Sempre più spesso giovani e meno giovani, senza distinzione di genere come di ruolo, esordiscono con la parola triviale indicante il membro maschile che, ripetuta nel corso del discorso, diviene anche epilogo a sancire con forza quanto detto.
E i bambini vanno a ruota ripetendola dai primi anni senza averne ancora consapevolezza.
Scagli la condanna chi non ha mai detto una parolaccia, o non l’abbia tutt’al più pensata. Dalla prima presenza dell’essere cosiddetto umano esiste (non sarà pure nel suono rabbioso di ogni altro vivente?), scappò forse ad Adamo (se vogliamo ancora accogliere la narrazione biblica che dell’esistenza difficile incolpa la donna tentata dal serpente e poi tentatrice) quando si rese conto di come sarebbe stata la vita.
Un mugugno il suo, magari come quello dell’’uomo di Altamura’, il “neanderthalensis” fatto risalire a 128.000 – 187.000 anni fa, sprofondato in una grotta senza uscita, lì rimasto sino alla scoperta a fine secolo scorso.
E in età storica, in tutte le culture, da Occidente a Oriente, imprecazioni a non finire, non lontane dalle nostre: nel mondo greco, a esempio, come in quello romano, furoreggiavano membro maschile e vulva nei termini più triviali, sterco e affini, presente pure il ‘vaffa’ e nei romani quel ‘futue te ipsum’ (fottiti) con tante altre varianti, fra le quali la meno volgare era quella di Pitagora che nella “Magna Graecia” imprecava coi numeri, in particolare col quattro.
In letteratura non mancano le espressioni triviali: ce ne sono a iniziare da Omero e poi in Aristofane e in tanti altri autori, e tra i latini famoso è Marziale.
E noi immaginiamo i pretoriani sempre a rischio nelle battaglie e costretti anche a impiantare il “castrum” nelle soste; e poi, via via nelle ere che seguirono, i tanti ‘signorsì’ dei subalterni con dietro l’inespresso ‘vaffa’. Era di certo pensato ma di rado espresso dalle donne, da sempre costrette a subire angherie a non finire.
Non fu da meno il Medio Evo dalla vita non certo facile (una delle prime testimonianze della nostra lingua volgare è la parolaccia dell’affresco in S. Clemente a Roma), e fra gli autori, non diciamo Boccaccio ma lo stesso Dante non si trattiene, valga fra i tanti endecasillabi triviali sparsi nell’Inferno “ed elli avea del cul fatto trombetta” con cui si chiude il canto XXI.
La presenza di espressioni volgari si infittisce via via nei secoli con l’avvicinarci alla nostra era, dove la parolaccia impera in autori non solo italiani (Gadda, a esempio, e i tantissimi che seguono a scrittura inflazionata) ma di tutte le letterature, europee e americane, ridondanti di turpiloqui.
E ci fermiamo al mondo occidentale, tralasciando l’indagine sulle altre civiltà. Ormai l’espressione volgare, nel nostro tempo distante da certe forme educative e anche da perbenismi e ipocrisie del passato, domina in tutte le classi sociali e in ogni contesto a tal punto che quanti si mantengono fuori vengono visti quasi con sospetto e considerati superati, inadeguati.
Perché la parolaccia? Da studi e testimonianze di psicologi che operano in Università europee, americane e asiatiche vien fuori in primis che quanti abitualmente fanno uso di parolacce sono soggetti che parlano senza filtri, quindi sinceri, che le stesse hanno inoltre un effetto analgesico dando maggiore resistenza al dolore.
Se restringiamo l’osservazione all’Italia, certo è che dagli anni Novanta il linguaggio, anche di coloro che hanno un ruolo istituzionale, è andato farcendosi sempre più di parolacce, come hanno già confermato Tullio De Mauro e gli studi delle Università di Bologna e Torino.
Diciamo che la parolaccia dà quasi forza al soggetto disancorato -e la presente società è disancorata- sì da fargli portare avanti ogni parto della mente senza reticenze e talora senza alcun vaglio, da sparare pure ‘stronzate’ con una autoconvinzione tale da produrre anche negli altri convincimento, se privi della capacità di vagliare.
C’è poi chi è quasi costretto al turpiloquio per imporre sé stesso nelle sue qualità e capacità positive a una società che, diversamente, non riuscirebbe a coglierle. Aggiungiamo che la parolaccia, generalmente accolta da sempre, dovrebbe, però, essere detta al punto giusto in quanto la ridondanza finisce con lo sminuirne l’efficacia, col provocare, almeno in alcuni, anche fastidio.
“Melius abundare quam deficere”? Pensiamo che non valga per la parolaccia.
Antonietta Benagiano