di Mario Narducci
Del contadino gli era rimasta la sapienza dell’attesa legata al ciclo delle stagioni, il passo lento e pesante che doveva coprire l’arco di un giorno incominciato alle prime luci dell’alba per finire al tramonto del sole, lo sguardo acuto che gli permetteva di riconoscere le persone come un tempo i germogli delle colture e gli alberi, anche s’erano spogli; le lunghe pause tra le parole che nel disincanto tradivano una forte volontà. Ma aveva anche la consapevolezza del tempo lungo che gli veniva dall’essere stato pastorello sulle scarne erbe delle sue montagne, quando recava al pascolo l’esiguo gregge di famiglia, fonte non di ricchezza ma di sopravvivenza stretta stretta.
Che la povertà l’avesse addosso non era un mistero per nessuno in quel pugno di case presso Montereale, dove le poche famiglie altro non avevano da condividere che quella, servita però sul piatto d’oro della tenerezza del cuore. Ultimo di sette figli se ne portava attaccata addosso la cronologia nel nome di Settimio. Come s’usava nelle numerose famiglie di un tempo, per tenere il conto di una prole che cresceva a vista d’occhio, quasi a porre ogni tanto pietre miliari a consuntivo sulla strada della vita.
Settimio era un ragazzo come gli altri, anche se stava una spanna sopra gli altri e non solo in altezza. Leggeva come un ossesso nelle lunghe giornate di pascolo. Mandava a memoria interi canti dell’Iliade e dell’Odissea, ripeteva Dante con precisione e intelletto, declamava il Tasso rivivendo le gesta della Gerusalemme liberata. A questi semi di cultura abbinava anche una certa pietà che il parroco non alimentò più di tanto temendo una vocazione al sacerdozio difficile da cullare.
Ma Settimio la vocazione incominciò a sentirla davvero e il parroco di quel pugno di case con una chiesa dalla scarsa congrua non potette fare altro, con il beneplacito dei genitori, che accompagnarlo dal Vescovo. “Eccellenza, disse umilmente il prete indicando il ragazzo, questo giovine ambirebbe a entrare in seminario per diventare sacerdote”. Settimio, che per l’occasione aveva rispolverato gli abiti della Cresima che nascondevano la sua povertà, incominciò timidamente a rispondere alle domande del Prelato che ne saggiava la consistenza vocazionale.
E quando già il Vescovo era pronto ad accoglierlo, ecco la domanda assassina. “Tu sai che c’è da pagare una retta al Seminario, puoi farvi fronte?” Settimio ammutolì e in sua vece rispose il parroco che come il ragazzo non aveva occhi per piangere altrimenti vi avrebbe provveduto lui: “la sua famiglia è molto numerosa e povera assai, tremolò tra le labbra sperando che il Vescovo dichiarasse superato l’ostacolo. “Se non può pagare la retta, sentenziò il Vescovo, vuol dire che non ha la vocazione” e accennando a un sorriso inflessibile, indicò la porta che i due si chiusero dietro, insieme ad ogni speranza.
A Boston, dov’era giunto diciottenne con altri emigranti del suo paese, Settimio si perse in mille lavori per rendersi utile e guadagnarsi il pane. Lavapiatti, cameriere, manovale nell’edilizia, operaio d’occasione, scaricatore di porto. Fece proprio l’inglese in un tempo brevissimo e questo l’aiutò non poco nella ricerca di un lavoro più elevato. Un giorno rispose all’inserzione di una concessionaria di macchine Singer per cucire e manco a dirlo fu preso come venditore con un piccolo fisso e una discreta percentuale sulle vendite.
Era un bel giovane, alto e di una simpatia rara. Da venditore porta a porta, tutte le porte gli si spalancavano con grande facilità. Le donne illanguidivano davanti a lui che decantava i pregi della Singer come recitasse poesie d’amore. Ma a lui interessava vendere e altro scopo non aveva che quello, tanto da respingere con forza, le poche volte che accadde, quelle che lo invitavano apertamente a godere delle loro grazie. Il fatturato crebbe a tal punto che ben presto diventò il titolare della concessionaria, con grande soddisfazione dei produttori cui era lui a dettare le condizioni di un rapporto sempre più fiorente.
Aveva trent’anni e conti in banca cresciuti come lievito. Eppure gli era rimasto un vuoto dentro, un’assenza che gli derivava da una coscienza sopita e mai addormita del tutto. A volte si chiedeva anche perché non si fosse mai impegnato seriamente in una relazione che lo avrebbe potuto condurre al matrimonio. Le risposte che si dava erano molteplici, ma nessuna gli lasciava l’amaro in bocca per il tempo perso. Era ricco, ma non erano le ricchezze a soddisfarlo. Non assomigliava affatto all’avaro del Vangelo che contava avidamente denari e moltiplicava i granai per godersi un futuro che non ebbe.
“Settimio, si disse una domenica tra i banchi della Cattedrale di Santa Croce, a Boston, quando eri povero, ti dissero che non avevi la vocazione, cosa devi pensare adesso che sei ricco a dismisura?” Uscì di chiesa ma il pensiero gli tenne dietro come un rovello fino a scavargli l’anima, inasprendo il vuoto e l’assenza che prima aveva avvertito in superficie. Furono giorni di lotta interiore senza pari, che si tramutarono in una sorta di liberazione quando si presentò dal Vescovo per implorarlo di accoglierlo in seminario.
Aveva finito i trent’anni quando sedette tra i banchi di prima media insieme ai ragazzini che prendevano dimestichezza con il “Rosa rosae”. A quaranta, con un permesso speciale, era già sacerdote e parroco. E qui riesplose l’anima sua seconda dell’imprenditore. Nella sua zona di periferia portò dapprima l’asilo, quindi le elementari e le medie, e nel giro di pochi anni le scuole superiori e l’Università. A proprie spese fin dove arrivava. E con la Provvidenza dove non giungeva.
Tutto cresciuto intorno alla parrocchia, e lui vegliava su ogni cosa, con il cuore buono ed il rosario in mano. Ogni due anni, vestito di clergyman e non c’era stato ancora il Concilio, veniva per un mese in Italia, carico di voglia di paese e di Avana che fumava, un sigaro intero dopo i pasti, unico suo vizio che nemmeno considerava tale, nel ricordo di quel Papa che tirava tabacco da naso e che offrendone una presa ad un cardinale si sentì, rispondere, poco accortamente: “Santità, non ho questo vizio”. Al che il Papa, che non era Papa a caso, rispose lapidario: “Se fosse un vizio, avresti anche questo”.
Ricordo don Settimio, in una festa che fu apoteosi per lui, in uno dei tanti ritorni per la consacrazione di una Chiesetta, voluta a sue spese, là dov’era nato. Un giorno volle che lo intervistassi per una biografia a futura memoria, che, per pigrizia, mai scrissi al di fuori del titolo: “Il Prete Crudele”. Crudele era il suo cognome, in realtà era di una tenerezza incredibile quanto la sua generosità che, alla morte, gli fece lasciare tutta l’Opera alla Diocesi. Riparo adesso all’omissione che forse un po’ lo deluse, dando quel titolo a questo racconto che in qualche modo ne tramanda la memoria.