SE “LO STATO NON C’È PIÙ” DOBBIAMO TROVARE IL CORAGGIO DI METTERE IN CAMPO TUTTE LE NOSTRE QUALITÀ

Nella parte più sana, produttiva e lungimirante del Paese si sta facendo largo una drammatica convinzione: lo Stato non c’è più. Non è la prima volta che mi capita di sentire affermazioni del genere, ma in passato quasi sempre il tono era di natura qualunquista, carico di rabbia e di rancore. Si imprecava contro lo Stato per come era o appariva – ottuso, oppressivo, impiccione, sanguisuga, burocratico – non perché mancasse. Anzi, semmai se ne denunciavano gli eccessi. Oggi no. Oggi, con dolore e un fortissimo senso di preoccupazione, se ne constata il venir meno. Si osservano, con inquietudine e sgomento, i vuoti crescenti che come voragini si aprono ad ogni livello. Nella politica, prima di tutto. Ma anche nelle amministrazioni e nelle burocrazie, centrali e periferiche, nei sistemi di difesa e di controllo, nella gestione della giustizia. E, con il Covid, nel sistema sanitario, che scricchiola e cede sotto il peso di scelte sbagliate e di scelte mancate, di menefreghismo e pressapochismo, di inaccettabile tasso di dilettantismo accompagnato da un altrettanto eccessivo livello di presunzione.

Già, è proprio la pandemia che sta scavando il fosso tra i vecchi e i nuovi sentimenti della pubblica opinione. Perchè, vedete, finora anche i più educati alle attenzioni civiche tendevano ad alzare le spalle di fronte alle tante mancanze di uno Stato vecchio e anchilosato e ad una gestione distorta della cosa pubblica. La politica non funziona? Vabbè, possiamo anche farne a meno. Le istituzioni sono logore? Pazienza, si campa lo stesso. Viviamo in un paese giustizialista? Finché non mi tocca direttamente, non mi riguarda. Il fisco è iniquo e oppressivo? Cerco la scappatoia. E così via. Per anni si è pensato di svicolare, di poter dribblare le questioni di carattere generale adottando risposte (o fughe in avanti) individuali. Poi è arrivato il maledetto, ma “democratico” virus, che non guarda in faccia a nessuno e che mette in moto reazioni e conseguenze da cui, chi più chi meno, neppure uno è esente. Senza contare che mai come in questa circostanza – specie nel corso della seconda ondata epidemica e nella preoccupazione che ce ne aspetti una terza – lo Stato ha plasticamente mostrato i suoi vuoti.

Basti pensare al fatto che da quasi un anno viviamo in regime di emergenza sanitaria – sulla cui legittimità costituzionale valgano le parole, dure come pietre, usate a più riprese da un giurista del livello di Sabino Cassese – governati (si fa per dire) da decreti del presidente del Consiglio che bypassano in buona misura lo stesso Governo e totalmente il Parlamento, togliendo perfino al Presidente della Repubblica la possibilità di dire la sua. Eppure, paradossalmente, ciò che si percepisce e di cui ci si lamenta non è lo strapotere, ma l’impotenza. Che si tocca con mano misurando la distanza siderale che separa le decisioni formali dalla loro pratica esecuzione. Ma anche assistendo allo spettacolo indecoroso del conflitto permanente tra il Governo e le Regioni, che richiederebbe non degli inconcludenti tavoli di mediazione ma una riforma strutturale che partendo dalla ricentralizzazione del sistema sanitario arrivi al ridisegno complessivo dei vali livelli del decentramento amministrativo.

E ora è l’attesa del vaccino ad amplificare la preoccupazione della disorganizzazione pubblica. I media, sempre più miopi, dedicano attenzione al fenomeno tutto sommato marginale dei cosiddetti “negazionisti” – tipico caso di iper minoranza vociante – trascurando invece la crescente sfiducia non nell’efficacia dell’antidoto, ma nelle capacità di gestire la complessa macchina della sua veloce e corretta somministrazione. Altrove, dagli Stati Uniti alla Germania, appare chiaro che si tratta di una operazione epocale – la più grande vaccinazione di massa della storia – che per dimensioni e complessità va trattata ne più ne meno come un’azione militare su vasta scala: prenotazione delle dosi, organizzazione logistica, uso di software sofisticati, individuazione dei luoghi di somministrazione con relativo addestramento del personale, approvvigionamento delle siringhe, tenuta dei registri, preparazione dei successivi richiami. Qualcuno l’ha paragonato allo sbarco in Normandia, ma forse è riduttivo. L’Italia se ne è preoccupata con colpevole ritardo, e l’operazione appare più affidata alla (solita) volontà e abnegazione dei singoli che all’efficienza organizzativa. Su questo terreno, però, nessuno alza le spalle, anche se non si sa da che parte cominciare a far rotolare le teste.

E poi, a proposito di teste tagliate, più della voglia di vendetta che pure c’è stata nel recente passato, oggi il sentimento diffuso è un altro. Sarà perché con il Covid c’è di mezzo la salute e la vita, e con quelle non si scherza, sarà che gli italiani hanno ben visto cosa significhi prendere sul serio degli imbonitori che vanno raccontando che la competenza è un disvalore e che “uno vale uno”, ma oggi più che voglia di regolare i conti e sete di giustizia, c’è fame di concretezza, desiderio che i vuoti si riempiano e la confusione si diradi.

Prendete l’economia. Ormai è chiaro che come già nella crisi del 2008-2009 e quella del 2011, l’Italia sarà finalino di coda in Europa, con una perdita di reddito più alta che altrove quest’anno (solo la Spagna farà leggermente peggio) e un rimbalzo più piccolo nei prossimi due anni. Ma non è questo ad ansiare imprenditori grandi e piccoli, professionisti e lavoratori autonomi, quanto le assurde limitazioni al loro operare che vengano dalle norme, dalle burocrazie e dalla magistratura. L’Italia del fare è bloccata, ingessata dentro una camicia che si fa sempre più stringente e che appare sempre meno tollerabile. Tanto più in una fase recessiva come questa che invece richiederebbe tutto il contrario. Vedere che sono stati buttati via miliardi per montare quella gigantesca truffa che si è rivelato (ma non era difficile capirlo anche prima) il reddito di cittadinanza e la ridicola macchina organizzativa (si fa per dire) costruitagli intorno, guardare impotenti al trascinarsi infinito di crisi industriali (da Alitalia a Ilva, passando per Whirpool) o assistere alla quotidiana triturazione mediatico-giudiziaria, preventiva rispetto alle sentenze passate in giudicato (che arrivano a babbo morto), di gente perbene quando i malavitosi controllano indisturbati interi territori, induce alla rinuncia e alla rassegnazione più che alla reazione rabbiosa. La ragione è semplice: prima c’erano poteri, formali e occulti, con cui prendersela, oggi è la frantumazione del potere, persino di quello celebrato e mitizzato dei gran commis, ad avere il sopravvento. È l’esercizio stesso del potere ad essere in crisi. Ed è molto peggio.

La preoccupazione sempre più diffusa è che siamo di fronte a qualcosa che somiglia alla caduta dell’impero romano d’occidente con Conte nei panni di Romolo Augusto, l’ultimo imperatore, e il Covid in quelli del barbaro Odoacre, per mano del quale l’impero crolla. Ma guai a farsi vincere da questo sentimento, pur giustificato. Come Roma antica è rinata più volte, anche l’Italia odierna ha tutte le possibilità di uscire dal baratro in cui è finita. Deve solo (si fa per dire) scrollarsi di dosso le suggestioni populiste, riscoprire il senso della complessità a danno delle semplificazioni fuorvianti, proiettarsi nella modernità senza riserve conservative ma anche al netto delle illusioni del progressismo politicamente corretto. Con coraggio, impegno, gusto del rischio, ambizione. Proviamoci.

Per ulteriori informazioni, consultate il sito www.terzarepubblica.it o scrivete all’indirizzo redazione@terzarepubblica.it

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