Nel massacro del 1988, più di 30.000 prigionieri politici, la maggior parte dei quali membri e sostenitori dell’Organizzazione dei Mojahedin del Popolo dell’Iran (OMPI/MEK), furono giustiziati dal regime iraniano.
Nell’estate del 1988, il regime iraniano giustiziò sommariamente ed extra-giudizialmente decine di migliaia di prigionieri politici detenuti nelle carceri di tutto l’Iran. Il massacro fu compiuto sulla base di una fatwa dell’allora ‘Guida Suprema’ del regime Ruhollah Khomeini.
Questo rapporto è un estratto della seconda edizione di un libro intitolato “A Crime Against Humanity” (“Un crimine contro l’umanità”). Il libro è stato pubblicato nell’agosto 2017 dall’Organizzazione dei Mojahedin del Popolo dell’Iran (OMPI/MEK).
Il rapporto contiene anche alcuni dei nuovi eventi collegati al massacro dei prigionieri politici del 1988. Presentiamo qui una sintesi dei suoi argomenti.
Un crimine contro l’umanità
Negli ultimi giorni del luglio 1988 fu orchestrato un massacro nelle prigioni politiche dell’Iran. Il bagno di sangue fu avviato sulla base di un decreto (fatwa) senza data con il timbro e la firma di Khomeini, leader supremo e fondatore della Repubblica Islamica. Con 236 parole, Khomeini firmò le condanne a morte per tutti i prigionieri che sostenevano il principale gruppo di opposizione, l’Organizzazione dei Mojahedin del Popolo dell’Iran (OMPI /MEK):
“Coloro che sono in prigione in tutto il Paese e rimangono fermi nel loro sostegno [all’OMPI/MEK] stanno dichiarando guerra a Dio e sono condannati all’esecuzione …”
Il “Decreto di morte” di Khomeini per le esecuzioni di massa di prigionieri politici iraniani nel 1988
Khomeini assegnò il destino di quei prigionieri già condannati a pene specifiche, che si mantenevano fedeli alle proprie convinzioni, a tre individui che costituivano quella che divenne nota come la “Commissione della morte” a Teheran, e ad analoghe commissioni nei capoluoghi di provincia. Ordinò che coloro che prendevano le decisioni non mostrassero alcuna pietà, fossero pieni di “rabbia e odio” e “non esitassero” nell’eseguire le condanne.
In un brevissimo scambio di domande e risposte della durata di pochi minuti, le “Commissioni della morte” prima chiedevano a ciascun prigioniero di dichiarare la propria affiliazione politica; se i prigionieri avessero menzionato il nome “Mojahed” (MEK), il loro destino sarebbe stato segnato e le domande sarebbero terminate. Tuttavia, se usavano il termine “Monafeq”, che significa “ipocrita”, il termine peggiorativo usato da Khomeini per il MEK, i prigionieri venivano ricondotti ai reparti di detenzione.
Queste interviste affrettate determinavano la valutazione della “Commissione della morte” se il prigioniero rimanesse fedele al MEK e la decisione se sarebbe stato giustiziato o no. Tutti i lealisti dichiarati furono giustiziati. Svolto frettolosamente nelle settimane dell’estate 1988, questo processo in pratica svuotò le carceri dei prigionieri affiliati al MEK.
L’erede di Khomeini protesta contro la fretta delle esecuzioni dei prigionieri nel massacro del 1988
Il 9 agosto 2016, familiari di Hossein-Ali Montazeri, l’ex erede di Khomeini, hanno pubblicato una scioccante registrazione audio in cui si può sentire Montazeri dire a una riunione di membri della “Commissione della morte” 28 anni prima (il 15 agosto 1988) che essi stavano compiendo un crimine contro l’umanità. Il nastro di Montazeri ha rivelato nuove informazioni sulla portata e l’ampiezza del massacro di prigionieri politici all’epoca. Ha generato onde d’urto in Iran e in particolare tra i dirigenti del regime che per più di due decenni avevano tentato di imporre un silenzio assoluto sul massacro.
La registrazione ha anche mostrato che i dirigenti del regime iraniano che hanno ricoperto posizioni di potere dall’inizio della sua costituzione devono affrontare la giustizia per avere commesso uno dei più orribili crimini contro l’umanità.
Nella registrazione audio, Hossein-Ali Montazeri, che fu successivamente esautorato come erede da Khomeini proprio per queste osservazioni, dice ai membri della “Commissione della morte” Hossein-Ali Nayyeri, giudice della sharia del regime, Morteza Eshraqi, procuratore del regime , Ebrahim Raeesi, procuratore aggiunto, e Mostafa Pourmohammadi, rappresentante del Ministero dell’Intelligence e della Sicurezza (MOIS): “Il più grande crimine commesso durante il regno della Repubblica Islamica, per il quale la storia ci condannerà, è stato commesso da voi. I vostri [nomi] in futuro saranno incisi negli annali della storia come quelli di criminali”. E aggiunge: “L’esecuzione di queste persone mentre non ci sono state nuove attività [da parte dei prigionieri] significa che […] l’intero sistema giudiziario è stato colpevole”.
Khomeini chiese totale conformità ai dirigenti del regime
Tutti i dirigenti del regime all’epoca dovevano conformarsi pienamente a questo massacro o sarebbero stati licenziati o deposti. L’ayatollah Montazeri, che protestò contro il massacro, cadde in disgrazia e fu licenziato da Khomeini nel marzo 1989. Le memorie di Montazeri nel dicembre 2000 e i suoi sconvolgenti allegati rivelarono l’orrenda portata del massacro. Ciò che ha dato peso alle rivelazioni è che sono state fatte da un uomo che al momento delle esecuzioni era il successore ufficialmente designato di Khomeini e la seconda più alta autorità in Iran. Eppure, quando si trattò di massacrare prigionieri politici, Khomeini non mostrò pietà per la minima non-conformità nemmeno da parte di Montazeri.
Le ondate di carneficina
La carneficina può essere considerata in diverse ondate distinte.
Prima ondata, le estese esecuzioni di membri del MEK nella prigione di Evin a Teheran e nella prigione di Gohardasht, situata nella periferia di Karaj, a 40 chilometri dalla capitale. Queste sono considerate il cuore del massacro in termini politici, in quanto per vari motivi, tra cui la loro posizione che consente alla società iraniana di saperne di più sugli eventi rispetto ad altre prigioni, questa ondata di omicidi è la più documentata con informazioni e confessioni.
Seconda ondata, le esecuzioni avvenute simultaneamente nelle prigioni politiche di almeno altre 100 città, nell’ambito dell’epurazione dei prigionieri politici a livello nazionale. Non sono state ottenute informazioni da un numero considerevole di quelle prigioni.
Terza ondata, le esecuzioni di ex prigionieri politici affiliati al MEK che non erano in prigione quando fu emesso il verdetto di Khomeini. Furono nuovamente arrestati e immediatamente mandati al patibolo.
Quarta ondata, le esecuzioni di prigionieri marxisti, uccisi sulla base della fatwa di Khomeini o di qualche altro decreto a cui ancora non abbiamo accesso. I prigionieri marxisti furono convocati per colloqui verso la fine di agosto del 1988. In quel caso, ogni prigioniero fu interrogato riguardo alle sue convinzioni religiose.
Quinta ondata, le esecuzioni di persone che non stavano scontando pene detentive, ma che furono arrestate per il loro impegno nell’aiutare l’Esercito di Liberazione Nazionale. Dopo alcuni giorni di carcere, furono giustiziati per ordine di finti tribunali.
Rapporti e prove confermano che le uccisioni continuarono fino ai primi mesi del 1989. Tra le ultime vittime ci furono alcuni prigionieri la cui appartenenza politica non era stata determinata, ma che furono uccisi su ordine successivo impartito da Khomeini alle “Commissioni della morte”.
Questo massacro è stato condannato come un crimine contro l’umanità da difensori dei diritti umani e ONG di tutto il mondo. È stato tra gli eventi più importanti durante il dominio di Khomeini e ha avuto un effetto profondo e duraturo sul rapporto tra il regime e la società iraniana.
Questo rapporto descrive in dettaglio cosa è successo e chi era responsabile, rivelando prove inconfutabili della natura immutabile del regime. I leader sia degli “intransigenti” che dei “riformisti” si impegnarono nel massacro o vi collaborarono direttamente, o hanno ammesso che ne erano a conoscenza. In effetti, nel corso del tempo, i responsabili del massacro hanno ottenuto posizioni più alte nella gerarchia politica.
Uno degli esempi più odiosi è quello di Ibrahim Raeisi, uno dei membri della “Commissione della morte” a Teheran. Nel 2015, Khamenei lo ha nominato custode della Fondazione Astan-e Quds Razavi, un’istituzione multimiliardaria che amministra la tomba dell’Imam Reza a Mashad. La nomina lo ha promosso a chierico di quarto o quinto livello, considerato politicamente tra i più alti della teocrazia al potere. Un anno dopo, ancora una volta per ordine di Khamenei e con il pieno appoggio del Corpo delle Guardie Rivoluzionarie, è stato nominato candidato presidenziale. L’indignazione pubblica gli ha negato la presidenza, ma in seguito è stato scelto da Khamenei come capo della magistratura del regime. È anche membro del “Consiglio della Opportunità”.
Anche altri membri delle “Commissioni della morte” occupano posizioni chiave nel sistema giudiziario e in altre istituzioni del regime.
L’attuale ministro della Giustizia del presidente Hassan Rouhani, Alireza Avail, era un membro della “Commissione della morte” nella provincia meridionale del Khuzestan. Prima di lui, Mostafa Pour Mohammadi ha ricoperto tale incarico per quattro anni nella prima amministrazione di Roujani; era un membro della “Commissione della morte” a Teheran.
Nel 2016 e nel 2017, le domande sul massacro del 1988 sono riemerse nell’indignazione pubblica contro la candidatura di Raeisi e si è formato un nuovo movimento per la giustizia. Molti dirigenti e i loro complici hanno dimenticato le proprie precedenti smentite e hanno iniziato a difendere apertamente il proprio ruolo negli omicidi. Tra loro c’era anche Khamenei, che non ha mostrato alcun segno di rimpianto. Al contrario, queste ammissioni pubbliche non hanno fatto altro che evidenziare il ruolo fondamentale che il massacro aveva svolto nella formazione del regime al potere.
Anche se sono passati quasi tre decenni dal massacro, esso non appartiene al passato. È fortemente legato alla ricerca di libertà del popolo iraniano ed è al centro dell’operato della Resistenza per assicurare alla giustizia gli autori di questo crimine contro l’umanità.