E L’ITALIA
IN CRISI CONCLAMATA MA VIRTUALE
ENTRA IN UN’INESPLORATA TERRA DI NESSUNO
È ormai chiaro che l’Italia, oltre che dal Covid-19, è stata infettata da un altro virus, che potremmo chiamare “Caos-2020”, risultante della somma tra l’emergenza sanitaria e quella economica, che sta attaccando le già fragili e consunte strutture del nostro sistema politico e istituzionale. Ed è per questo che stiamo entrando in una terra di nessuno, una zona grigia di cui conosciamo la porta d’ingresso, e i motivi per cui si è aperta, ma non quella d’uscita. E dove il modus operandi della maggioranza di governo, vivere alla giornata e tirare a campare, fin qui vincente, rischia di essere travolto.
A certificarlo c’è, da un lato, lo scollamento tra molte articolazioni della società – prevalentemente quelle dei “non garantiti”, cioè coloro, imprenditori o lavoratori che siano, le cui condizioni sono direttamente (e pesantemente) toccate dalle varie forme di lockdown – e la classe di governo, priva della credibilità necessaria a rendere sopportabili decisioni estreme, di cui le manifestazioni di protesta che si sono svolte e si svolgeranno in tutto il Paese, ne sono testimonianza. E, dall’altro, ci sono le crescenti e sempre più incontrollabili fibrillazioni politiche, per ora prive di sbocco ma proprio per questo fortemente pericolose. Fin qui ci siamo riparati all’ombra dell’Europa: degli interventi (decisivi) della Bce, dei fondi che sono arrivati e di quelli che arriveranno, del mal comune sia nella contabilità dei contagi sia nelle decisioni emergenziali per fronteggiare la pandemia. Ma anche questa protezione rischia di cadere, sia per i ritardi comunitari (Recovery), sia per i nostri (MES), ma anche e soprattutto perché tutti i governi brancolano nel buio, più (Italia e Francia) o meno (Germania) fitto, finendo con l’adottare provvedimenti di dubbia efficacia perché non sanno dove sbattere la testa.
Cosa sta succedendo e cosa succederà? Proviamo a mettere in fila le cose. Dopo aver affrontato la prima fase della pandemia con il sistema delle “tre P” – paura, per giustificare l’emergenza; paternalismo, per surrogare la mancanza di leadership con la minuzia delle regole; punizione, nei confronti delle categorie economiche vittime del lockdown e delle libertà individuali fondamentali, in nome del primato della salute su qualsivoglia altro valore – senza alcun riguardo per le pur evidenti differenze territoriali e dopo aver esagerato al contrario nel corso dell’estate, si è arrivati alla seconda (prevedibile e prevista) ondata del virus. Ma avendo fatto poco o nulla delle tante cose che andavano nel frattempo realizzate. Nella sanità, dove si poteva approntare un piano per trasformare i tanti piccoli ospedali secondari che tutti i capoluoghi di provincia hanno in “nosocomi Covid” in modo da decongestionare gli altri per la cura di tutte le malattie non Covid (da 8 mesi enormemente trascurate) e ci si doveva concentrare sull’assistenza a domicilio e sulle rianimazioni. Nei trasporti, dove c’era la possibilità di affidare alle società del trasporto pubblico locale le decine di migliaia di pullman turistici fermi per mancanza di attività. Nella scuola, dove anziché perdere tempo con la pantomima dei banchi si doveva organizzare una turnazione seria degli orari. E così via. Ma anche nel regolare il traffico decisionale tra amministrazioni centrali e locali doveva essere fatto qualcosa, dopo la confusione di primavera, e invece ancora una volta è andato in scena lo spettacolo penoso dello sconquasso istituzionale, con Regioni e Governo a contendersi la palma della maggiore irresponsabilità.
Tutto questo ha generato negli italiani, fin troppo indulgenti in primavera (anche perché spaventati a morte), la consapevolezza che non eravamo affatto la miglior case history europea o addirittura mondiale nell’affrontare la pandemia come autocelebrativamente il presidente del Consiglio andava cianciando, cercando di trasformarlo in luogo comune su cui poggiare la narrazione del suo governo. Anzi, anche senza aver letto un ponderoso studio di un centro di ricerca della Oxford University che compara le politiche di risposta al Covid dei paesi occidentali – cioè tutte quelle azioni che servono a cercare di convivere con il virus, limitarne i danni, aiutare chi ne subisce il contraccolpo – gli italiani sono arrivati alle medesime conclusioni: da quando la circolazione del virus è ripresa, siamo tra i peggiori al mondo. Con conseguente delusione e rabbia. Sentimenti che hanno preso il sopravvento quando, con la riesplosione dei contagi, il finto Churchill di palazzo Chigi ha proposto al paese un progressivo lockdown strisciante, senza neppure avere il coraggio di chiamarlo tale, con una sequela di Dpcm (e relative conferenze stampa social-televisive) a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro che davano il senso di un’assoluta approssimazione. Tutto questo non solo ha rotto il “patto silente” tra governo-istituzioni e cittadini – che con qualche eccesso di retorica si era tanto decantato durante il lockdown – su cui si era retta la prima fase dell’emergenza, ma ha anche rotto i sottilissimi fili su cui era appesa la maggioranza di governo. Lo testimoniano le sortite del numero due del Pd, Andrea Orlando, nella direzione del suo partito, e soprattutto quella del capogruppo al Senato, Andrea Marcucci, sconfessato dal segretario Zingaretti per la sua richiesta non solo di una verifica di maggioranza con conseguente rimpasto, ma anche della creazione di un comitato di salute pubblica dove condividere informazioni e decisioni con le opposizioni quale luogo di unità nazionale, richiesta a cui ha dato eco Matteo Renzi. Poco visibili al grande pubblico, ma non meno pesanti, i tremiti imposti a governo e maggioranza dai 5stelle, ormai nel pieno di un irreversibile processo di atomizzazione, come dimostra la spaccatura del vertice ma anche la diaspora infinita che in 31 mesi di legislatura gli ha fatto perdere ben il 15% dei seggi tra Camera e Senato (49 seggi su 338).
Così, la riunione che martedì scorso ha visto Conte confrontarsi con i capigruppo della maggioranza, se non è stata un processo al presidente del Consiglio, poco ci è mancato. La corsa è a smarcarsi, facilitata dal solipsismo dell’avvocato del popolo, che da mediatore qual era nell’emergenza si è trasformato in decisionista seriale, per di più senza coraggio, strategia e carisma. Dove portino questi tormenti è difficile dirlo – siamo nella terra di nessuno, dicevo all’inizio – perché anche chi si smarca non ha alcuna bussola. Né li supporta un’opposizione non meno in crisi della maggioranza. Sia per la dinamica messa in moto dal decrescere costante dei consensi e della visibilità di Salvini a fronte dell’opposta crescita di Giorgia Meloni, sia per la debolezza delle aperture di Berlusconi. Ma anche per la totale mancanza, da parte di tutti, di una chiave di lettura credibile degli avvenimenti e di proposte che non siano il “tutto e il contrario di tutto” che emerge dalla pura contrapposizione al governo.
Insomma, siamo di fronte a tensioni, fratture, equilibri precari. Ma in realtà non conviene a nessuno, opposizione compresa, far cadere il governo, la cui debolezza resta la sua forza, e andare alle elezioni (inimmaginabili con il nuovo lockdown incombente). Diverso è far cadere Conte, immaginare di cambiare in corsa il macchinista del treno lasciando che questo prosegua la sua corsa. Ma si può fare a perimetro di maggioranza invariato? Difficile. E con un allargamento? Ancora più complicato. Sarà forse per queste problematicità che taluni invocano l’intervento del Capo dello Stato. Ma Mattarella può convocare, come ha fatto, il Consiglio Supremo di Difesa, per ribadire alcuni postulati di politica internazionale – specie in un momento in cui una radicale riforma della Nato s’impone, a prescindere dall’esito delle elezioni americane – e di solidarietà, politica e sociale, nazionale. E lasciare che si legga in questo concetto un richiamo a Conte affinché coinvolga, effettivamente e non solo a chiacchiere, le parti sociali e tutte le forze politiche nella gestione di questa maledettissima congiuntura, specie dopo gli episodi di guerriglia urbana e la possibilità (più che concreta) che la malavita organizzata approfitti della protesta delle tante vittime del coprifuoco per soffiare ulteriormente sul fuoco. Oltre Mattarella non può andare, anche se non ha torto Claudio Martelli quando suggerisce che sia proprio il Consiglio Supremo di difesa lo strumento con cui il Quirinale può accompagnare e monitorare la gestione dell’emergenza.
Perchè una cosa è sicura: il drammatico deterioramento della situazione sanitaria, economica e sociale, l’intensificarsi delle agitazioni di piazza e la tensione dell’ordine pubblico, l’avvitarsi dei conflitti tra istituzioni, la progressiva implosione del sistema politico, richiedono e giustificano un esecutivo di salute pubblica per fronteggiare la più grave crisi della storia repubblicana. Un governo che sia in grado di agire con autorevolezza e piena legittimazione, dotato di visione e capacità di programmazione. Sapendo, come ci ricorda saggiamente Rino Formica, che un governo di unità nazionale per definizione è di transizione, traghetta il Paese verso una nuova fase costituente. Ma se questa soluzione politica nessuno, né dal fronte della maggioranza né da quello dell’opposizione, ha la testa e gli attributi per volerla e determinarla, e se il Capo dello Stato può auspicarla ma non certo imporla, allora l’unica possibilità è che nasca da un impeto, da un sussulto, della società. Altrimenti il destino, molto amaro, è già segnato: prima o poi ci lasceremo il Covid alle spalle, ma quel giorno ci risveglieremo in una condizione in cui i morti e i feriti prodotti dal virus non saranno il primo motivo per cui piangere.
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