E ora? Sfrondata dalle banalità e dalla propaganda, l’analisi sugli esiti del voto referendario e amministrativo ci restituisce riflessioni più di natura sociologica che politica. Sì, ci sono i mal di pancia dentro i 5stelle come conseguenza del disastro elettorale – ma c’erano anche prima – e non è da sottovalutare il riemergere nel Pd della divisione tra i cantori della (presunta) superiorità morale del maggioritario e i pragmatici fautori del proporzionale, in un dibattito che non tiene minimamente conto del fatto che la riduzione del numero dei parlamentari ha già un intrinseco effetto maggioritario. Così come c’è la conclamata crisi del progetto e delle ambizioni renziane, per restare nell’ambito delle forze di maggioranza. Mentre, sul fronte del centro-destra, meritano attenzione le dinamiche politiche che l’evidente esaurimento della spinta propulsiva di Salvini – a fronte della crescita esponenziale di Zaia e della acquisita e resa pubblica libertà di movimento di Giorgetti – e la progressiva scomparsa dalla scena di Berlusconi, insieme con la crescita dei consensi della Meloni non però accompagnata dalla capacità di formare una classe dirigente, possono mettere in moto. Ma nulla di così significativo, tanto che il governo Conte, pur nella sua pochezza e reiterata tendenza a procrastinare le decisioni, è destinato a procedere senza troppi scossoni, forse senza doversi neppure sottoporre ad un rimpasto.
Viceversa, sono tre i dati emersi dalle urne che vale la pena di esaminare. Due si riferiscono al referendum, di gran lunga più significativo delle regionali. Quello più rilevante sta nel fatto che 7 milioni e mezzo di italiani hanno deciso di rispondere NO alla facile sollecitazione del “diamo un taglio alle poltrone della casta, risparmiamo lo stipendio e i privilegi di 345 parlamentari”. E che per i due terzi, si sono recati appositamente alle urne (il rimanente terzo votava anche nelle 7 regioni e nelle città dove c’erano elezioni amministrative). Certo, io ho sperato che quel 30% potesse essere anche di più, quando si era cominciato a capire che nel Paese stava venendo meno la dimensione plebiscitaria del Sì. Ma a ben pensarci, si tratta di un risultato eccezionale, considerato che la riforma costituzionale era stata votata in Parlamento dal 97,5% degli eletti e che poteva godere della suggestione esercitata dal fatto che quel voto era chiaramente contro i loro stessi interessi corporativi di autoconservazione. Insomma, quei milioni di cittadini sono un vero e proprio esercito, elettoralmente parlando. Pensate che se alle ultime politiche, nel 2018, un partito avesse raccolto 7 milioni e mezzo di voti avrebbe avuto il 23% dei consensi, quando il Pd non era arrivato al 19%. Inoltre, la cosa interessante è il profilo degli elettori del NO, raccontato da Pagnoncelli sul Corriere della Sera: studenti, colletti bianchi e imprenditori, sotto i 35 anni, laureati, ubicati nelle grandi città capoluogo e in particolare nei centri storici, abituati ad informarsi su internet anziché attraverso la televisione e i giornali. Insomma, la parte più moderna, dinamica e produttiva del paese, quella su cui è possibile far leva per disegnare un futuro diverso dal declino dell’ultimo quarto di secolo.
E politicamente? A parte una certa tendenza progressista, è probabile che tra loro ci siano molti di quegli astensionisti non qualunquisti, che hanno faticato e faticano a riconoscersi nell’attuale offerta politica. Comunque si tratta di apolidi, non o poco rappresentati ma desiderosi di esserlo. Ci sarà qualcuno capace di rappresentare questo “popolo del No”? Ora che è accertato che il “partito che non c’è” ha una base potenziale di quelle dimensioni, ci sarà chi avrà il coraggio di provare a offrir loro un ancoraggio? Si potrà obiettare che non basta aver optato per la scelta non populista nel referendum sul taglio dei parlamentari per farne un fronte politicamente ed elettoralmente omogeneo. Ma è vero solo in parte, perché non è azzardato pensare che se domattina prendesse forma un partito capace di aggregare la cultura liberaldemocratica, quella popolare e quella riformista, non vittima del leaderismo e quindi autenticamente aperto, paladino del merito e del rispetto dei doveri, propositore di un programma di modernizzazione della società e dell’economia, quei 7,5 milioni e mezzo potrebbero davvero compattarsi (e magari recuperare anche altri italiani tra quel 48% che, errando, non è andato a votare). Questo, però, solo se si tratta di un’offerta politica autenticamente nuova, visto che il voto regionale ci ha detto che nessuna forza esistente, neppure tra quelle che in parlamento votarono contro il taglio (esigue, peraltro), gode della fiducia (sufficiente) del “popolo del NO”.
Specularmente, non meno significativo è il fatto che il 70% dei votanti, cioè 17,5 milioni di italiani, abbia deciso di rispondere affermativamente alla chiamata del “mandiamoli a casa”, pur sapendo che il risparmio sarà irrilevante e che alla riforma mancano corollari decisivi (nuova legge elettorale e ridefinizione dei collegi, modifica del bicameralismo cosiddetto perfetto, revisione dei regolamenti parlamentari) con cui poteva e doveva essere accompagnata, e che non essendo arrivati prima del referendum, quando una loro approvazione avrebbe reso più credibile e meno populista il taglio dei parlamentari, a maggior ragione non arriveranno ora. Come ha fatto notare Massimo Franco nella mia War Room, impressiona che così tanta gente continui ad essere alimentata da un forte spirito di rivalsa nei confronti del ceto politico, considerato una predatoria casta di privilegiati. Non perché i partiti non offrano continuamente il destro a queste pulsioni, ma perché con l’anti-politica non si va da nessuna parte, tanto più in un momento così drammatico come questo. D’altra parte, questi cittadini arrabbiati e delusi pensano che queste sforbiciate anti-casta siano le riforme da fare perchè nessuno gli spiega e dimostra che sono ben altre quelle che possono salvare loro e il Paese intero.
Ma la cosa più inquietante, però, è ancora un’altra: anche il “popolo del Sì” è scarsamente rappresentato, se è vero che chi lo aveva incarnato perde clamorosamente. Nello stesso momento in cui vinceva il Sì, infatti, il movimento 5stelle – che di quel taglio non solo si era fatto promotore ma lo aveva simbolicamente effigiato con quel sit-in davanti a Montecitorio in cui Di Maio si era armato di grandi forbici per tagliare trionfalmente un pezzo di parlamento, quello che Grillo continui a dire di voler fare a meno a favore di non si capisce quale sistema alternativo – crollava miseramente nel voto amministrativo, arrivando a cedere 8 milioni di voti rispetto al 2018 in un trend negativo iniziato già con le europee. Facendo un raffronto omogeneo con le regionali del 2015 – che consente di evitare che i grillini usino la giustificazione della loro maggior debolezza nelle elezioni locali – si vede come i pentastellati sia no passati dall’11,9% al 3,2% in Veneto, dal 15% al 6,4% in Toscana, dal 21,8% all’8,6% nelle Marche, dal 17,5% al 10% in Campania, dal 18,,4% all’11,1% in Puglia (in Liguria il confronto è falsato dal fatto che era l’unica regione dove si è fatta l’alleanza con il Pd, peraltro nettamente perdente). Insomma, una vera e propria disfatta.
Non solo. Anche la Lega di Salvini, specie se si considera peculiare il risultato veneto, ha perso consensi. Tant’è che i due partiti populisti, nelle regioni dove si è votato la settimana scorsa, in poco più di un anno hanno visto svanire 3,2 milioni di voti. E Pagnoncelli ci dice che la stragrande maggioranza degli italiani (83%) non ha alcuna fiducia in questa classe politica, interamente intesa. Escludendo che solo il 17% di noi non sia qualunquista, cioè significa che nella società circola un mix di rancore e sfiducia talmente diffuso che, da un lato, è difficile immaginare che possa generare qualcosa di positivo – ancorchè ampiamente giustificato – e dall’altro, che questi sentimenti di rivalsa, avendo in buona misura consumato anche la credibilità dei populisti di professione, rischiano di essere pericolosamente intercettati da chi propone ricette del tutto fuori dal perimetro della democrazia, con quel che ne consegue.
D’altra parte, e siamo alla terza valutazione di natura sociologica prima ancora che politica del doppio voto di domenica scorsa, questo fa scopa con le preoccupazioni espresse da chi ha visto nelle affermazioni dei governatori regionali, specie quelli più barricaderi e autoreferenziali come Emiliano e De Luca, ma anche iper autonomisti (almeno a parole) come Zaia, il riflesso delle paure (da Covid, ma non solo) e delle insicurezze degli italiani, che per tacitarle si appellano alla figura di un capo carismatico. Dando vita a quella che Ilvo Diamanti ha chiamato “democrazia virale”. Non è un fenomeno nuovo, in Italia, ma che fin qui aveva riguardato leader nazionali. Né si può fare un parallelismo con la stagione dei sindaci, ampiamente terminata sotto il peso di cocenti delusioni, perché ad essi si chiedevano risposte amministrative a problemi importanti ma spiccioli. Ora invece ci avviamo ad una sorta di presidenzialismo regionalista (rubo sempre a Diamanti la definizione), che se abbinato ad un’amputazione di Camera e Senato senza i necessari correttivi, non porterà, come si è scioccamente detto per invocare elezioni anticipate, ad una delegittimazione del Parlamento in carica, ma ad una stabilizzazione delle maggioranze spurie e variabili che (sole) esprime.
In conclusione, se si intende evitare che il sistema politico e istituzionale si avviti irreversibilmente, se si vuole provare a disintossicare gli italiani dai sentimenti che generano populismo, oltre che battere i leader e i partiti populisti, se si cerca l’antidoto al veleno della “dittatura della mediocrità” nella quale siamo immersi, allora occorre avviare una stagione di grandi riforme strutturali, sia di tipo istituzionale che economico, che richiedono nuovi e più qualificati protagonisti. Il fronte del NO è uno straordinario patrimonio su cui far leva, ma occorre dargli forma politica organizzata. Alzi la mano chi intende provarci.
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