A scanso di spiacevoli malintesi, dico subito che il medico italiano possiede uno spessore professionale di altissimo livello in Europa, ma anche fuori, ma mi par tuttavia di poter dire che, malgrado tutto ciò, esistono dei risvolti che non depongono a suo favore, tanto che, anche un mio amico, ex direttore sanitario di uno dei più grandi e moderni ospedali del Veneto, ora in pensione ma con incarichi presso una grande struttura privata, il dott. U.C., un giorno ebbe a dirmi, sia pur in senso lato, che, all’ospedale si va solo per morire. Ovviamente, questo discorso non vale per chi, ad esempio, si è rotto una gamba o un qualsiasi altro arto, realtà da cui non si può prescindere dal ricovero, o per chi appalesa con assoluta evidenza di essere a fine vita e non si vuol far morire in casa.
Detto questo da sprovveduto ma non privo di esperienza di vita, mi par anche di poter dire dopo attenta osservazione del fenomeno, che oggi l’approccio alla struttura ospedaliera, nasconde delle insidie che non trovano assolutamente la giustificazione secondo cui…il pericolo sarebbe sempre dietro all’angolo, come ho sentito dire da diversi sanitari, ma dalla prassi ormai collaudata, da parte del medico ospedaliero, di applicare il cosiddetto “protocollo” che consiste nel sottoporre il ricoverato ad una serie di formalità psico-fisico-sanitarie che, solo in pochi giorni, finiscono per debilitarlo, a volte arrecando pregiudizio anche alle sue stesse risorse per stare in piedi, risorse che, prima del ricovero, sussistevano normalmente.
Allora si provvede a fronteggiare la situazione con farmaci che, il più delle volte, debilitano ulteriormente, non sottacendo che viviamo in una sorta di emergenza sanitaria in cui anche l’antibiotico non ha più la sua funzione in quanto i batteri gli resistono: in questo caso si parla ufficialmente di antibiotico-resistenza. Quanti ricoverati per rottura del femore o qualche altro malanno anziché morire per l’iniziale patologia, muoiono invece per…polmonite…anche perché l’antibiotico più non serve ?
Qualche giorno fa, in un opuscoletto edito da… Confragricoltura, quindi non da un ente deputato alla sanità, ho letto alcune cose che faccio mie da diversi anni e che, secondo me, dovrebbero non solo far riflettere, ma dovrebbero anche approcciare il mondo sanitario ad una forma-mentis diversa nei confronti dei malati che, oltre a non essere tutti uguali, risentono fortemente dei trattamenti che il corpo infermieristico è costretto a fornire indirettamente ed obbligatoriamente in base alle decisioni del medico, talvolta prese a tavolino, lontano dai pazienti, davanti ad un PC, sulla base di un protocollo da rispettare, la cui osservanza pedissequa, alias di protocollo, sottrae il medico anche da responsabilità. Ritornando al pensiero iniziale, supportato anche da..Confagricoltura, che dire di una testimonianza come quella che segue ? Che, non giova certo agli anziani che entrano semi-sani ed escono (se escono) semi-morti ? Come scrive una signora di Roma :
Ma è mai possibile che gli anziani entrino in ospedale, per un qualsivoglia disturbo, del tutto autosufficienti e ne escano peggiorati ed incapaci di badare a se stessi ?” si chiede la predetta signora che, dopo aver ricoverato il marito per una aritmia, ne è uscito col bastone ed il..pannolone. Semmai dovrebbe succedere il contrario e cioè che uno esca almeno nelle condizioni di prima o no ?”
Già lo sappiamo, perché questo avviene sia in Italia che in altri paesi, tanto che gli israeliani hanno fatto una ricerca per capire le cause di questa decadenza indotta dall’ospedale elencando in primis la mancanza di movimento, perché molti restano – e vengono lasciati – a letto per tutto il ricovero, poi l’adozione del catetere o del pannolone per urinare al di là delle reali necessità, ed infine la somministrazione di medicine per il sonno spesso non necessarie in aggiunta ad una nutrizione inadeguata.
Purtroppo, tranne in pochi casi, l’ospedale è costruito e gestito sulle esigenze dell’ospedale stesso, talvolta anche – ahimè – da esigenze valoriali ed architettoniche degli ingegneri-architetti. E non dei malati !!! La dieta ospedaliera, per esempio, per chi soffre di specifici disturbi, spesso non è personalizzata, anche se diversificata e prenotata qualche ora prima. Insomma, viene servito tutto a tutti in maniera uguale, un cibo che alcune volte non piace ed è obiettivamente cattivo. Inoltre i pasti vengono serviti negli orari comodi per l’ospedale, come la cena che è somministrata alle cinque/sei del pomeriggio quando il paziente è abituato a farla alle otto/nove di sera in città ed un po’ prima in periferia.
Se a questo aggiungiamo i medicinali tranquillizzanti o antidolorifici che annebbiano il cervello, non dobbiamo meravigliarci se, un ricovero in ospedale più o meno lungo, ha spesso come conseguenza in un anziano un disorientamento spaziale e temporale, in quanto i ritmi e gli spazi dell’ospedale sono diversi da quelli abituali. E se un giovane si può riadattare velocemente al proprio ambiente non appena rientrato, per un anziano tante volte non è così, tanto che il declino funzionale che può accusare l’anziano, una volta dimesso, non è solo cognitivo, ma anche di movimento.
L’anziano ricoverato dovrebbe essere tenuto a letto il minimo indispensabile e dovrebbe muoversi ed essere stimolato a muoversi. Ma spesso viene fatto il contrario. Specie anche nelle case di riposo. Occorrerebbe abbreviare i ricoveri, non per risparmiare, bensì per agevolare la ripresa del paziente anziano, sviluppando il più possibile l’assistenza domiciliare e il ricorso agli ambulatori esterni per gli esami e i controlli, anche perché, diciamocela tutta e per intero, gli ospedali sono una fabbrica di depressione, che certamente non aiuta il paziente a migliorare.
D’accordo, è pressoché impossibile attuare quanto sto dicendo, e ciò, non tanto per questioni economico-finanziarie, ma perché in un mondo in cui si sta diradando ed assottigliando a dismisura il concetto di umanesimo, tanto da derubricare l’essere umano a mero numero, gestibile con le macchine informatiche, il ricoverato non avverte quella sensazione “terapeutica” di vicinanza “simil-familiare” con gli ospedali, mentre il medico oggi sta correndo il rischio, posto che non si trovi già in queste condizioni, di essere innescato in una sorta di catena di montaggio nella quale assemblare, sempre sulla base di un protocollo maledetto, il prodotto “salute” che, abbastanza spesso, non esce bene.
Tempo fa, e concludo, un altro mio amico, ex primario delle tossicodipendenze, ora in pensione, dopo essersi confidato con un suo collega, ebbe a dire di fronte ad una platea molto nutrita di tossici ed alcolisti (a cui avevo partecipato anch’io in veste di giornalista), che, durante tutta la sua lunga carriera ospedaliera, non aveva mai visto guarirne uno…
D’accordo il contesto è diverso fra l’anziano ed il tossico, ma il denominatore comune, alias ospedale, resta il medesimo. Si procede come sta scritto, ad evitare responsabilità ed in ossequio ad una “forma-mentis” più comoda che vincente.
Arnaldo De Porti