Convergenza Socialista,
intende esprimersi in merito all’articolo “L’emergenza umanitaria del lavoro sessuale”, pubblicato su il Manifesto, nell’edizione del 12/05/2020, sotto lo pseudonimo Shendi Veli, e approvato da Non Una di Meno Milano, in cui appaiono affermazioni in netta e totale contraddizione con la dicitura di “giornale Comunista” (così come intende ancora presentarsi il Manifesto). In questo caso, il Manifesto si fa megafono di una visione neoliberista disumanizzante, in quanto si palesa come “amplificatore” e sostenitore di una visione antropologica estremamente inquietante: la donna (ma anche la persona transessuale, l’uomo o l’adolescente) come “corpo di servizio’’ a disposizione di chi detiene più potere monetario o contrattuale.
L’osceno (nel senso etimologico del termine) articolo è stato già oggetto di aspri scontri incentrati sui regimi politico-legali (abolizionismo contro regolamentazione / legalizzazione).
Diverse femministe abolizioniste hanno espresso il loro disappunto, dal Collettivo Resistenza Femminista ad alcune assidue frequentatrici della Libreria delle Donne di Milano. Convergenza Socialista, in quanto organizzazione politica, partito, si unisce a questo coro di sdegno e disappunto.
Questo comunicato intende fare chiarezza sulla nostra posizione, come marxisti-leninisti, socialisti, e quindi non revisionisti e non opportunisti, su un argomento in cui è in gioco lo status del corpo delle donne (e di altri soggetti marginali).
È davvero inquietante che, megafoni della presunta “sinistra” e di un presunto “femminismo”, che Convergenza Socialista etichetta come nemici di classe, si stiano battendo per sussumere finanche la sessualità umana nello sfondo del grande mercato globalista transnazionale.
Rivendicare come “lavoro” la prostituzione, come soluzione a un’ingiustizia, come soluzione alla disoccupazione, come soluzione alla disperazione, come soluzione alla discriminazione ed all’emarginazione causate da immigrazione, irregolarità, povertà e “diversità” significa non voler uscire dall’alveo dell’ingiustizia, se mai significa normalizzare e, addirittura, “santificare” l’ingiustizia subita. Coloro che affermano, siano essi individui oppure organizzazioni politiche, associazioni, che la prostituzione è un lavoro come un altro sono quinte colonne del capitale, piccolo-borghesi, che si prodigano affinché non si attivi mai un percorso di emancipazione da qualsiasi tipo di sfruttamento.
Voler normalizzare giuridicamente la vendita dell’accesso al proprio corpo a chi ha i mezzi materiali per acquistarlo, traendo piacere dal potere esercitato, dall’umiliazione e dal controllo su di esso, è una affermazione molto grave.
La prostituzione è oggi oggetto di aspri scontri tra diversi settori e anche all’interno di movimenti femministi. I dibattiti non sono affatto nuovi. Le controversie persistono sui regimi legali, che rimangono simili a quelli di quasi 150 anni fa, come se i cambiamenti sociali e culturali non avessero alterato i rapporti di prostituzione o le modalità di pensiero della prostituzione. Attualmente è in corso un dibattito sull’opportunità di istituire un sistema che legalizzi la prostituzione – cioè che la legittimi come “lavoro” – o conservare l’abolizionismo che prevale in molti paesi del mondo. Queste sono tutte discussioni sulla natura legale e illegale della prostituzione, supportate da argomentazioni – sociologiche, politiche, filosofiche ed etiche – che verranno qui affrontate solo parzialmente per ragioni di spazio.
Nozioni di base
Sia nella letteratura che nel linguaggio quotidiano, troviamo spesso ambiguità nel definire la prostituzione: linguaggi fortemente connotati – razzisti, sessisti, classisti – o sguardi focalizzati solo su alcuni attori o aspetti del mondo della prostituzione. Inoltre, il modo di nominarne le pratiche e gli attori, riproduce ideologie e posizioni politiche.
Da parte nostra, non possiamo evitare di usare le parole che si adattano al nostro pensiero ed alla nostra ideologia, anche se rispettiamo le modalità di denominazione degli autori e degli attori principali (prostitute e industria del sesso) quando le citiamo.
Un altro punto di partenza è che, in molti testi politici e accademici, si parla di prostituzione al femminile, anche se, in diversi passaggi, si fa chiaramente riferimento alla prostituzione maschile.
Senza ignorare che vi siano uomini, travestiti e transessuali nei circuiti di prostituzione, siamo nettamente favorevoli all’uso del femminile quando si parla di mercato prostituente.
Questo per diversi motivi:
a) la prostituzione è storicamente (e ancora oggi) un’istituzione patriarcale e maschilista, sostenuta dal desiderio e dal potere sessuale degli uomini (intesi come maschi).
Infatti, anche quando i protagonisti della prostituzione sono di sesso maschile, generalmente si tratta di uomini che comprano l’accesso sessuale di altri uomini, ritenuti più deboli e vulnerabili. Pertanto non è assolutamente rilevante il sesso biologico di chi esercita la prostituzione, giacché sia nella pratica che nella dimensione simbolica, resta un fenomeno antropologico e sociologico prettamente patriarcale e maschilista. L’esistenza di “gigolò” non rende il fenomeno prostituente né femminista e né emancipazionista. Pertanto sono in malafede gli uomini e le donne che riproducono simili esempi.
b) La prostituzione si basa sull’asimmetria tra uomini e donne e, anche nei circuiti omosessuali o transessuali, coloro che pagano per il sesso sono prevalentemente uomini (intesi come maschi).
I circuiti delle donne sono in netta maggioranza e preponderanti. In generale, sono molto diversi dai circuiti omosessuali o transessuali.
Esistono i “gigolò” a cui ricorrono alcune donne ma costituiscono un tipo di prostituzione assolutamente minoritario, oltre che “dispendioso” e lussuoso. Soltanto le donne molto agiate (un’esigua minoranza, giacché mediamente le donne tendono ad essere più povere dei maschi e ad avere anche scarsa autonomia economica) ne hanno accesso.
Esistono due visioni polarizzate sulla prostituzione:
· una di queste la descrive come una relazione tra due persone, tra due contraenti, decisione basata sulla libertà personale, su una presunta libertà sessuale, scelta, mercato o servizio, in cui entra in gioco l’ammissione che il corpo stesso, o il sesso, sia una merce da offrire al migliore offerente;
· un’altra la concepisce come un sistema organizzato, una “industria del sesso” che include una varietà di attori sociali – “clienti”, protettori, papponi, stati nazionali, uomini, donne e settori economici complementari, come le società pubblicitarie e turistiche, gli hotel, l’industria pornografica, ecc. Ma tra entrambe le visioni ci sono molte altre demarcazioni del fenomeno della prostituzione. A volte è limitato a un atto criminale o un comportamento “deviante”; in altri casi, l’attenzione si concentra sulle motivazioni delle persone prostituite o di alcuni attori che partecipano al mondo della prostituzione, tra cui le organizzazioni dei magnaccia e la loro dimensione globalizzata. Le prospettive, l’enfasi o gli aspetti non presi in considerazione hanno conseguenze nelle politiche, che a volte possono essere complementari e in altre, opposte e contraddittorie.
Di cosa si parla quando si parla di prostituzione?
Contrariamente alla corrente dei “regolamentaristi” che difendono la prostituzione come “lavoro regolamentato” e “servizio” alla persona, l’analisi degli scritti di Marx rivelano che, per lui (come per tutti i padri e le madri del socialismo), non esiste alcuna emancipazione e libertà nell’attività prostituente.
All’opposto: si tratta di un’attività che andrebbe accuratamente evitata il più possibile, se non proprio abolita.
Marx affronta il tema della “comunione delle donne” nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 e nel Manifesto. Nella prima opera, egli osserva che il rifiuto del matrimonio come proprietà privata esclusiva comporta, nel comunismo rozzo, la comunanza delle donne o la prostituzione generale. Nella seconda, all’accusa che i comunisti vogliono la comunione delle donne, Marx risponde in modo volutamente ambiguo.
a) K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Terzo manoscritto
[…] infine tale movimento che consiste nell’opporre la proprietà privata generale alla proprietà privata, si esprime in una forma animale come la seguente: al matrimonio (che è indubbiamente una forma di proprietà privata esclusiva) si contrappone la comunanza delle donne, dove la donna diventa proprietà della comunità, una proprietà comune. Si può dire che questa idea della comunanza delle donne è il mistero rivelato di questo comunismo ancor rozzo e materiale. Allo stesso modo che la donna passa da matrimonio alla prostituzione generale, così l’intero mondo della ricchezza, cioè dell’essenza oggettiva dell’uomo, passa dal rapporto di matrimonio esclusivo col proprietario privato al rapporto di prostituzione generale con la comunità.
Nel rapporto con la donna, in quanto essa è la preda e la serva del piacere della comunità, si esprime l’infinita degradazione in cui vive l’uomo per se stesso: infatti il segreto di questo rapporto ha la sua espressione inequivocabile, decisa, manifesta, scoperta, nel rapporto del maschio con la femmina e nel modo in cui viene inteso il rapporto immediato e naturale della specie. Il rapporto immediato, naturale, necessario dell’uomo con l’uomo è il rapporto del maschio con la femmina. In questo rapporto naturale della specie il rapporto dell’uomo con la natura è immediatamente il rapporto dell’uomo con l’uomo, allo stesso modo che il rapporto con l’uomo è immediatamente il rapporto dell’uomo con la natura, cioè la sua propria determinazione naturale.[1][1]
Il regolamentarismo sostiene che l’attività svolta dalle prostitute dovrebbe godere di un riconoscimento ufficiale, al fine di ottenere la loro integrazione nel sistema generale di sicurezza sociale, sia come lavoratrici dipendenti che autonome. Un settore della corrente regolamentarista riconosce che la prostituzione non è l’attività ideale per l’autorealizzazione personale, ma che non sia peggio dell’attività di una cameriera o di una commessa. Questo ragionamento normativo ci porta a pensare che l’unica differenza tra le due attività è che una è legale e l’altra no. L’analisi marxista del lavoro salariato, viene anche utilizzata per affermare che la prostituzione debba essere legalmente riconosciuta, in modo che le donne che la praticano possano migliorare le loro condizioni nell’esercizio di tale attività.
Lavoro concreto e lavoro astratto
Il fatto di attribuire una posizione regolamentarista a Marx (e ai padri e alle madri del socialismo) si basa, in realtà, sull’ignoranza e sulla confusione della concezione marxista di “lavoro”. Per cominciare, le correnti regolamentariste trascurano non solo la dimensione storicamente determinata del modo di produzione capitalistico, ma anche il duplice carattere del lavoro nel modo di produzione capitalistico. Quando Marx analizza il lavoro da un punto di vista antropologico, vediamo che è impossibile separarne l’attività produttiva umana sia dagli individui che la svolgono che dagli strumenti del lavoro (utensili e materiali), che dal prodotto di tale attività. Questa dimensione che definiremmo “lavoro concreto” si presenta in tutte le società e in ogni momento. Tuttavia, Marx ci rivela una seconda dimensione del lavoro che è specifica del modo di produzione capitalista: il “lavoro astratto”. Questa dimensione riduce il lavoro a una mera produzione di valore di scambio, indipendentemente dall’attività, dai mezzi di produzione e dai prodotti specifici realizzati. Dato che i regolamenti giuridici non tengono conto di queste distinzioni, interpretano la nozione di “lavoro astratto” a modo loro, considerando la prostituzione come un lavoro.
Il regolamentarismo, da un approccio impregnato del modo di produzione capitalistico, proietta su alcune relazioni sociali e umane il proprio punto di vista sul capitale. Pertanto, attraverso il concetto marxista di “lavoro astratto”, anche senza nominarlo, il regolamentarismo promuove la mercificazione di un gran numero di attività produttive umane, non ancora monopolizzate dal capitale, e rivendica un’estensione legale del lavoro astratto, in cui includere attività di prostituzione, promuovendo né più né meno l’idea che il mercato debba regolare e rilevare le attività sessuali di ogni singolo individuo. In questa battaglia, superare la sfida della legge e della legalità costituisce una tappa importante per il capitale, nel suo sforzo di spianare la strada a questa nuova forma di sfruttamento capitalistico.
Non che in passato non sia mai esistito lo sfruttamento della prostituzione, sappiamo molto bene che è una delle forme più antiche di sfruttamento.
Tuttavia, le nuove correnti regolamentariste, mirano a proiettare il mercato prostituente nella nuova globalizzazione dei mercati transnazionali. Effettivamente siamo molto lontani dalla piccola prostituzione autoctona e provinciale, tanto decantata da Fabrizio De André.
Non a caso, Non Una di Meno Italia parla compiacentemente di “sex workers migranti”, con il preciso intendo di “regolamentare” questo traffico internazionale di esseri umani, proveniente da ogni parte del mondo.
c) K. Marx, Manifesto, II
Abolizione della famiglia! Anche i più radicali inorridiscono di fronte a tanto vergognoso disegno dei comunisti.
Qual è il fondamento della famiglia di oggi, della famiglia borghese? Il capitale, il guadagno privato. Una famiglia interamente sviluppata non esiste per la borghesia; essa tuttavia trova il suo completamento nella forzata mancanza di famiglia dei proletari e nella prostituzione pubblica.
La famiglia del borghese scompare naturalmente con lo scomparire di questo suo completamento, ed entrambe vengono meno una volta distrutto il capitale.
Ci rimproverate di voler eliminare lo sfruttamento dei figli da parte dei loro genitori? Questo misfatto noi lo confessiamo.
Ma voi dite che rimpiazzando l’educazione familiare con quella sociale noi distruggiamo i rapporti più cari.
E non è forse determinata anche la vostra educazione dalla società? Dai rapporti sociali nel cui ambito voi educate, dall’interferenza, diretta o indiretta che sia, della società tramite la scuola, ecc.? I comunisti non hanno inventato l’influenza della società sull’educazione, essi hanno solo trasformato il suo carattere, sottraendo l’educazione all’influenza della classe dominante.
La fraseologia borghese sulla famiglia e sull’educazione, sui rapporti affettivi tra genitori e figli, appare tanto più disgustosa, quanto più, a causa della grande industria, viene a mancare ai proletari ogni legame familiare e i bambini divengono semplici articoli di commercio e strumenti di lavoro.
Ma voi comunisti intendete adottare la comunanza delle donne, ci grida in coro tutta la borghesia.
Il borghese non vede nella propria moglie che uno strumento di produzione. Ode che gli strumenti di produzione debbono essere sfruttati in comune e naturalmente si sente autorizzato a credere che la medesima sorte toccherà anche alle donne.
Non pensa minimamente che la questione sta proprio in ciò; abolire la posizione della donna come semplice strumento di produzione.
D’altra parte non v’è nulla di più ridicolo di questo orrore altamente morale che provano i nostri borghesi per la pretesa comunanza ufficiale delle donne nel comunismo. I comunisti non hanno bisogno d’introdurre la comunanza delle donne, essa è quasi sempre esistita.
I nostri borghesi, non paghi di poter disporre delle mogli e delle figlie dei loro proletari – per non parlare della prostituzione ufficiale – considerano il sedursi reciprocamente le mogli uno dei divertimenti più piacevoli.
Il matrimonio borghese è in pratica la comunanza delle mogli. Al massimo si potrebbe muovere ai comunisti il rimprovero di voler sostituire la comunanza delle donne ipocritamente mascherata con una comunanza ufficiale, palese. D’altra parte va da sé che, una volta scomparsi gli attuali rapporti di produzione, viene meno anche la corrispondente comunanza delle donne, cioè la prostituzione ufficiale e non ufficiale.[2][2]
Il proletariato, secondo Marx, è composto anche da quel proletariato più impoverito che non possiede più nemmeno la forza lavoro, individui che abbandonano la lotta di classe e smettono di opporre resistenza al capitale. Secondo Marx, è il nemico storico del proletariato, anche se è parte di esso. Il lumpenproletariat è generalmente costituito da una massa chiaramente distaccata dal proletariato industriale, ladri e criminali di ogni genere che vivono ai margini della società, individui senza una professione fissa, senzatetto, persone che vivono di improvvisazione o di espedienti, che differiscono in base al grado di cultura della nazione alla quale appartengono, ma che non rinunciano mai al loro carattere di “lazzaroni”. Indipendentemente dal fatto che le prostitute facciano parte o meno di questa categoria di individui, l’unica cosa che possiamo dire qui è che, da un lato, la prostituzione non appartiene ad una definizione “positiva” di lavoro, cioè non costituisce autorealizzazione (con il tempo e l’esperienza “professionale”, la prostituta non acquista valore ma, al contrario, lo perde definitivamente) e si manifesta come qualcosa di “diverso” dal proletariato giacché la prostituta non svolge attività “produttiva” (causare erezioni ed eiaculazioni non significa produrre, ma neanche offrire un “servizio”). Né appartiene alla definizione “negativa” di lavoro come data sotto l’egida del capitale (vale a dire, lavoro pagato dal capitale stesso). E anche se Marx conosce forme di prostituzione pagata dal capitale e che può essere assimilata al “lavoro produttivo”, come accade nei bordelli che Marx evoca come esempio nelle Teorie sul plusvalore, non significa che la integri nel concetto di “lavoro”. In sintesi, Marx, pur avendo parlato spesso di prostituzione, non ha mai integrato l’attività prostituente nel “lavoro-salariato”. Molto probabilmente, non ha mai pensato che la prostituzione potesse essere considerata tale (cioè una normale attività produttiva). Tutt’altro, sembrerebbe che l’attività prostituente sia legata al lumpenproletariat: classe sociale considerata strutturalmente e ontologicamente reazionaria e legata, doppio filo, al “padronato”.
Abbiamo così tre forme principali di matrimonio, che in complesso corrispondono ai tre stadi principali dello sviluppo umano. Il matrimonio di gruppo per lo stato selvaggio; il matrimonio di coppia per la barbarie; la monogamia, completata dall’adulterio e dalla prostituzione, per la civiltà. Tra il matrimonio di coppia e la monogamia s’introduce, nello stadio superiore della barbarie, il dominio dell’uomo sulle schiave e la poligamia.
Come prova tutta la nostra esposizione, il progresso che appare in questa successione è legato alla particolarità che la libertà sessuale del matrimonio di gruppo è stata sempre più sottratta alle donne, ma non agli uomini. E il matrimonio di gruppo, in realtà, per l’uomo continua a sussistere sino ad oggi. Ciò che per una donna è un delitto che si tira dietro gravi conseguenze legali e sociali, è considerato per l’uomo cosa onorevole, e nel peggiore dei casi come una lieve macchia morale che si porta con piacere. Ma quanto più l’antico eterismo tradizionale, ai tempi d’oggi, grazie alla produzione capitalistica delle merci, si muta e si adatta ad essa, e quanto più si trasforma in aperta prostituzione, tanto più esso esercita un influsso demoralizzante. E demoralizza precisamente molto più gli uomini che le donne. La prostituzione degrada tra le donne solo le infelici che in essa precipitano, e anche costoro in una misura molto minore di quello che comunemente si crede. Invece essa degrada il carattere di tutto il mondo maschile. In tal modo, in nove casi su dieci, un lungo fidanzamento è una vera e propria scuola preparatoria alla infedeltà coniugale.
Andiamo ora verso uno sconvolgimento sociale in cui le basi economiche della monogamia, come sono esistite finora, scompariranno tanto sicuramente quante quelle della prostituzione che ne è il complemento. La monogamia sorse dalla concentrazione di grandi ricchezze nelle stesse mani, e precisamente in quelle di un uomo, e dal bisogno di lasciare queste ricchezze in eredità ai figli di questo uomo e di nessun altro. Perciò era necessaria la monogamia della donna e non quella dell’uomo; cosicché questa monogamia della donna non era affatto in contrasto con la poligamia aperta o velata dell’uomo. Ma il sovvertimento sociale imminente, mediante trasformazione per lo meno della parte infinitamente maggiore delle ricchezze durature ereditabili – dei mezzi di produzione – in proprietà sociale, ridurrà al minimo tutta questa preoccupazione della trasmissione ereditaria. Poiché dunque la monogamia è sorta da cause economiche, scomparirà se queste cause scompaiono.
Si potrebbe, non a torto, rispondere: scomparirà cosí poco che invece soltanto allora sarà realizzata sul serio. Infatti, con la trasformazione dei mezzi di produzione in proprietà sociale viene anche a scomparire il lavoro salariato, il proletariato, e quindi anche la necessità per un certo numero di donne, statisticamente computabile, di concedersi per denaro. La prostituzione sparisce e la monogamia, invece di tramontare, diventa finalmente una realtà… anche per gli uomini.
La posizione degli uomini in ogni caso subirà un grande cambiamento. Ma anche quella delle donne, di tutte le donne, subirà un notevole cambiamento. Col passaggio dei mezzi di produzione in proprietà comune, la famiglia singola cessa di essere l’unità economica della società. L’amministrazione domestica privata si trasforma in un’industria sociale. La cura e la educazione dei fanciulli diventa un fatto di pubblico interesse; la società ha cura in egual modo di tutti i fanciulli, legittimi e illegittimi. E con ciò cade la preoccupazione delle “conseguenze”, la quale oggi costituisce il motivo sociale essenziale – sia morale che economico – che impedisce ad una fanciulla di abbandonarsi senza riserve all’uomo amato. Non sarà tutto ciò una causa sufficiente per il sorgere graduale di un piú disinvolto commercio sessuale, e quindi di una opinione pubblica meno rigida e chiusa sull’onore delle fanciulle e sul disonore femminile? E infine, non abbiamo forse visto che nel mondo moderno monogamia e prostituzione sono, certo, antagonismi, ma antagonismi inseparabili, poli opposti del medesimo stato di cose della società? Può scomparire la prostituzione senza trascinare con sé, nell’abisso, la monogamia?
[…]
Quello che noi oggi possiamo dunque presumere circa l’ordinamento dei rapporti sessuali, dopo che sarà spazzata via la produzione capitalistica, il che accadrà fra non molto, è principalmente di carattere negativo, e si limita per lo più a quel che viene soppresso. Ma che cosa si aggiungerà? Questo si deciderà quando una nuova generazione sarà maturata. Una generazione d’uomini i quali, durante la loro vita, non si saranno mai trovati nella circostanza di comperarsi la concessione di una donna col danaro o mediante altra forza sociale; e una generazione di donne che non si saranno mai trovate nella circostanza né di concedersi a un uomo per qualsiasi motivo che non sia vero amore, né di rifiutare di concedersi all’uomo che amano per timore delle conseguenze economiche. E quando ci saranno questi uomini, non importerà loro un corno di ciò che secondo l’opinione d’oggi dovrebbero fare; essi si creeranno la loro prassi e la corrispondente opinione pubblica sulla prassi di ogni individuo.[3][3]
Anche quando Marx si riferisce alla “sedimentazione più bassa” e descrive gli strati più sottomessi dei lavoratori, nel Libro I del Capitale, non include in essi la categoria di “prostituta”.
È possibile che, per Marx, la prostituzione, come accade anche con il crimine, sia il grado più basso in cui il capitale è in grado di ridurre la vita di un essere umano. L’individuo del lumpenproletariat è, in un certo senso, colui che “ha ceduto il passo” alla sua umanità, che ha abbandonato la lotta e la resistenza dentro le attività produttive, “quella tremenda e tuttavia rafforzante scuola di lavoro” (La Sacra Famiglia). È quella persona che, pronta a vendere tutto di sé, si trova nella “situazione del proletariato in rovina, l’ultimo grado in cui cadono i proletari che hanno smesso di resistere alla pressione della borghesia” (L’ideologia Tedesca). Quindi, possiamo presupporre che, secondo Marx, non vi è alcuna prospettiva di emancipazione nell’attività della prostituzione. Piuttosto costituisce una rottura radicale del legame che unisce l’”organismo vivente” con la sua componente di resistenza e “umanità”.
Marx conosce perfettamente la violenza delle relazioni di dominio che si esercita sulle donne prostituite. Se Marx colloca l’attività di prostituzione nel sottoproletariato e non nel proletariato, ciò non significa in alcun modo che condanna le prostitute. Al contrario, ciò che condanna è l’attività malsana e dannosa esercitata contro le donne in prostituzione, la violenza e la discriminazione contro le donne in prostituzione, mentre cercano di raggiungere l’emancipazione dalla situazione in cui si trovano. Un’emancipazione che andrà di pari passo con l’abolizione mondiale della prostituzione, accompagnata da misure sociali e dal pieno riconoscimento delle donne nel mondo del lavoro sociale.
Se in passato riuscimmo ad abolire il lavoro minorile, semplicemente espandendo i “diritti sindacali” per ragazzi e ragazze, è tempo che la nostra società e le nostre lotte ottengano gli stessi risultati in materia di prostituzione, promuovendone la totale fuoriuscita con adeguati “ammortizzatori sociali” (indirizzati alle donne indigenti o/e problematiche) e con una maggiore tutela, promozione e protezione del lavoro femminile, in tutti gli ambiti produttivi e industriali.
[1][1] K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Einaudi, Torino, 1949, pp. 119-120.
[1][2] Marx, Opere, Newton Compton, Roma, 1975, pp. 365-366.
[3][3] F. Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, Editori Riuniti, Roma, 1963, pp. 101-103 e 109-110.