di Domenico Bilotti (*)
Sono da poco trascorsi cent’anni dall’istituzione dell’Eparchia di Lungro per gli albanesi dell’Italia continentale. A dare veste giuridico-canonica siffatta alla comunità cattolica italo-albanese fu Benedetto XV, con la costituzione apostolica “Catholici Fideles”. Benedetto XV fu un pontefice di grande spessore. Nella storiografia che si occupa della Chiesa, nel lungo periodo tra l’unificazione e la repubblica, troppe volte il suo nome è oscurato, nel comune recepimento e nella percezione collettiva, da personalità di grandi fortune, anche sul piano politico e popolare, come Leone XIII, o da papati ben più controversi, come quello di Pio XII. Ciononostante, la grandezza di Benedetto si staglia anche rispetto alle figure più note: tenace assertore della pacificazione internazionale, avverso alla Grande Guerra, promotore della solidarietà e della cooperazione, primo legislatore “codiciale” nella storia ecclesiastica (dove la codificazione era stata sino a quel punto riguardata come lascito delle culture irreligiose dell’Illuminismo razionalista).
Benedetto XV verga parole di grande intensità e di sapiente misura giuridica in occasione dell’istituzione dell’Eparchia, ambita conquista normativa e istituzionale formale per la comunità italo-albanese. Sulla scia di questo opportuno provvedimento canonico e delle recenti celebrazioni per l’importante anniversario, molti commentatori hanno però omesso di ricordare a dovere come la storia degli albanesi, cattolici e non, giunti in Italia sia stata complicata. La stessa, apprezzabilissima e nei fatti apprezzatissima, costituzione benedettina seguiva di almeno quattro/cinque secoli i primi insediamenti calabresi: gli albanesi giunsero da profughi, inseguiti dall’avanzata turca alla quale molti di loro non vollero piegarsi, dal punto di vista politico-militare e anche da quello strettamente religioso-confessionale. Una storia di sospetti, ostracismi, tensioni, reciproche incomprensioni, ma anche un atteggiamento complessivo che non sempre arrise a quella comunità, diversa per nazione, etnia e rito: la vitalità delle comunità locali non sempre sanava i decenni e i secoli di disattenzione istituzionale, né l’omologazione di un contesto dove i momenti di chiusura non sono mancati.
Bisognerebbe evitare di trasformare le importanti ricorrenze che riguardano non solo i fedeli italo-albanesi cattolici, ma quelle comunità tutte, a prescindere dal vissuto e dalla fede, in celebrazioni manierate e unilaterali, per cui viene innalzata alle cronache una identità particolare, privandola del più grande segno della partecipazione ai destini umani: la storicità delle esperienze in un territorio. E forse quella vicenda dovrebbe o potrebbe insegnare qualcosa di importante anche nelle dinamiche dell’oggi, dove i gruppi minoritari, portatori di una lingua, di una letteratura, di una cultura, rischiano di essere o giustapposti agli altri con lassismo o permissivismo o, ancor più spesso, schiacciati dagli anfibi di miliziani, veri e immaginari. Il riconoscimento della diversità in una cornice regolativa comune è forse il solo strumento offerto dalla trasformazione del conflitto in agenzia di produzione e promozione di istituzioni giuridiche più eque.
(*) docente di “Diritto e Religioni” e “Storia delle Religioni” – Università Magna Graecia di Catanzaro