Mariano Gazzola, tutto pronto per l’assemblea continentale del CGIE? Perchè a Santo Domingo (e non, per esempio, il Brasile?)
Sí tutto pronto. La scelta di Santo Domingo, cittá sede del Comites di Panama-Republica Dominicana, si basa nella necessità di prendere contatto con le comunitá di tutta un’area che dopo la riforma della legge istitutiva del CGE fatta dal Governo PD, non ha piú rappresentanti nel Consiglio Generale: tutto il Centroamerica, Ecuador, Colombia. Poi si sono costituiti anche i Comites in Bolivia e Paraguay , due comunità non rappresentate nel CGIE. In questa occasione sono stati invitati a partecipare in qualità di esperti i Presidenti dei Comites di Messico, Ecuador, Guatemala e Panama-Rep. Dominicana, che con i loro contributi ai temi generali dell’Odg non sono arricchiranno i nostri lavori ma potranno anche presentare in prima persona la re altà delle loro comunità. Poi é giusto ricordare che sa sempre, le riunioni Continentali del CGIE si fanno in rotazione nei diversi paesi dell’Area. Da quando si é insediato questa nuova “consigliatura” del CGIE, ne abbiamo fatto le riunioni a Buenos Aires, Santiago del Cile, Montevideo. Così nel 2019 una delle due Continentali verrà fatta in Brasile, nella prossima Assemblea Plenaria del mese di novembre, decideremo in quale città e in quale data.
Ritiene opportuna la discussione di una nuova legge cittadinanza esattamente adesso che si scappa (almeno momentaneamente) di una proposta che vorrebbe imporre dei limiti al “ius sanguinis”?
La ritengo necessaria ma oggi come oggi, non prioritaria. Oggi le priorità sono altre: il voto all’estero (c’é stata una formale richiesta del Governo al CGIE di presentare una proposta entro quest’anno), la situazione della Rete Consolare (una priorità sopratutto per chi abita oltreoceano), la Riforma della Circolare 13 (che regola la assegnazione e l’erogazione di contributi agli Enti Gestori della Lingua Italiana, e alla quale il CGIE debe dare un parere). Ad essere precisi abbiamo “scapato” ben due volte ad una limitazione del ‘ius sanguinis’: a novembre del 2017 era stata presentata una proposta dei senatori del PD eletti all’estero di limitare lo ‘ius sanguinis’ e introdurre un esame di lingua. E sempre il pericolo é stato fermato la prima volta grazie al intervento del senatore Zin in Senato; la seconda grazie al sottosegretario Merlo presso il Ministro dell’Interno, tutte e due grazie alla mobilizzazione di tutti i dirigenti MAIE, e questo non é una opinione, ma un fatto di cronaca.
Se in meno di un anno abbiamo avuto questi due tentativi, non é casuale. Ovviamente la cittadinanza, cioè la decissione normativa di chi è cittadino italiano e chi non, è un tema oggi in discussione in Italia. E noi italiani all’estero abbiamo oggi una grande opportunità: di fare noi una legge di cittadinanza, una legge che sia giusta per noi. Abbiamo bisogno di discutere su questo tema, noi dirigenti degli italiani all’estero non possiamo far finta di nulla, non possiamo negare che c’e una necessità di aggiornare la legge alla realtà di un mondo e di una comunità italiana all’estero che non è quella del 1912 (data della prima legge di cittadinanza) ne quella di 26 anni fa quando fu varata la legge n. 91/92. Abbi amo l’opportunità di fare una proposta, e che tramite il sottosegretario Merlo il Governo la faccia sua e la presenti in Parlamento. Una legge che garantisca a chi è italiano il diritto di essere riconosciuto cittadino italiano, nato ovunque sia nato, sia per via paterna o materna. Una legge che consenta al chi ha dovuto prendere un’altra cittadinanza per motivi di lavoro di riprendere la sua italiana e che consenta ai suoi figli che sono italiani di essere riconosciti come tali. Perché è chiaro che se la proposta non la facciamo noi italiani all’estero, se la riforma la fa chi non ci rappresenta, le possibilità che sia una riforma ingiusta sono grandi: se vogliamo scongiurare questo pericolo, dobbiamo affrontare il tema non certo in fretta, forse nel trascorso dell’anno prossimo, in un percorso di consultazione con le basi, le associazioni, i Comites.
La proposta basica del CGIE sarebbe quella già conosciuta, cioè, fatta dai consiglieri Sangalli e Alciati?
No. Il CGIE non ha ancora iniziato formalmente la discussione, non c’è una “proposta base del CGIE”. C’é solo una proposta in giro, presentata alla Terza Commissione dai colleghi Sangalli e Alciati che è la loro opinione, non la nostra, e che ancora non ha stato. Se ci sarà una “proposta base”, la dovrà fare – penso – la III Commissione Tematica del CGIE. Alle prossime Continentali che si terranno tra le ultime settimane di settembre e la prima di ottobre, a Metz (Commissione Europa), Johannesburg (Commisione Anglofona) e Santo Domingo (Commissione America Latina), si dovrà prima discutere sull’opportunità di affrontare questo tema, e se lo ritengono necessario, le Commissioni forniranno al Comita to di Presidenza elementi su come procedere, e sarà il Comitato di Presidenza di ottobre a strumentare il processo e sopratutto a calendarizzare il tema. Ma ricordiamoci, come abbiamo detto che il CGIE ha altre priorità.
Il CGIE si baserà soltanto nei pareri dei propri consiglieri e quelli eventuali dei Comites, o cercherà di coinvolgere anche le comunità?
Il CGIE ha titolo per elaborare una proposta, e i compito dei singoli consiglieri in tutti i temi, non solo in questo, è quello di consultare i Comites e la comunità delle quali siamo espressione. Ripeto, le prossime Commissioni Continentali debbono fornire al CdP suggerimenti su come procedere. La mia opinione personale è che, su questo tema della cittadinanza, una volta calendarizzato, dobbiamo iniziare un processo di consultazioni con la base, con le associazioni e i Comites. È quanto il CGIE ha fatto con la discussione della proposta di riforma del CGIE e Comites, e con il tema della riforma del voto all’estero, e dunque mi auguro che così venga fatto con questo tema.
Girando il mondo, siamo davanti a realtà troppo diverse, anche nel territorio sudamericano. In Brasile, per esempio, l’italianità è stata ‘criminalizzata’ e soffocata a lungo, al contrario che in Argentina. Queste differenze verrano messe in considerazione in una eventuale proposta di legge del CGIE?
Proprio per queste diversità, la discussione di un tema assai sensibile come la cittadinanza debba iniziare con un processo ampio di consultazioni. È una riflessione importante quella che fai, perché il compito delle leggi è quella di captare normativamente la realtà, e la realtà dell’italianità all’estero é complessa. La proposta di legge, dovrà tenere conto di tutte le realtà; ma anche dobbiamo tenere conto del principio di unicità, è impensabile una legge di cittadinanza per gli “italo-sudamericani” e un’altra per gli “italo-europei”. È importante la tua domanda anche in un altro senso:
D’accordo si apprende delle sue ultime dichiarazioni, Lei, personalmente, sarebbe favorevole a una sorta di “ius culturae”. E questa sarebbe, in fondo, anche la vera posizione MAIE. È proprio così? E come sarebbe?
Ho in parte una certa invidia ai dirigenti colleghi del CGIE o Comites, e dei parlamentari eletti all’estero, che hanno già avanzato proposte. Vuol dire che hanno già “la soluzione”. Io non mi vergogno a dirlo, in questo tema ho più domande che risposte. Forse c’e chi ha delle risposte perché partono posizioni dogmatiche, personali o di speculazione politica. È un tema sensibile, e io sono convinto che in questo particolare tema, noi dirigenti più che voler imporre la nostra soluzione, dobbiamo prima ascoltare e sopratutto studiare il tema. Analizzare come si diceva prima tutte le situazioni, consultare gli esperti, consultare la base, coinvolgere in questo processo tutti, perciò la discussione di questo tema è necessar ia ma non prioritaria, non dobbiamo farlo subito, dobbiamo darci un tempo per superare la fase de confusione e di speculazione. C’è chi senza aver consultato nessuno presenta una proposta cambiando l’attuale principio della legge e, allo stesso tempo, promuove una raccolta firme per evitare che la legge cambi; per me non é serio. Sappiamo a scienza certa che cosa siano lo “ius sanguinis” e lo “ius soli”, le due forme che ha lo Stato di riconoscere la cittadinanza degli individui. Ma che cosa é il cosiddetto “ius culturae”?. Come tu dici “come sarebbe”? È un interrogante ancora aperta, perché “ius culturae” è un concetto ancora in elaborazione. Prima, se “ius culturae” significa “solo lingua”, attenzione, ricordiamo l’art 3 della Costituzione Italiana, e consultiamo gli esperti…. e poi se parlare italiano è essere italiano, allo ra non dovremo riconoscere la cittadinanza a più della metà dei signori Cardinali che parlano perfettamente la lingua italiana, indipendentemente della loro nazionalità? Se lo “ius culturae” significa conoscere la storia, le abbitudini, la realtà italiana, allora non dobbiamo riconoscere la cittadinanza a Sebastian Vettel? Sì a Vettel, che di nazionalità é tedesco, ma che l’anno scorso abbiamo visto tutti, sorridente e felice, intonare alla perfezione l’Inno di Mameli dal podio nel GP di Monaco? Certo é un assurdo ciò che sto dicendo, però che serve a dimostrare che lo “ius culturae” non ha entità indipendente, se non legato o al “ius sanguinis” o al “ius soli”.
“Ius sanguinis” o “ius soli” sono insostituibili. E ciò che io sono personalmente favorevole è a mantenere lo “ius sanguinis”: il figlio di italiano è italiano, ovunque sia nato. Non si può prescindere dello “ius sanguinis”. La cittadinanza é lo istituto giuridico che regola il rapporto tra lo Stato e l’individuo. Nel ordinamento giuridico la legge capta la realtà e la trasforma in norma giuridica, capta il “connazionale” (in questo caso “l’italiano”) e lo riconosce cittadino. Uno Stato di diritto agisce con i diritti, e per tanto riconosce quale “cittadino” tutti i connazionali senza distinzione (di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinione politiche di condizioni personali o sociali). E lo “ius sanguinis” è la forma di miglior garantire questo riconoscimento universale (lo “ius soli”, esclude una condizione personale: la nascita fuori del territorio nazionale).
Ma come opera lo “ius sanguinis”? Presupone che il genitore trasmette la sua identità (l’italianità nel nostro caso) al suo generato, cioè al suo figlio. La legge capta questa situazione di fatto – la trasmissione dell’italianità – e riconosce cittadino al figlio di cittadino. Ciò che tanti dicono oggi è che ci sono casi in cui questa trasmissione di identità non è effettivamente avvenuta, e che il presupposto è falso. Io non sono d’accordo, il presupposto non è come tale falso, in alcuni casi può darsi che non si verifichi, ma qui è dove si apre la possibilità non di negare lo “ius sanguinis” (perché, ripeto, non si può prescindere), ma di r afforzarlo con elementi che consentano al discendente di italiano di sciogliere tutti i dubbi, e dimostrare che l’italianità – come tu dici nella tua domanda anteriore – è stata sì soffocata a lungo, ma non certamente uccisa!
È questo che dobbiamo studiare come dare più forza allo “ius sanguinis”, come sciogliere tutti i dubbi sulla nostra identità italiana, anche se siamo nati oltreoceano. In quanto alla “vera, in fondo” posizione del MAIE… la unica verità è la realtà, i fatti concreti: tra gli eletti all’estero, gli unici che hanno sostenuto sempre senza indugi lo “ius sanguinis”, inclusive votando contro i tentativi di indebolirlo, è stato il MAIE. La posizione del MAIE è quella che ha espresso il presidente Merlo al ministro Salvini, e che ha fatto pubblico, io ho visti i messaggi: Merlo ha difeso il “ius sanguinis” e ha ottenuto che esso non venga limitato a due generazione come si proponeva.
Da qualche parte si ha detto che sarebbe accettata una proposta mista, cioè, libera la trasmissione ‘ius sanguinis’, ma a partire della terza generazione ci sarebbe un ‘esame di italianità’. Che ne dici?
Salvo una mia rinuncia alla mia italianità, la legge non può impedire il mio diritto umano a trasmettere la mia identità a mio figlio. Guardate caso, quasi tutti gli Stati che adottano lo “ius soli”, consentono al figlio nato all’estero di un cittadino di farsi riconoscere la cittadinanza del padre. Non si può discutere lo “ius sanguinis”. Certo è una cosa, noi abitiamo paesi di lunga emigrazione. Ci sono italiani non dall’ 1880, ma anche dalla fine del 1700. In Argentina, nel primo governo patrio (1810) c’erano – almeno- comprobati (senza dubbi) due figli di italiani. Alcuni di loro ne hanno oggi discendenti con lo stesso cognome (cioè linea paterna mai interrotta). Possiamo negare la loro italianità p erché di sesta o settima generazione?. Secondo me no. Possiamo dubitare che una di queste generazioni non abbia tramesso l’italianità? Forse sí. Allora come si risolve?
E qui entrerebbe il discorso del presupposto legale, cioè: la legge può supporre – senza ammissione di prova contraria – che il padre abbia trasmesso l’italianità al figlio e questo al nipote, in generale i nipoti conoscono e più o meno convivono con i nonni. I bisnipoti forse nemmeno sono riusciti a conoscere il bisnonno, ma sì l’ha conosciuto il nonno (cioè suo figlio) e la legge può supporre – senza ammissione di prova contraria – che la trasmissione sia avvenuta in continuità tre generazioni. Dopo la quarta generazione? E qui entra l’ “esame di italianità”? Forse sì, è qui che si potrebbe rafforzare (non cancellare!) lo “ius sanguinis”, con un elemento c oncreto di italianità. Tre o quattro generazioni? Bene sono tutti ragionamenti in voce alta, che debbono essere studiati. Ripeto, non mi sembra che oggi l’opportuno sia dire la soluzione l’ho trovata ed è questa.
Cosa dici a chi sostiene che l’interesse del MAIE nel limitare la trasmissione dello “ius sanguinis” ha come indirizzo bloccare la crescita elettorale del Brasile, il paese sudamericano dove il numero di italo discendenti é quello di maggior peso?
Sembrerebbe che tra i dirigenti della nostra comunità sia nata una nuova pratica sportiva: il “tiro al MAIE”. Sembra che ci sia stata una presentazione nel Comitato Olimpico Internazionale per farlo riconoscere come sport olimpico… forse così chi lo pratica riesce finalmente a vincere qualcosa!
Non si parla più di incostituzionalità sulla tassa cittadinanza. Intanto qualche soldi già sono arrivati ai consolati e le file della cittadinanza e quella dei passaporti continuano. Al CGIE del Sud America non interessa più questo argomento?
Io l’ho detto anche pubblicamente in parecchie opportunità che la tassa non serviva – come non é servita – a risolvere il problema delle file. E lo continuo a dire. La soluzione é l’assunzione di personale di ruolo e contrattisti. E per quanto si conosce, il Governo sta lavorando in questo senso. L’argomento dello stato della rete consolare e dei servizi è sempre all’ordine del giorno dei lavori della Continentale America Latina del CGIE.
Sulla legge del voto, quale sono le proposte in gioco? Il voto elettronico sarebbe fattibile? Con, o senza quella pre-iscrizione?
Su questo argomento il CGIE ha invitato ai Comites di tutto il mondo di promuovere incontri con la comunità e con le associazioni per discutere il tema e formulare proposte di messa in sicurezza del voto all’estero. Questo tema é oggi quello prioritario e sarà il più importate nei lavori delle diversi Commissioni Continentali.
Il CGIE é stato invitato dal sottosegretario Merlo a lavorare sul tema. C’è un documento formulato dalla III Commissione Tematica del CGIE. Speriamo le proposte e i suggerimenti dei Comites e i lavori delle Continentali. In base a tutto questo, l’Assemblea Plenaria del CGIE, che si terrà a novembre a Roma, formulerà la proposta da presentare al Governo. Il CGIE in più opportunità ha espresso l’opinione che il voto per corrispondenza sia l’unico che consente a tutti di partecipare. Naturalmente ci sono delle correzioni da fare per dare più sicurezza e trasparenza al processo, perciò si parla più che di modifica del voto di “messa in sicurezza delle modalità di voto”.
Personalmente penso, ed questa è anche la posizione del MAIE, che la cosiddetta “inversione della opzione”, è l’unica soluzione possibile per dare soluzione al problema maggiore che è la zona di ombra del processo: i plichi che vengono spediti a persone non interessate a votare. Il voto non è obbligatorio, perché va inviato anche a chi non vuole votare? Perché il cittadino che non vuole votare debba assumersi la responsabilità di custodia di una documentazione assai importante come il materiale elettorale?
Certo che deve essere fatta di una forma diversa a come si è fatto per le ultime elezioni dei Comites: prima si deve fare una ampia campagna informativa e di comunicazione continua, il registro degli elettori non deve aprirsi per pochi giorni prima dell’elezioni ma per un lungo periodo, forse permanente. L’iscrizione deve essere anch’essa permanente, l’elettore si registra per tutte le elezioni, si resta iscritto finché non c’è comunicazione di voler cancellarsi. Si parla anche di sistemi misti: un voto in seggi per chi risiede nelle città sede dei Consolati e voto per corrispondenza con opzione per chi abita lontano… È una soluzione da studiare.
Come è anche da studiare il voto elettronico. Potrebbe essere un’alternativa, ma non sono certo che ci sia ancora il 100% di sicurezza, la tecnologia è in permanente evoluzione, non la scarterei per un futuro, ma anche qui occorre una iscrizione previa.
E sulle liste degli elettori? Questo non sarebbe anche un problema da affrontare?
Certo. Non possiamo continuare con questo sistema che una persona é iscritta all’AIRE del suo Consolato, va al Consolato e rinnova il passaporto, va al Consolato e inscrive il suo matrimonio e la nascita dei figli, ma non vota perché non risulta nelle liste elettorali del Ministero dell’Interno. Questo non allineamento tra i due registri, potrebbe essere risolto con la pre iscrizione (o “inversione dell’opzione”, come se la voglia chiamare).
20:55 26/09/2018