo presidente americano, nonostante ora dopo ora il calcolo reale delle schede spianasse sempre più la strada alla vittoria del democratico Joe Biden.
Nella presunta più grande democrazia del mondo, insomma, un candidato che non è un estremista autoritario catapultato per qualche strano motivo da un blog complottista alla corsa presidenziale, ma è il presidente uscente, chiede di invalidare il più grande esercizio democratico che esista, il voto appunto. E come se non bastasse, lo fa con una sorta di chiamata alle armi nei confronti dei suoi elettori. “Sto chiedendo ai nostri più forti e leali difensori, come te, di contrattaccare“, recita la mail firmata Donald Trump che stanno ricevendo gli iscritti alla sua campagna elettorale. Che, in effetti, stanno contrattaccando. Nella notte ci sono stati diversi disordini negli Stati Uniti, in particolare in Arizona e in Michigan. Elettori di Donald Trump armati di bandiera americana, fucili e pistole sfilano nelle vie delle città, presidiando i seggi elettorali dove gli scrutinatori, in una condizione a questo punto tutto tranne che serena, continuano a contare le schede.
Si potrebbe pensare che la situazione stia sfuggendo di mano negli Stati Uniti a causa di una singola personalità fuori dagli schemi, Donald Trump appunto. Ma la realtà è che Trump è solo l’espressione più pura delle tossicità americana, che è tale da ben prima che egli si imponesse nelle istituzioni politiche nazionali. In fin dei conti, stiamo parlando di uno stato dove qua e là ancora viene esercitata la pena di morte, dove un quarto delle persone uccise dalla polizia sono nere, per quanto gli afroamericani costituiscano solo il 13% della popolazione e dove diritti fondamentali come l’aborto non sono garantiti – in uno dei vari referendum del 3 novembre, per esempio, la Louisiana ha scelto che non è un diritto costituzionale, di fatto cancellandolo. Ma che ci sia qualcosa che non va nella democrazia Usa lo si capisce d’altronde nel suo stesso sistema elettorale. Si possono prendere milioni di voti in più dell’avversario, come era il caso di Hillary Clinton nel 2016 ed è il caso di oggi di Joe Biden, ma questo potrebbe non servire a garantire la presidenza.
Quella degli Stati Uniti come la più grande democrazia del mondo è la classica certezza che assorbiamo da bambini e che finiamo per accettare perché fa parte di noi. Ma ogni giorno, la cronaca oltreoceano ci restituisce tutt’altro, in quella che peraltro appare come una situazione in costante peggioramento. Il 2020 verrà ricordato come l’anno in cui un poliziotto Usa uccideva brutalmente l’afroamericano George Floyd, in cui le forze dell’ordine soffocavano le proteste del movimento Black Lives Matter, in cui il presidente in carica invocava i fucili perché si ponesse fine alle manifestazioni, in cui si chiedeva in modo violento di annullare il voto di milioni di cittadini. Se questa è la più grande democrazia del mondo, il pianeta Terra ha un problema.
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