Celano (CS): la perniciosa deriva della CGIL, e lo sdoganamento dell’interclassismo e del “lavoro astratto” attraverso il sex work

Basta ambiguità sulla pelle delle lavoratrici e dei lavoratori!

Il sesso non è lavoro!

Non si parli di “regolamentazione” in un settore in cui non è affatto chiaro chi sia “il datore di lavoro” e chi, invece, “la lavoratrice”!

Convergenza socialista desidera fare chiarezza sulle pericolose ambiguità riportate da un articolo pubblicato, questo 1 agosto 2020, su: http://www.cgil.it

L’articolo afferma quanto segue: “Collettiva.it: la storia di F., ballerina lap dance iscritta alla Cgil. Camusso: “dignità a ogni lavoro, pregiudizi non possono cancellarla”

“Io mi considero una lavoratrice come tutte le altre, ma secondo me dovremmo essere pagate di più per quello che facciamo”. F. fa la ballerina di lap dance nello storico locale trevigiano Mille Lire e, oltre un anno fa, si è iscritta al sindacato con le sue colleghe. Sfruttamento, condizioni di lavoro ambigue, improbabili inquadramenti contrattuali, cottimo, nero, contributi non versati. Questa la situazione svelata dalla Slc Cgil, ulteriormente peggiorata con l’emergenza Covid, che ha fatto deflagrare una crisi da tempo calata sul settore dello spettacolo e dell’intrattenimento e che ha portato F. ad avviare una vertenza perché per lei, come per molte lavoratrici e molti lavoratori, ha significato smettere di lavorare, e senza alcuna tutela. Lo racconta un’inchiesta di Collettiva.it, che parte dalla testimonianza di F. per parlare di una occupazione che, “troppi pensano non sia lavoro, bollano tutto questo mondo come deviato e colpevole”, come scrive la responsabile delle Politiche di genere della Cgil nazionale Susanna Camusso, e di un “luogo di uso dei corpi femminili, di un ‘divertimento’ che sfrutta”. Nicola Atalmi, segretario generale della Slc Cgil di Treviso, nell’intervista a Collettiva parla di “una vertenza magari un po’ insolita, ma che trattiamo come molte altre. Per noi le lavoratrici del Mille Lire hanno diritto a essere tutelate e rappresentate e meritano rispetto”.

“Quel mondo variegato che definiamo dello spettacolo, dell’intrattenimento – sostiene Camusso – viene spesso guardato e giudicato con la lente dei pregiudizi e degli stereotipi”. Pregiudizi come quello che “riguarda lavoratrici e lavoratori per i quali vige il sottinteso, reale o immaginario, che siano sex workers. La definizione, di per sé corretta, viene attribuita spesso a prescindere, e comunque con tono giudicante”. Per la dirigente sindacale in troppi “siccome lo condannano, in nome della loro morale, non riconoscono che sia lavoro e non si interrogano sulle caratteristiche e le condizioni” né “sul mercato che lo determina”. Uno “stigma che si accanisce in particolare sulle donne”.

Innanzi tutto, si dovrebbe chiarire definitivamente, chi rappresenta concretamente la famigerata categoria etichettata con il termine “sex workers”.

Chi sarebbero le famigerate sex workers?

Le prostitute che mettono a noleggio i propri particolari anatomici?

Le ballerine di lap-dance?

Le spogliarelliste?

Ma per le ballerine (di qualsiasi genere) non basta la categoria di “artista” o libera-professionista con partita iva?

Perché attribuire anche a loro l’etichetta di “sex worker”?

La categoria comprende anche proprietari e gestori di “night club privé”?

La categoria comprende anche proprietari e gestori di “sexy shop”?

O i proprietari e i gestori dei postriboli?

E gli “autisti”, i protettori e gli “affittacamere” delle presunte “sex workers”?

Una categoria che comprende mille ruoli e mille aspetti.

Si tratta di un inglesismo modaiolo che si riferisce a una categoria variegata, generica e astratta che “buttandola in caciara” su “chi lavora per chi”, su “chi amministra e gestisce chi” e sul genere e sulla qualità del servizio offerto, rischia di veicolare ridicoli provvedimenti demagogici che metterebbero ulteriormente in crisi il mondo del lavoro, un mondo già devastato da decenni di pratiche liberiste.

Inoltre: siamo sicure/i che “sex work is work”, cioè che il sesso sia lavoro?

La distinzione di Marx tra lavoro concreto e astratto nel primo capitolo del Capitale è organicamente collegata alla distinzione tra valore d’uso e valore in sé di una prestazione.

Il prerequisito per il conferimento del valore è che la merce abbia un valore d’uso.  Anche per questo motivo, il lavoratore è il creatore del valore d’uso. È una condizione dell’esistenza umana che gli esseri umani producano beni mobile ed immobili. Possono cambiare le forme sociali (cioè le relazioni sociali) in base alle quali li producano, ma non il fatto che i valori d’uso debbano sempre essere prodotti.

Con il termine marxista “lavoro concreto e utile” si indicano i lavori che producono i beni che compongono la ricchezza materiale e intellettuale di una società (grano, acciaio, computer, aerei, automobili, cibo, medicine, cure mediche, scoperte scientifiche, ecc.). Precisiamo che, per “lavoro concreto” Marx (ma anche Hegel), comprendeva il lavoro come produttore del valore d’uso, perché per produrre quei valori d’uso specifici è necessario raccogliere gli strumenti specifici, le materie prime e le capacità. In altre parole, il lavoro concreto non è separabile dagli strumenti utilizzati (gli strumenti del lavoro) e dall’esperienza/cultura accumulate nel settore specifico. Il lavoro concreto implica la capacità di utilizzare specifici strumenti, implica un processo di formazione professionale ed abilità specifiche accumulate nell’ arco del tempo. Dove sarebbe tutto questo nel presunto “sex work”; quando si intende, per “sex work”, la “messa a noleggio” dei propri particolari anatomici? Quali sarebbero gli strumenti, la formazione professionale specifica e la ricchezza tangibile prodotta per la società?  A loro volta, i diversi lavori determinano una divisione sociale del lavoro, che è la condizione per l’esistenza della produzione di merci (sebbene, al contrario, possa esserci una divisione sociale del lavoro senza produzione di merci).

Un sindacato dei lavoratori, dovrebbe tenere in considerazione che, in questo presunto “sex work”, il proprietario del “night club privé” o del “sexy shop” non è assolutamente assimilabile (contrattualmente, economicamente e socialmente) all’immigrata clandestina costretta (per povertà o necessità) a vendere i propri particolari anatomici, in un bordello o su un marciapiede. Inoltre non è ben chiaro se la CGIL, in questo caso, sarebbe d’accordo con la divisione sociale del lavoro.

D’altra parte, il lavoro astratto è organicamente collegato al valore. Il motivo è semplice, e si comprende non appena viene analizzato lo scambio tra merci riproducibili attraverso il lavoro: se dico, per esempio, che x quantità di grano = tot quantità di stoffa, l’equazione indica che c’è qualcosa di comune tra il grano e il tessuto, che rende possibile il confronto. Questa proprietà comune, dice Marx, non può essere una proprietà fisica delle merci; la proprietà fisica è correlata ai valori d’uso e questi sono qualitativamente diversi e quindi incomparabilmente quantitativi. Come è applicabile questa legge del mercato nel mondo del “sex work”: creando ulteriore interclassismo? Creando l’erotizzazione-esotica delle “merci” (in questo caso corpi umani) straniere? O creando ulteriore erotizzazione dei corpi “transessuali” o “omosessuali”? É questa la cultura del lavoro che vorremmo costruire? Se il valore d’uso viene quindi accantonato, la proprietà rimanente è che i beni sono i prodotti del lavoro. Quale sarebbe il bene-tangibile prodotto da una “sex worker”?

Tuttavia, i lavori utili e concreti sono tutti diversi.  Questi sono i vari modi per estendere la forza lavoro umana. Il valore rappresenta quindi la spesa umana pura e semplice, la spesa del lavoro umano in generale.

Il dispendio energetico umano è il contenuto qualitativo che determina il valore; allo stesso modo, ciò che serve come base per determinare la quantità di valore è la durata di quel dispendio di energia, del lavoro umano generale. Pertanto, quando consideriamo i valori delle merci che astraiamo dai loro valori d’uso, quando consideriamo le opere rappresentate in quei valori, separandoli dalle forme utili di tali opere, affermiamo il fenomeno del “feticismo delle merci”. Proiettandoci così in una società mercantile sempre più priva di lavoro concreto e, quindi, priva di ricchezza materiale al servizio dei lavoratori e del progresso umano. È questo il tipo di società che sta promuovendo la CGIL: una società sempre più mercantile ed alienata da sé stessa; soprattutto, dal lavoro concreto produttivo.

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