LA LENTA AGONIA DEL GOVERNO CONTE II: TRA METAMORFOSI DEI PARTITI E DERIVE AUTOCRATICHE

 Luigi Rapisarda

 Nel dedalo inestricabile, dei diktat governativi, conferenze Stato-Regioni e rimbrotti di tanti sindaci che si ritengono ignorati, assistiamo ad una crescente girandola di stop and go nel declinare di provvedimenti che si intersecano, secondo le nuove tabelle cromatiche per definire il corrispondente grado di restrizioni in ciascun territorio regionale.

 Con tutto il seguito di malumori e recriminazioni che portano i governatori ad esibirsi nel solito gioco delle parti, in comparazioni talora inopportune.

 In mezzo a tante disfide, terreno in cui il governatore della Campania, De Luca, è maestro insuperabile, tiene in questo momento banco la proposta di ricorso al Mes che insistentemente il Pd continua a perorare.

 In effetti siamo ad uno snodo cruciale su questo enigmatico meccanismo di stabilità che l’Europa offre a precise condizionalità.

 Sono mesi che premier e forze politiche ci tengono sospesi su questo bel pacchetto di miliardi, circa 37, che potremmo spendere nel settore della sanità, con un copioso piano di potenziamento e di adeguamenti infrastrutturali.

 Il fatto è che non pare ci siano le condizioni nella maggioranza perché si possa accedere ad esso.

 A nulla sono valse le forti pressioni dei maggiorenti del Pd, il movimento 5 Stelle resta tetragono su una posizione di assoluta chiusura sul punto.

 E lo stesso Conte, che da tempo tergiversa se accedere o meno a questo finanziamento europeo: ma anch’egli vorrebbe se non frenato dal timore di una aperta spaccatura della maggioranza con conseguente inevitabile crisi di governo, si trova ad un bivio, essendosi reso conto che, mentre il ricorso al Mes consente di avere nella disponibilità immediata 37 miliardi, con cui potremmo ammodernare tutta la rete infrastrutturale della sanità, per cominciare a vedere la prima tranche di liquidità attraverso il next generation, non se ne parlerà che dopo l’estate.

 Con tutto l’immaginabile congerie di tensioni sociali e ulteriore disastro economico che questo stato di cose porterà nel Paese.

  Un bel dilemma, ma le condizionalità, nello stato in cui si trovano i nostri conti pubblici, con tre scostamenti di bilancio pari a circa cento miliardi, non ci farebbero passare sonni tranquilli.

 Così al momento il nostro canale privilegiato di finanziamento della liquidità resta ancorato al ricorso ai mercato finanziario, in primo luogo con la politica del quantitative easing, dati i tassi assai favorevoli e senza il rischio di un possibile commissariamento della famigerata troika.

 Ma l’attuale dibattito che vede i partiti impegnati nel rimarcare le loro posizioni riguardo al Mes, in realtà ha come focus non già il ricorso ad esso, allo stato delle cose difficilmente ottenibile da una maggioranza divisa, ma la procedura di modifica del trattato stesso che, a detta di tanti osservatori, non solo non attenua le condizionalità di impiego ma va nella direzione di rafforzare in modo assai più rigoroso le clausole, privilegiando maggiormente i finanziamenti ai gruppi bancari in difficoltà, ma all’interno di economie sovrane solide.

 Peraltro il dibattito che ne è seguito alle dichiarazioni del premier sulla posizione da assumere in seno al Consiglio europeo, a proposito delle modifiche al Trattato che regola il Mes (Fondo Salva Stati), ci ha disvelato nelle diverse dinamiche, taluni atteggiamenti non del tutto nuovi e altri inediti.

 E se non è sembrata tanto diversa della solita messa in scena, come già in altre occasioni sono stati capaci di imbastire i 5 Stelle, ove è bastata l’avvertenza da parte del loro leader al nutrito gruppo che strombazzavano il loro No alla riforma del Mes per dimostrare tutta la artificiosa vacuità di questo gioco delle parti, prendendo in giro i loro elettori e tutto il paese, come oramai sono soliti fare con torsioni ed equilibrismi da circo barnum, per l’unico obiettivo di restare incollati alla poltrona parlamentare fino all’ultimo giorno della legislatura, mentre il Paese è allo spasimo per le loro politiche avventuriste, pauperiste e giustizialiste.

 Altrettanto incomprensibile e stravagante, nonostante il pianto purificatore di Brunetta, che per non tradire la sua linea, finora coerentemente filo europea, non ha partecipato al voto,assieme ad altri 15 deputati forzisti, è apparsa la posizione di Forza Italia che a causa di un netto aut aut da parte della Lega, è stata chiaramente indotta a fare marcia indietro, per non trovarsi fuori dalla coalizione.

 Spiazzando i tanti deputati e senatori forzisti che, in profondo malumore per il ribaltamento di una linea che fino a ieri li vedeva paladini del Mes e del filo europeismo, si sono dovuti allineare agli ordini di scuderia, facendo una inversione ad U sulla precedente posizione che li vedeva apertamente schierati con il Ppe, uno dei partiti che ha propiziato il miglioramento del Trattato.

 Tutto diverso lo scenario che dal dibattito parlamentare è venuto fuori secondo Salvini e Meloni per i quali sostenere la modifica del Mes vuol dire consegnarsi nelle mani di un’oligarchia egemone che, in un disegno di sostanziale espropriazione della nostra sovranità, vuole renderci sudditi, costringendoci a varare delle misure, in primis la patrimoniale, che aggraverebbero ulteriormente il peso fiscale su gran parte del ceto medio e di chi già sta alla canna del gas, per garantire i crediti delle loro banche.

 Ribadendo in sostanza il loro leit motiv, ossia di lasciar perdere sostegni così ingannevoli, essendo sufficiente il semplice ricorso al mercato finanziario, al momento favorevole.

 Insomma secondo il fronte dell’opposizione andare a sostenere questa riforma vuol dire assecondare gli interessi dei due paesi egemoni,Francia e Germania a detrimento dei nostri.

 Prova, ancora una volta, dell’insignificanza, come è da un po’ di anni, del nostro ruolo all’interno dell’Ue.

 Parole durissime che tratteggiano un esecutivo che oltre a scontare una evidente marginalizzazione nello scacchiere europeo,incapace di essere partner autorevole, ogni qual volta si affrontano questioni cruciali e nuove sfide comuni, continua a mostrare improntitudine e superficialità nell’assicurare le giuste risposte ai problemi economici e sociali acuiti dalla pandemia..

 Non ci vuol tanto a capire che ai margini di questa questione c’è, però, tutto il balletto che queste forze politiche stanno facendo attorno all’idea di Europa.

 Un’idea nel segno di un chiaro antieuropeismo che si fa sempre più preoccupante di cui si sta facendo promotrice la coalizione di centrodestra che non ha perso tempo ad esplicitare con il no alla modifica del trattato sul Mes.

 Un no motivato dalla convinzione di una revisione peggiorativa del Trattato che finisce per premiare e garantire, secondo una lettura un po’ populista, ancora una volta, l’asse franco-tedesco.

 Anche se, in qualche modo, non è del tutto inverosimile.

 Ci chiediamo però perché le forze di opposizione non abbandonano questa linea antistorica facendosi promotori di un idea di Europa dei popoli nella prospettiva di un’Unione politica che superi le resistenze dell’asse franco tedesco, unici ad oggi ad aver tratto maggior vantaggio da questo percorso incompiuto?

 Del resto se è il Parlamento l’espressione della centralità del nostro sistema istituzionale, quello è il luogo dove andavano portate precise proposte nella forma che in altri paesi acquistano ancor più grande rilievo, quando l’opposizione assume l’espressione di un governo ombra, con tanto di progetto alternativo di cura delle realtà del Paese, invece che andare in ordine sparso.

 Sarebbe stata l’occasione per lanciare chiaro il segnale ai vertici dell’Unione che l’Italia, tutta, ossia nel suo intero arco costituzionale e politico, non abbandona, anche se con sfumature diverse, l’idea di un’Europa più vicina alle persone ed alle comunità, riducendo gli spazi delle tecno burocrazie e più versata al recupero di un maggiore equilibrio tra le diverse economie, con politiche di disincentivo della globalizzazione selvaggia.

 Se poi,come affermato soprattutto dalla Meloni, i tecnocrati europei stanno davvero preparando ulteriori strettoie per i paesi con alto debito pubblico, come il nostro, con clausole che costringono i paesi a ridurre fortemente l’indebitamento, facendo ricorso a draconiane imposte sui patrimoni, un tale scenario avrebbe dovuto indurre Berlusconi a non schierarsi con gli antieuropeisti, ma ad investire la sua autorevolezza all’interno del Ppe e tra i partner  per contribuire a costruire un ruolo più aderente al raggiungimento di una unione politica.

 Persino nei momenti delle scelte, più difficili, quando fu ingiustamente disarcionato dalla presidenza per le bizzarrie dello spread ( si fa per dire, perché molti ambienti non escludono che ci fosse lo zampino di alcuni paesi), non mancò di sostenere il governo Monti, rivelatosi poi, nei fatti,una mera longa manus della Commissione, che, a sua volta, sotto dettatura dei rigoristi, gli assegnava i compiti a casa, a base di lacrime e sangue, come ben ricordano tutti gli italiani, umiliando la sovranità interna, che con Berlusconi ben altre strade aveva scelto per fronteggiare una congiuntura interna negativa.

 Mentre da Salvini,che non fa sconti con le sue quotidiane dichiarazioni stereotipate e dalle soluzioni suggestive ma che non sempre paiono cogliere le complessità dei problemi, predittive di una visione di paese non equa e divisiva, abbiamo avuto anche la prova di quanta sia insignificante la sua sensibilità verso il rispetto delle regole dello stato di diritto, prerequisito essenziale per mantenere lo status di partner dell’Ue, che la Commissione ha contestato ai suoi sodali, Viktor Orban e Mateusz Morawiecki, ricevendo per tutta reazione il loro veto al processo di revisione del Mes.

 Un atto di arroganza verso il quale Salvini

non pare abbia speso una parola per far sì che si risolvesse il braccio di ferro che i due paesi, Polonia ed Ungheria hanno ingaggiato in queste settimane con l’Europa, non volendone sapere di condizionare la loro partecipazione al rispetto di tanto essenziali regole nei loro paesi.

 Un atteggiamento che ci preoccupa perché la dice lunga sul concetto di democrazia che evidentemente il leader della Lega, condivide, oltre al l’antieuropeismo con il gruppo dei paesi del patto di Visegrad, da tempo osservati speciali per un accentramento di poteri in capo all’esecutivo ed una tendenza a porre in subalternità la magistratura,non molto in linea con i principi base della democrazia.

 Per fortuna a ridosso del vertice del 10 dicembre la presidente di turno del Consiglio europeo, Angela Merkel è riuscita a superare questo stallo con un accordo di massima con cui si è sganciato da ogni decisione riguardante la modifica del Mes la contestazione del mancato rispetto dello stato di diritto, da parte dei due paesi dell’ est Europa.

 Contestazione che d’ora in poi richiederebbe, come regola generale, una preliminare delibazione della Corte di Giustizia.

 Una mediazione opportuna, data la situazione di generale emergenza pandemica, ma che sa di espediente ipocrita perché lascia irrisolta la questione che, invece, richiederebbe un deciso e categorico richiamo al rispetto dei Trattati da parte di queste sue nazioni.

 Così con un gioco al ribasso si è dato via libera ai due paesi di partecipare al summit, potendo invece decidere, a ragione, senza la loro partecipazione, stante l’aperta violazione dei Trattati.

Un tal crogiolo di posizioni contraddittorie evidenziano tutta la incapacità dimostrata, in questi frangenti difficili, anche dal centrodestra, ridotto a sperare, nel passaggio parlamentare sulle comunicazioni del presidente del consiglio intorno alla linea da tenere nel summit europeo per la modifica del Mes, che la nutrita schiera di senatori e deputati dei 5 Stelle contrari anche alla riforma, mettessero in crisi il governo.

 Pia illusione!

 Perché di queste false attese i grillini ce ne hanno dato sempre ampio saggio.

 Tutte le volte in cui gli è parso di rischiare gli scranni parlamentari o le poltrone ministeriali, sono stati capaci di mettersi alle spalle promesse e impegni presi con gli elettori, facendo disinvoltamente ogni opportuna torsione di linea pur di continuare a galleggiare.

 E così, come al solito, anche stavolta  in Parlamento hanno trovato la quadra per continuare a tenere in piedi un esecutivo, costruito non per un progetto di Paese, che non esiste, tanto sono antitetiche le linee politiche della due principali forze di maggioranza, ma contro la maggioranza degli italiani che, se mandata al voto, ribalterebbero ampiamente il quadro politico.

 Una prospettiva che in questo frangente con all’orizzonte la elaborazione e soprattutto l’attuazione di un portentoso piano di investimenti di ben 209 miliardi di Euro, il cui piano, che ancora non ci è dato di conoscere neanche nella sua generalità, mentre gli altri paesi si sono da tempo affrettati a inviare, sta mettendo in fibrillazione la stessa maggioranza.

 Non a caso,nel dibattito parlamentare, Matteo Renzi non ha mancato di lanciare chiari segnali di insoddisfazione, minacciando persino il ritiro dalla coalizione, anche oggi ribadite in una sua intervista al giornale spagnolo El Pais, se il governo dovesse proseguire nel suo intento di accentrare la gestione del piano nelle mani di una cabina di regia composta dal premier, da Gualtieri(Pd) e Patuanelli(5S), con l’esclusione di Italia Viva.

 Evidentemente quei “pieni poteri”, già invocati da Salvini, nel precedente governo,che tanto facevano sorridere il premier, non finiscono di sedurre anche le migliori coscienze!

 Siamo ben certi, però, che anche queste piroette non sono altro che le solite scaramucce che servono agli alleati per regolare i rapporti interni.

 Se pensiamo quanto lo stesso Renzi sia stato campione di accentramenti nel suo esecutivo, non ci scandalizziamo per così roventi e imperiose parole pronunciate dagli scranni parlamentari all’indirizzo del premier.

 Giammai,poi, per far venire meno un governo che non avrebbe altre aspettative che le urne, come pare abbia ammonito chiaramente il Capo dello Stato.

 Insomma quel senatore non passerà alla storia come un nuovo Bruto o un nuovo Cassio, anche perché la sua vittima designata non ci ricorda minimamente Giulio Cesare, ne’ le sue gloriose imprese.

 Intanto in tutto questo bailamme la preoccupazione dei tanti osservatori politici e del mondo imprenditoriale ed economico è che anche il recovery plan, vera croce e delizia di questa emergenza economica, perché su di esso si giocherà il futuro ed il destino delle prossime generazioni, possa essere ipotecato dai soliti potentati clientelari per disperdere tanti quattrini in prebende ed opere senza un serio ed efficace piano infrastrutturale, di riconversione generale del sistema produttivo e dei servizi e senza un credibile progetto di sviluppo e di economia green che ci allinei alle nuove sfide ecosostenibili ed avvii un trend favorevole alla salvaguardia del territorio, alla crescita dell’occupazione, nella piena ripartenza del sistema produttivo.

 E mentre ci si dipana in mezzo a tutte queste incognite, resta ancora irrisolta la prospettiva, vagheggiata da vecchie e nuove forze politiche, di bilanciare l’asse parlamentare con l’aggregazione di un centro politico che ripiani l’anomala polarizzazione che impedisce, con la netta radicalizzazione con cui le forze politiche populiste e giustizialiste suggestionano buona parte dell’elettorato, l’equilibrata composizione dei multiformi interessi, in un quadro di valori ispirati al popolarismo di Sturzo ed alla sua evoluzione di cui ne fu interprete la DC.

 Un vuoto che rende chiara l’idea di un partito che non c’è o che fa fatica ad emergere, continuando a restare impantanato (“Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur”) tra identità storica e nuovo soggetto politico.

 In quale versione, saranno alla fine gli elettori a deciderlo!

 Certo è però che più si resta fedeli a quel patrimonio di valori, ideali e capacità politica che fu della Democrazia Cristiana che, con sperimentata capacità di mediazione, permise a statisti come De Gasperi e Moro di dialogare in modo equilibrato con le altre forze politiche e di arginare le forze comuniste, facendosi promotori di un’idea di Europa che attende ancora la sua piena attuazione, soprattutto come unione politica, più si recupera quell’astensionismo cattolico e moderato che in questi anni ha fatto fatica a trovare un punto di riferimento.

 E, oltretutto, si darebbe ulteriore impulso, al Ppe nel processo di revisione dei Trattati, nell’intento di una tessitura più solidale e meno versati su strettoie burocratiche e impietose condizionalità.

 Un vuoto che si espande sempre di più con lo spostamento di Berlusconi su posizioni che appaiono incoerenti con il suo passato politico: evidentemente sconta la forte perdita di consensi che a destra ha premiato una politica più strillata e populista con pericolosi e preoccupanti risvegli di toni nazionalisti.

 Insomma un centrodestra sbilanciato, senza più quel giusto peso che esercitava  Forza Italia, espressione di cultura liberale e riformista, che si è mossa, in questi venticinque anni, alternandosi con governi di centrosinistra,nel quadro di una politica moderata e filoeuropeista, anche se talvolta,forse per reazione ai tanti attacchi, soprattutto da parte di una sinistra giustizialista e dai populisti del pauperismo, non ha saputo frenare forzature normative personalistiche, alimentando forti divisioni nel paese.

 Questa, di certo, non una bella pagina della nostra storia politica!

 Così oggi facciamo fatica a credere, ai tanti elogi ammanniti da quella stessa sinistra e dai grillini, alla decisione del Cavaliere di sostenere lo scostamento di bilancio.

 Gesto che ha avuto tutta la valenza di come può declinarsi una leale collaborazione in un momento tanto difficile per il paese.

 Ma una dimostrazione anche del fatto che se si fosse costruito un quadro di confronto permanente, con alla base maggiore disponibilità all’ascolto da parte del premier, avrebbe potuto trovare miglior fortuna.

 Così non possiamo non plaudire alla proposta che subito dopo il confronto parlamentare sulla revisione del Mes, Salvini ha lanciato al premier per fissare insieme alcune linee essenziali strategici sul recovery plan.

 Ci auguriamo che il governo,che non ha fatto che ignorare finora i suggerimenti dell’opposizione, trovi il necessario coraggio nel riconoscere ampi spazi di confronto costruttivo sulle linee generali e le priorità dei settori di impiego entro i limiti delle griglie predefinite dal Consiglio europeo, non ignorando i settori produttivi in ginocchio.

 Tuttavia al momento non possiamo scongiurare le più fosche previsioni in questo scenario ancora del tutto imprevedibile che comincia a profilarsi all’orizzonte con i primi mesi dell’anno, quando cesserà la specifica copertura sui licenziamenti e la montagna di debiti accumulata dal nostro sistema produttivo comincerà a mettere in allarme le banche e tutti i sistemi di garanzia fideiussoria sui finanziamenti, mentre non sarà certo facile accelerare i tempi di erogazione del recovery fund,che già appaiono non brevi.

 Con tutto il prevedibile quadro di forte preoccupazione che sta attanagliando le tantissime imprese, se non ci sarà un cambio di strategia economica,

e ,da parte delle banche, una doverosa disponibilità ad una moratoria capace di consentire una gestione sotto vigilanza giudiziale, per chi ha portato i libri in tribunale, che possa dare la giusta spinta ad una graduale ripresa a ciascuno di questi organismi produttivi, altrimenti saranno costretti a chiudere definitivamente.

 Così anche con l’ultimo provvedimento governativo, Dpcm del 3.12.2020 che segue i precedenti “decreti ristori”, al di là delle parole e degli annunci, ritenuti sempre meno credibili nell’impegno di sostenere l’innumerevole numero di lavoratori autonomi, commercianti e professionisti( ossia tutte le partite Iva che si ritrovano senza i tradizionali ammortizzatori sociali) non vi si scorge alcun freno all’aggravamento del quadro generale del nostro paese, facendo prefigurare una catastrofe sociale dalle conseguenze, ad oggi, non prevedibili.

 Vien da chiedersi a tal proposito, anche guardando alle tutele del lavoro e dell’occupazione, che fine faranno quei tanti lavoratori che si contano ancora come attivi nel momento in cui saranno esposti a tutta una raffica di licenziamenti?

 E che fine faranno le tante aziende che con grande sacrificio e coraggio patriottico sono riusciti a resistere, malgrado le disfunzioni del sistema di erogazione di sostegni e sussidi, se si dovessero prolungare a più non posso,le nuove restrizione collettive, sia pure secondo le diverse tipologie cromatiche?

 Il tutto in un disinvolto procedere nella totale inadeguatezza di una linea politica che non ha ritenuto di approntate misure robuste e di efficace sostegno al sistema produttivo, come hanno fatto gli altri paesi europei e d’oltreoceano, per una reale ripartenza.

 Mentre a poco sono valse le retoriche autocelebrazioni del pur corposo impegno finanziario da parte della Ue, le cui previsioni di concreta erogazione,però, non sembrano dietro l’angolo, dovendo attendere almeno fino alla prossima esta

 Un dramma sociale ed economico che, comincia ad assomigliare alla famigerata crisi del 1929.

 E il mondo della scienza?

 Anch’esso comincia a perdere credibilità, con le tentazioni a schierarsi o dando l’impressione di fare da stampella ad un pressapochismo politico ( il caso della decisione di prolungare l’apertura delle discoteche in Sardegna è stato emblematico, anche se in mezzo può esserci stato anche il frutto ambiguo di un malinteso) generando incertezza e disorientamento per l’impatto di tesi contrapposte.

 Lo vediamo anche sull’affidabilità e sul senso di sicurezza che viene percepito dall’opinione pubblica, e non solo( anche qualche virologo ha avanzate caute perplessità fino a che non siano rese pubbliche i dati totali della sperimentazione)in riferimento all’imminente avvio della campagna di vaccinazione di massa.

 Ciò rende di tutta evidenza la palese necessità di avere un esecutivo ed una maggioranza che non vada avanti a colpi di veti e di cecità progettuali, avendo in mente dottrine fallaci e da economia pauperista, dove campeggia il Verbo della decrescita felice.

 Una classe politica poco lungimirante, che governa a vista, che ha inanellato imperdonabili deficienze nell’approntare in tempo tutte le misure necessarie per affrontare al meglio gli effetti della prevista seconda ondata dell’epidemia, deve responsabilmente cedere il passo ad un governo autorevole sostenuto da una maggioranza più ampia e non antitetica, come l’attuale.

 Una nuova maggioranza, che trovi nel gesto di responsabilità di qualcuna delle forze politiche dell’attuale coalizione, terreno di legittimazione in un serio patto di legislatura su un progetto, condiviso,  di ricostruzione del paese, con un premier che abbia una forte caratura internazionale.

 Una svolta che si rivela necessaria per garantire le future generazioni da un flop progettuale che,diversamente, rischia di  piegare definitivamente ogni speranza di rinascita delle tante energie e risorse geniali che caratterizzano il nostro paese nel mondo.

 Scongiurando l’ennesima disinvolta abdicazione alle funzioni che la Carta Costituzionale affida, in quanto artefice e responsabile dell’indirizzo politico, al governo, che continua nei propositi di trasferire ad organismi, privi di alcuna rappresentanza politica, la sostanziale elaborazione dei piani di impiego e degli adempimenti che l’Europa attende per predisporre l’erogazione dei 209 miliardi.

 Mentre non possiamo fare a meno di chiederci che fine han fatto ed a cosa sono serviti tutti quei tavoli, comitati e commissioni attivati fino ad oggi, a questo scopo?

 Che fine hanno fatto le risultanze degli Stati generali di villa Doria Pamphilj, tanto strombazzati, per ritrovarci a fronteggiare in questa seconda ondata le carenze e le inadeguatezze della prima ora, soprattutto nel campo della mobilità e delle attrezzature sanitarie, della scuola e dei ristori?

 Che senso ha formare task force e commissioni avulsi da ogni responsabilità politica per predisporre e poi monitorare il piano di previsione degli impieghi del recovery fund, quando questa è materia di esclusiva spettanza delle istituzioni: governo, enti territoriali e parti sociali che devono saper esprimere, sotto il controllo attento del parlamento, un valido e credibile progetto di Paese.

 Un quadro davvero desolante, ove in questo preoccupante indebolimento della fiducia nei partiti e nelle istituzioni, si cominciano ad innestare, nel sentimento generale, i germi di un pessimismo cosmico che comincia ad erodere la speranza e la forza di credere nelle capacità di ciascuno di ridestarsi da una così immane sciagura.

 In questo angoscioso panorama,

punto di riferimento forte resta il nostro Capo dello Stato, nel suo ruolo di garante della Costituzione e di rappresentante dell’unità nazionale, verso il quale rimane intatta la fiducia degli italiani.

 Ad Egli, in questi momenti difficili, tanti concittadini affidano preoccupazioni e speranze affinché le future generazioni non trovino un Paese sommerso da debiti, opere inutili o incompiute.

 11.12.2020

Luigi Rapisarda

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