di Mario Narducci
Aveva l’andatura del pastore, lenta nel “parare” le greggi al pascolo, tra belati rassegnati e suono stanco di campani, e statuaria quando sosta a contemplare le distese verdi che confluiscono dove le montagne prendono ad arrampicarsi verso il cielo. Del pastore aveva lo sguardo capace di riconoscere le assenze di capi e pronto a cogliere l’insofferenza dei cani che lo mettono in allarme prima ancora dello scomposto abbaiare, tra il frenetico andirivieni che raccorpa le pecore.
Vestiva alla bell’e meglio, un giubbotto senza più colore o un maglione grezzo di lana, scarponi malandati ai piedi e sul capo un cappellaccio sfibrato di paglia, forse da donna un giorno, che a mala pena riusciva a mettere nell’ombra anche la barba lunga e incolta. Appeso di sghembo ad una spalla, uno zaino militare unto e bisunto come tutti i vestiti, floscio per metà e per l’altra metà ripieno di scartoffie misteriose. Lui, del resto, il pastore lo aveva fatto per davvero, in un terreno di proprietà presso Coppito, dopo che le Ferrovie dello Stato, che lo avevano tenuto a lavoro per una vita, lo misero in quiescenza con tanto di pensione più che dignitosa per un uomo solo.
Da ferroviere era tutt’altro uomo. Messo bene come può esserlo un addetto allo scambio di binari, o in ricognizione presso i treni fermi, per colpirne le ruote con un colpo secco del martello lungo il cui suono chiaro ne attestava il buono stato, fuori del lavoro stava in giacca e cravatta come un nobil signore, distinto e su di petto, perché lui sapeva d’essere quel che tutti gli altri ignoravano: l’erede di un antico casato che intorno al 1250 aveva contribuito, con altri signorotti del contado, a fondare la città dell’Aquila.
Sul lavoro appariva attento e sereno. Ma dentro di sé, negli anfratti più remoti dell’anima, era tutto uno struggimento. Con pazienza certosina era andato a consultare archivi e biblioteche, quelle pubbliche e quelle degli ordini religiosi che all’Aquila avevano avuto fioritura antica e che per gli studiosi erano manna da saziare ogni fame di sapere. Aveva trovato carte, diceva, che ne comprovavano l’alto lignaggio. Era l’erede, diceva, dell’antica e nobile famiglia degli Scapuleti, che se gli toglievi la esse avrebbe fatto il paio con il casato dell’innamorata infelice di Verona, la dolce Giulietta, protagonista del contrastato amore con il bel Romeo, Montecchi per intenderci. Ma queste cose, le sapeva solo lui, che nell’intimità della propria abitazione trascorreva notti insonni per esplorare un passato di grandezze e di meraviglie che voleva riconquistare ad ogni costo, un giorno, quando le Ferrovie lo avrebbero messo in libera uscita e lui avrebbe avuto tutto il tempo di rifarsi nei confronti di una Città nobile che lo disconosceva.
“Io ho fondato L’Aquila”, incominciò a dire dal giorno dopo che andò in pensione. Non avrebbe potuto farlo prima, senza correre il rischio d’essere preso per folle. La prima cosa che fece, con i soldi della liquidazione, fu quella di comperarsi un piccolo gregge da portare al pascolo sui terreni di famiglia che in tal modo gli parve di rifar propri. Altri soldi li mise in banca, altri ancora sotto il materasso per le spese quotidiane, come pagare il conto alla trattoria dove si recava a prendere i pasti. Ma la pastorizia non gli dava il tempo per affermare in città chi realmente era: il nobile Scapuleto coppitano, che aveva in tasca un titolo vero in un mondo di cercatori di quarti di nobiltà a moneta sonante, distribuiti da titolati veri che in tal guisa ripianavano debiti dopo aver sperperato patrimoni.
Vendette il gregge e si sentì finalmente libero di battere la città in largo e in lungo per proclamare al colto e all’inclita la sua nobiltà. Fu allora che incominciarono a chiamarlo “il Patrizio”, in una città di baroni, marchesi, duchi e perfino con un principe venuto da fuori e che la scelse per sua. Lo struggimento dell’antico ferroviere divenne ben presto ossessione, una pulsione maniacale che non trovava sbocco: lui era quello che gli altri non vedevano, ma ben altro da quel che vedevano. Un uomo qualunque al di sopra di ogni normalità. Da qualche parte, forse nello stesso suo territorio, avrebbe dovuto esserci anche un castello che il tempo aveva buttato giù. Un uomo che inseguiva la sua riconquista, un don Chisciotte che cavalcava un ronzino di sogno ed era solo un miraggio.
Incominciò a degradare fisicamente e nel vestiario. Fino a diventare un barbone maleodorante che fermava i passanti per strada per dire loro chi era; accostava le studentesse al bar sciorinando le carte tirate fuori dallo zaino; bloccava la gente al mercato della Piazza per dire che nella Basilica di San Bernardino c’era perfino una cappella di famiglia, fatta edificare a sue spese da un antenato, monsignor De Benedictis, erede degli Scapuleti, davanti alla quale si faceva fotografare. Era diventato, nel tempo, un incontro fisso un po’ per tutti, una sorta di visione ectoplastica, parole all’aria cui non badava più nessuno, una spugna, però, intrisa di simpatia. Dopo il terribile terremoto dell’Aquila, lo videro in giro solo per poco fino a che i giornali non ne annunciarono la fine. Che fu anche la fine di un sogno. Nessuno mai crede di essere quel poco che è, aveva scritto un filosofo latinoamericano dei nostri giorni. Ma il Patrizio non apparteneva alla schiera dei nessuno. Per tutta la vita egli aveva creduto di essere, fino all’insania, quel che forse non era.