Taranto – E’ facile dire “turismo”, ma come realizzarlo?
La nave museo più amata
per la rinascita di una città
di Antonio Biella
Dopo cinquant’anni di convivenza con la più pesante delle industrie siderurgiche (il più grande stabilimento d’Europa), la città di Taranto, stanca, avvilita, ammalata, guarda con preoccupazione al proprio futuro e cerca di immaginarlo migliore, e comunque ben diverso dall’attuale.
In primo luogo bisogna confessare che la città dei Due Mari, al suo interno, non fa registrare unità d’intenti. Da una parte ci sono i cosiddetti ambientalisti a tutto tondo, un po’ i talebani pronti ad abbattere a colpi di mazza le ciminiere così come l’Isis fa con i siti archeologici nei territori da loro conquistati: via lo stabilimento, statale o privato che sia, Italsider o Ilva, spegnere tutto, riconvertire tutto. Solo che a spegnere non ci vuole poi molto, ma in quanto a riconvertire, a bonificare, servono soldi, tanti soldi, come un Paese e un’Europa appena appena in uscita da una lunghissima crisi non ne avranno mai nel breve periodo.
Dall’altra parte ci sono quei cittadini (e sono tanti) che dallo stabilimento siderurgico, direttamente o indirettamente, ci mangiano. Sono 12mila dipendenti diretti, ad esempio, ma anche ogni operatore che la mattina alza una saracinesca sperando di vendere prodotti o servizi, o liberi professionisti, eccetera. Negare che l’intera città di Taranto, dopo la chiusura (ormai datata) dei cantieri navali, la ridottissima attività dell’Arsenale militare, l’eliminazione della leva obbligatoria che, tra Marina e Aeronautica, creava un’economia di tutto rispetto, la crisi dei traffici del porto mercantile, e tant’altro; negare – dicevamo – che tutto questo – abbia posto la pur ridotta attività dello stabilimento siderurgico ancora più al centro della vita della città, sarebbe da marziani o in malafede.
Ma anche la siderurgia traballa: sempre più impianti vengono fermati dalla magistratura e la stessa domanda di acciaio è calata sia per la minore richiesta data dalla crisi delle aziende, sia per i nuovi concorrenti asiatici.
Sembrerebbe che, al di là delle scelte dei tarantini, sarà il mercato, la magistratura e chissà cos’altro a disegnare dall’esterno il destino di questa città. Non purtroppo la politica, miope ed assente, che avrebbe dovuto adempiere al suo compito primario: tracciare con anticipo almeno decennale il futuro della comunità amministrata.
In questo futuro, per voci isolate, sparse e non ascoltate, da tempo si parla quasi per slogan di ritorno alle “vocazioni del territorio”. Uno stilema, questo, vuoto come un fiasco senza vino ma ugualmente buono per far fischiare aria al suo interno.
Per carità, di “vocazioni” Taranto ne avrebbe e, con un po’ di sforzo potremmo aggiungerci anche quella del turismo se vogliamo considerare certi entusiastici soggiorni o passaggi di Virgilio, Orazio e altri poeti antichi, o la nobiliare prassi del Gran Tour della gioventù dabbene d’Europa che nel Settecento si muoveva alla ricerca delle radici culturali europee: l’antica Roma e la Magna Grecia.
Già, proprio quelle radici culturali chieste dai Papi Wojtyla e Ratzinger , e ignorate da un’Europa ancora delle vacche.
Le reali vocazioni tarantine sono tutte figlie di madre natura e, a parte un’agricoltura ricca di vigneti, uliveti, agrumeti, col recente boom della sofisticata vinificazione delle nostre ottime cantine, sono tutte date dal mare e delle sue attività.
Le cozze tarantine hanno ancora un nome spendibile nel mondo, a condizione di affrancarle dalla cattiva nomea sparsa autolesionisticamente dai tarantini stessi come di prodotto inquinato dai veleni dell’acciaio. Sembrerebbe, a tal proposito, che il harahiri non sia stato inventato dai giapponesi ma dai nipotini di Archita. Se la pesca tradizionale oggi segna dei limiti di sviluppo, forte è l’attività degli allevamenti di pesce pregiato che andrebbe ancora di più sviluppato, così come si sta facendo con le squisite ostriche.
Ma Taranto è ancor oggi la città della Marina Militare e di una certa Aeronautica, dalle cui caserme e navi sono passate generazioni di italiani; è la città dei Due Mari con la rada di Mar Grande e la “ridotta” del Mar Piccolo, vecchia sede della Base della Flotta; dei bacini, delle officine e di pregevole archeologia industriale dell’Arsenale; dell’Idroscalo della mitiche trasvolate di Italo Balbo coi mastodontici idrovolanti Cant Z. Taranto è la tremenda Notte di Taranto, con le navi bombardate e affondate dal nemico; è il Canale Navigabile col ponte girevole; è il Castello Aragonese, millenaria sentinella; è il Museo archeologico, il più importante della Magna Grecia, giusto per dire che qui civiltà e cultura non sono sconosciute e appartengono a questi luoghi da quell’ottavo secolo avanti Cristo che vide anche il primo solco di Roma.
Tutto questo sproloquio (ma all’amor patrio si può perdonare) per dire che qualunque cittadino del mondo potrebbe aver piacere a visitare una simile città. Ergo, fare turismo.
Ci sono già quattro grandi poli d’attrazione a parte le coste bellissime col mare pulitissimo a nord-ovest come a sud-est della città; le cantine di Manduria, le ceramiche di gGrottaglie, le gravine di Massafra-Ginosa-Latera. I poli d’attrazione tutti cittadini sono il Castello Aragonese, splendidamente restaurato, che racconta la storia bimillenaria della città; il Borgo Antico, già acropoli, un’intera isola rifondata nell’undicesimo secolo con intatto l’impianto medievale; le isole Cheradi, che chiudono la rada; il Martà, ovvero il Museo degli Ori di Taranto, gli stupefacenti monili realizzati con grande raffinatezza per rendere più belle le sempre belle donne tarantine. Poi c’è, come si accennava, la Marina Militare con i suoi 150 anni di storia impersonata sia dall’Arsenale che dalle sue navi. Tra queste, è ferma da anni in banchina, quasi a godersi la pensione sotto il sole e rimirandosi nello specchio di Mar Piccolo, la vecchia nave ammiraglia della flotta italiana, il Vittorio Veneto (ricordate: le navi militari sono sempre al maschile). Da unità regina della flotta, l’incrociatore lanciamissili e portaelicotteri fu “evirato” il 6 giugno 2006 allorquando gli furono tolti gli otturatori dei cannoni e gli sigillarono le bocche da fuoco con tappi di bronzo. Era l’ultimo ammainabandiera col quale la nave andò in disarmo.
Da subito si parlò di trasformarla in nave museo. Sarebbero venuti da ogni parte d’Italia le decine di migliaia di ex marinai, sottufficiali e ufficiali che avevano navigato sulla “550”, questo il suo numero di codice. Ma non solo i marinai, tutta l’Italia vorrebbe visitarla visto che l’incrociatore porta il nome di un’altra gloriosa unità dell’ultimo conflitto mondiale, e quel nome deriva dall’unica vittoria italiana, quella del 1918, strappata proprio in quella località veneta in quel 4 novembre che da allora festeggiamo. Ma bisognerebbe bonificare la nave da un bel po’ di amianto e servirebbero un pò di quattrini. E, “ovviamente”, la Marina non ha soldi, la Regione non ha soldi , il Governo pure, ecc. E allora? Fonderla nell’ultimo altoforno e farne lamette da barba? Oppure accontentarsi della promessa di un sommergibile-museo, l’ “Attilio Bagnolini”? Ma che turismo può attirare un semplice sommergibile? Ben venga il sommergibile, ma i tarantini mostrino per una volta di saper combattere per la propria città e imporre la propria volontà prima ai politici locali e poi a quelli di Roma. Non fosse altro come risarcimento di tutti i morti di cancro che Taranto ha dato per tenersi in seno una industria strategica per l’intera nazione.
L’ammiraglio di sq. Paolo La Rosa, allora capo di stato maggiore della Marina, il giorno dell’ultimo ammainabandiera disse: <Il Vittorio Veneto vivrà in tutti noi che, , quando da un’altra nave ne scorgevamo all’orizzonte l’inconfondibile sagoma provavamo un senso di ammirazione, rispetto e orgoglio>.
Né noi, né i nostri figli potranno provare “ammirazione, rispetto e orgoglio” per un pacchetto di lamette: il Vittorio Veneto deve vivere tra noi come nave-museo per aiutare Taranto nella sua rinascita e per continuare ad essere quell’orgoglio dell’ingegneria e tecnologia navale italiana come il mondo l’ha conosciuto.