Potrebbe la meritocrazia (dal latino merēre = guadagnare e dal greco kratos = potere) essere proposta come alternativa al sistema clientelare vieppiù nel presente tempo diffuso, oppure a quell’ egualitarismo che va verso aspetti negativi. Ovunque e in qualsivoglia era, almeno nella civiltà occidentale, si è ritenuto che i dotati di grandi capacità, messe a frutto con impegno finalizzato a competenze di eccellenza, debbano essere valorizzati con posizioni al vertice non escludenti benessere economico, come dimostrano i lauti compensi dati (preferiamo riferirci al passato) anche a grandi artisti come Leonardo, oppure a poeti, a Virgilio, ad esempio, per menzionare uno tanto remunerato da Augusto. E ci fermiamo a queste categorie.
Di certo non va trascurato l’impegno profuso da tutti gli altri nel realizzare al meglio l’attività che si svolge, anche se valorizzare gli ottimi sembra rientrare sia in un principio di giustizia, spesso trascurato, sia di utilità per una qualsivoglia organizzazione statale nei suoi svariati apparati relativi ai settori di funzionalità pratica e anche a tutti quelli che possano dare di uno Stato immagine positiva.
Il problema non è quindi quella valorizzazione ma porre al vertice e remunerare chi non è dotato di capacità, né si impegna con rettitudine nel compimento della sua attività, per cui si finisce con l’investire denaro pubblico in soggetti al vertice che non fanno quanto tornerebbe utile alla collettività.
Ma sul concetto di meritocrazia, così come si è evoluto nella contemporaneità, ci sarebbe da fare un lungo discorso. In “L’avvento della meritocrazia” (pubblicato per la prima volta in Inghilterra nel 1958 con il titolo “The rise of Meritocracy”) Michael Young, sociologo e politico britannico, immagina un futuro distopico, con compimento nel 2033, quale effetto di una meritocrazia non autentica, accolta ovviamente dalle élite che ne avrebbero fatto parte e anche dagli esclusi con comportamenti acquiescenti. Per il sociologo Young sarebbe stato proprio l’ideale meritocratico a giustificare le diseguaglianze che avrebbero continuato ad affliggere le società con l’eterna divisione fra ricchi convinti di meritare il loro status e poveri rassegnati a una povertà ritenuta ‘naturale’.
E viene la tesi di Young confermata dal filosofo anglo-ghanese Kwame Anthony Appiah in “The honor code – How moral revolutions happen” (2010), pubblicato l’anno successivo in Italia con il titolo “Il codice d’onore – come cambia la morale”, per il quale è proprio l’ideale meritocratico (quoziente intellettivo + impegno = merito) a giustificare le diseguaglianze. I ‘meritevoli’, in virtù della superiore capacità di comprendere e agire, possono tiranneggiare tutti gli altri dal quoziente intellettivo ritenuto inferiore a 125 in base a determinati test.
E’ quanto sostengono anche altri, tra cui Daniel Marckovits nel Saggio “The Meritocratic Trap”, edito nel 2019, dove è presente inoltre la riflessione sul danno che la stessa élite avrebbe a causa di una gara senza fine per la quale verrebbero annullate le potenzialità umane non funzionali ad essa, senza dire che a contare sarebbero pure le connessioni sociali.
Riflettiamo che dopo la rivoluzione francese si passò dall’aristocrazia al dominio della borghesia, ancora prosegue quel dominio ma solo per la parte di essa in possesso del ‘codice d’onore’, secondo il quale si ammette in chi è al vertice anche lo sfruttamento.
E’una meritocrazia che ha escluso l’etica, la sola che possa avviare al progresso autentico per un mondo migliore, pertanto quel “codice d’onore” non dovrebbe essere accolto, converrebbe puntare l’attenzione sul merito strettamente legato alla connotazione etica che è responsabilità delle azioni.
E il filosofo Bertrand Russell: “Il lavoro è un dovere e un uomo non deve ricevere un salario in proporzione di ciò che produce, ma in proporzione della sua virtù che si esplica nello zelo”.
Antonietta Benagiano