Cosa ci aspettiamo dal racconto di un’esperienza?
Che sostituisca la necessità di spostarsi, oggi che è diventato più complesso, che ci incuriosisca fino a punto di andare a vedere di persona, che ci offra idee per un nuovo modo di guardare le cose e di vivere quello che facciamo?
Ogni volta che prepariamo una nuova edizione di TELESCOPE, la nostra newsletter settimanale dedicata ai progetti culturali di cui ci occupiamo, questi interrogativi sorgono spontanei.
La risposta, in realtà, è che siamo alla ricerca di un modo nuovo di raccontare le mostre, gli artisti, le opere, le iniziative, le istituzioni di cui siamo la voce, un modo vivo, più empatic, più diretto.
Il modo migliore che abbiamo trovato è quello di coinvolgere direttamente sia i produttori culturali, gli artisti, i curatori, i galleristi, i direttori di musei, sia chi, per mestiere e per passione, vede, ascolta, esperisce e poi commenta, critica, riflette, sulle pagine di una rivista o di un quotidiano, in radio, in tv, online.
In questa ventriquattresima edizione di TELESCOPE nella sezione RACCONTI troviamo Marco Bazzini, critico curatore, che ci descrive la grande mostra PISTOIA NOVECENTO. Sguardi sull’arte dal secondo dopoguerra, appena inaugurata alla Fondazione Pistoia Musei; Alessandro Martini, storica firma de Il Giornale dell’Arte, e Maurizio Francesconi, contributor per La Lettura, Corriere Torino, Living, Abitare, che insieme firmano un racconto su The Missing Planet, la mostra del Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci di Prato sulla straordinaria storia dell’arte contemporanea russa dagli anni Ottanta in poi, visibile ancora per pochi giorni; l’estratto di un’intervista realizzata da Phiyllis Hollis a Kennedy Yanko – dal 24 settembre in mostra alla Galleria Poggiali di Milano – che ci offre un piccolo ritratto dell’artista.
La parte dedicata ai VIDEO comprende un’intervista di Sabina Bologna ad Arnaldo Pomodoro, che pubblichiamo in occasione dell’installazione della sua scultura monumentale Cono Tronco a Santa Sofia (Forlì-Cesena) per il 61 Premio Campigna; e un estratto del video realizzato in occasione della prima italiana della performance Small White Man di FOS (Thomas Poulsen), prodotta da FuturDome, Milano.
Gli EXTRA raccolgono Postcard from Italy, la mostra della fotografa Carolina Sandretto prorogata fino al 30 settembre al Plaza Project Art Room di Viareggio; la mostra dedicata al grande maestro dell’arte contemporanea giapponese Shozo Shimamoto da Cardi Milano, prorogata fino al 19 dicembre 2020; e infine l’Omaggio a Lucio Del Pezzo, che dal 22 settembre al 30 ottobre 2020 porta allo Studio Marconi ‘65 una preziosa selezione di opere grafiche dell’artista da poco scomparso.
Vi ricordiamo che l’archivio di tutte le edizioni di TELESCOPE è disponibile su www.larafacco.com
Buona lettura!
Il team di Lara Facco P&C
#TeamLara
Lara Facco
Francesca Battello, Camilla Capponi, Barbara Garatti, Marta Pedroli,
Claudia Santrolli, Denise Solenghi
con la collaborazione di Annalisa Inzana
domenica 20 settembre 2020
RACCONTI
Una chiesa con la maglia della Juventus: Marco Bazzini su PISTOIA NOVECENTO. Sguardi sull’arte dal secondo dopoguerra alla Fondazione Pistoia Musei
Quando Giorgio Manganelli visitò Pistoia, rimase stupito nel vedere una chiesa con la maglia della Juventus. Erano i primi anni Sessanta quando lo scrittore, che non si è risparmiato nel mescolare linguaggi e generi, fece questa scoperta. L’ascensore che accompagna tra i diversi piani della cultura, alta e bassa, si era già messo in moto e permetteva di descrivere in tal modo uno dei grandi capolavori del romanico: la chiesa di San Giovanni Fuorcivitas.
In quegli stessi anni, a poco più di cento passi, un manipolo di giovani pittori sperimentava una figurazione aderente ai più tipici stilemi pop d’oltreoceano ma ricca di riferimenti popolari, dando origine a uno degli episodi artistici più originali di quel decennio spumeggiante. Roberto Barni, Umberto Buscioni, Gianni Ruffi e, per breve tempo, Adolfo Natalini dettero vita alla Scuola Pop di Pistoia, come la definì Cesare Vivaldi, uno dei più attenti osservatori di quella nuova scena italiana che nacque tra Roma e la provincia. Sarebbe ingiusto trattare questo gruppo alla stregua di una semplice e isolata curiosità cittadina, perché la silenziosa Pistoia, a volte tanto sorniona e remissiva quanto indocile e schietta, ha avuto nel tempo una scena molto attiva per quanto riguarda le arti visive. Tra le sue mura medievali, Fernando Melani ha condotto un’approfondita ricerca su un’astrazione di sapore naturalistico che ha saputo anticipare la sensibilità poverista – intenso il suo rapporto con Luciano Fabro – e che lo fece approdare nel 1972 a Documenta sotto la guida del funambolico Harald Szeemann. Dieci anni dopo, su una collina non lontana dal centro città, si apriva una delle prime e più importanti esperienze di arte e natura con la Collezione Gori – Fattoria di Celle. Un binomio che per questa parte della Toscana sembra essere un destino.
Astrattisti con radici in città furono Gualtiero Nativi e Mario Nigro, a cui Pistoia ha dato i natali e sui quali ha lasciato anche un imprinting. Come è successo a Marino Marini e a Giovanni Michelucci, anche se quest’ultimo ha fortunatamente fatto della città, soprattutto nella seconda parte del Novecento, una palestra per un nuovo linguaggio architettonico che affonda le sue radici nel neorealismo. E sperimentando questa cultura, lo stesso Michelucci divenne guida per molti altri artisti cittadini più o meno famosi, più o meno regionali o internazionali, ma tutti consapevoli di poter dare vita a un’arte che ha unito il popolare con le ricerche a loro più contemporanee. Una modalità che non deve essere scambiata per una riduzione ma piuttosto per la più viva possibilità di rimodellare le istanze dell’arte. Come solo in periferia può accadere.
I protagonisti e le storie degli ultimi cinquant’anni di arte a Pistoia – una città periferica ai grandi centri artistici che ha saputo però essere originale anche rispetto alla vicina Firenze, come detto anche da storici del calibro di Lara Vinca Masini o Carlo Sisi – è raccontata in una ricca mostra di opere e documenti, che è anche il secondo appuntamento di PISTOIA NOVECENTO. Sguardi sull’arte dal secondo dopoguerra, organizzata dalla Fondazione Pistoia Musei. In provincia si trovano sempre grandi sorprese, proprio come accadde quel giorno a Manganelli.
CREDITI: GIANNI RUFFI, Rimbalzo, 1967. Tecnica mista su carta, cm 50 x 50, Fondazione Caript, Pistoia / ARCHIZOOM SUPERSTUDIO, Superarchitettura, galleria Jolly 2, Pistoia, 1966. Foto: Cristiano Toraldo di Francia. Courtesy Archivio Toraldo di Francia, Filottrano / ARCHIZOOM ASSOCIATI, Superonda, divano, Poltronova. Foto: Dario Bartolini, showroom Poltronova, 1967. Courtesy Centro Studi Poltronova Archive, Firenze / ROBERTO BARNI, Isola felice, 1964. Smalto su tela, cm 70 x 80, Fondazione Caript, Pistoia / FERNANDO MELANI, Multiplo da opera non identificata. Serigrafia su cartoncino, cm 50 x 63 / MARIO NIGRO, Spazio totale, 1955. Olio su tela, cm 50 x 60 x 2, Fondazione Caript, Pistoia
Che cosa erano e che cosa eravamo? Alessandro Martini e Maurizio Francesconi su The Missing Planet, al Centro Pecci di Prato
Che cosa erano e che cosa eravamo? Che cosa sono (e siamo) diventati, come e perché? Questi, e molti altri, sono gli interrogativi che suscita la mostra The Missing Planet. Visioni e revisioni dei “tempi sovietici” dalle collezioni del Centro Pecci ed altre raccolte, dedicata alle principali ricerche artistiche sviluppate tra gli anni Settanta e oggi nelle ex repubbliche sovietiche. Racconta di territori lontani e “mitici”, dalla Russia alle province baltiche, caucasiche e centro-asiatiche: una galassia che, grazie a radici comuni (compreso il sistema didattico in cui si sono formati molti degli artisti in mostra) e importanti differenze (esplose trent’anni fa con il crollo dell’URSS, ma da sempre latenti), traccia un percorso fatto di rimandi interni, scarti e proposte originali. Ma The Missing Planet parla molto dell’Europa, di che cos’è stata e di che cos’è diventata. Il sottotitolo Visioni e revisioni suggerisce rapporti complessi con l’attualità e le precedenti esperienze artistiche. La curatela è affidata a Marco Scotini, primo curatore ospite chiamato ad affiancare Stefano Pezzato, responsabile delle Collezioni e Archivi del Centro Pecci.
The Missing Planet dà il via a un ciclo di mostre, ideato dalla direttrice Cristiana Perrella e concepito per approfondire temi, periodi e linguaggi della collezione del Centro Pecci: in questo primo appuntamento, Scotini e Pezzato hanno integrato decine di opere della collezione del Centro Pecci con altre provenienti da collezioni e istituzioni italiane e internazionali, per oltre ottanta opere complessive in mostra. Il risultato è una panoramica varia e suggestiva che suggerisce percorsi, propone analisi e sollecita una lettura complessa e non definitiva. Il taglio critico e articolato, è ben anticipato dalla prima delle otto sezioni della mostra, in cui il programma spaziale sovietico si intreccia con la museologia avanguardista e le immagini in movimento del cinema.
Non soltanto la mostra celebra il trentesimo anniversario della caduta del muro di Berlino e della successiva dissoluzione dell’Unione Sovietica, ma cade a trent’anni dalle mostre di Roma e Prato che per prime, tra 1989 e 1990, hanno indagato la scena artistica non ufficiale sovietica sull’onda della Perestrojka. Proprio il Pecci, nel 2007, ha poi proposto una delle più recenti e articolate ricognizioni delle disillusione nello “spazio post-sovietico” di fronte ai processi di transizione e integrazione in Occidente. Oggi è la volta di un confronto con un duplice passato, in cui le premesse dell’utopia socialista si confrontano con la memoria storica.
Tra i molti motivi di interesse della mostra c’è anche il suo allestimento: una vera mostra nella mostra, affidato all’artista Can Altay (Ankara, 1975), professore presso la Facoltà di Architettura alla Istanbul Bilgi University. The Missing Planet è stata arricchita nel corso dei mesi da un ricco programma di eventi, curato da Camilla Mozzato, compresa una serie di proiezioni cinematografiche a cura di Luca Barni. Significativamente, è il cinema ad aprire e chiudere la mostra con il film Solaris, capolavoro di Andrei Tarkovsky del 1971.
CREDITI: Erik Bulatov Perestroika, 1989 Progetto originale sulla facciata del Centro Pecci Foto © Carlo Gianni / The Missing Planet (08.11.2019–27.09.2020), installation view. Courtesy Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci. Foto © Ela Bialkowska, OKNO Studio
Dualità e ambiguità: Phiyllis Hollis intervista Kennedy Yanko, alla Galleria Poggiali di Milano
P.H.: Fra 200 anni cosa vorresti che le persone pensassero e provassero vedendo i tuoi lavori? O anche fra 2 anni.
K.Y.: Non hai davvero controllo su ciò che la gente pensa o prova. Chiedo spesso alle persone di mettersi in gioco davanti a un’opera, andando oltre la risposta immediata del cervello; pensiamo di aver già capito tutto quando in realtà abbiamo a mala pena grattato la superficie. Torniamo all’idea di sfidare i condizionamenti e la chiusura mentale: tutti abbiamo un’idea prefissata delle cose, il nostro cervello è allenato a funzionare così, e la verità è che non ne abbiamo idea, quindi penso che parlarne consapevolmente possa aprire la nostra mente. Ogni mio lavoro ha una sensibilità e una vita propria, ma questa è la mia visione personale, ed è l’aspetto sul quale mi piacerebbe sfidare il pubblico, senza sapere cosa penseranno e proveranno.
P.H.: Quando ho visto i tuoi lavori, in me è nata curiosità per i materiali, in particolare per la pelle: volevo toccarla, e il fatto che fosse in rapporto con questo materiale pesante, mi ricordava una combinazione di maschile e femminile. Il tuo lavoro mi ha davvero portata a ragionare.
K.Y.: Penso che l’intera esistenza si basi su questo dualismo. Mostrare qualcosa al tempo stesso fragile e affilato, per me è ricreare questo dualismo insito in ogni cosa, anche nella mia esistenza.
Io sono metà nera e metà bianca, ho sempre vissuto in uno stato di ambiguità e per me è sempre stato interessante vedere come gli altri si rapportavano a me. Noto che quando gli altri parlano di me fanno sempre riferimento a questioni legate al gender e a queste dualità, ma nel mio lavoro non parlo davvero di queste cose, non voglio parlare di temi particolari ma di umanità̀ e consapevolezza, senza distinzioni. Ho sempre tenuto un diario, per me scrivere è sempre stato catartico, quindi direi che tendo comunque a incorporare la mia storia nelle mie opere.
P. H.: C’è qualcosa per cui sei impaziente?
K.Y.: Non volevo parlare del Coronavirus però è davvero difficile evitare l’argomento. Sono molto curiosa di vedere come questa epidemia cambierà il modo di vedere le cose: penso che quando le persone si confrontano con qualcosa di tanto grande, capiscono quanto la vita possa essere fragile. Penso si creeranno rapporti più autentici e una voglia genuina di stare con le persone che ami. Inoltre, sono curiosa di vedere come cambierà la tecnologia, il modo di interagire. Credo che nei prossimi dieci anni vedremo cambiamenti incredibili. È sempre stato di mio interesse vedere come la società cambia in risposta a eventi di grande portata.
*Estratto della conversazione tra Kennedy Yanko e Phiyllis Hollis per Cerebral Women Art Talks Podcast del 1/06/2020
Crediti: Kennedy Yanko, Crow, June 2020. Paint skin, copper 67 x 51 x 25 in | 170 x 129,5 x 63,5 cm Foto Martin Parsekian. Courtesy l’artista / Kennedy Yanko, Disappear, 2020. Paint skin, copper 76x23x15in / 193×58,5×38 cm. Foto Martin Parsekian. Courtesy l’artista / Kennedy Yanko, Pact, June 2020 Metal, paint skin 66.5x32x10in / 169×81,5×25,5cm. Foto Martin Parsekian. Courtesy l’artista / Kennedy Yanko. Foto Michele Sereni. Courtesy Galleria Poggiali
VIDEO
Cono tronco di Arnaldo Pomodoro al 61° Premio Campigna a Santa Sofia (Forlì-Cesena)
Il prossimo 27 settembre nel Parco di Sculture all’aperto di Santa Sofia, in occasione della 61ª edizione del Premio Campigna, verrà presentata la scultura monumentale Cono Tronco – concessa in comodato d’uso per 5 anni dalla Fondazione Arnaldo Pomodoro – che l’artista romagnolo progettò nel 1972 per la città di Binghamton (New York), dove è installato il primo esemplare. La scultura è un cono in bronzo del diametro di oltre 3 metri, sezionato nel centro da una lama triangolare in acciaio inossidabile che punta verso l’alto. Nel video Grandi Opere di Sabina Bologna, l’artista racconta di come nelle sue sculture monumentali la parte leggera, levigata, “bella” dell’opera, si contrapponga alle spaccature, all’erosione di quella stessa materia, capace di renderci inquieti.