Omosessualità  e celibato. Galimberti risponde a Miriam Della Croce

Omosessualità e celibato. Galimberti risponde a Miriam Della Croce

Il filosofo Umberto Galimberti ha pubblicato su D. La Repubblica del 31 ottobre, la mia lettera “Monsignor Charamsa, l’omosessualità, il celibato, e la Chiesa”. Trascrivo la mia lettera e alcuni passi della interessante risposta.

Monsignor Charamsa, l’omosessualità, il celibato, e la Chiesa

L’amore e sicuramente la sofferenza ha spinto il teologo Krzysztof Charamsa a dichiarare pubblicamente la propria omosessualità. L’amore e sicuramente la sofferenza o se non altro la consapevolezza della sofferenza di tanti innocenti nel passato e nel presente, ha indotto il sacerdote polacco a denunciare due gravi errori della Chiesa: la pretesa che gli omosessuali rinuncino per tutta la vita all’esercizio della sessualità (n. 2359 del Catechismo), e l’obbligo del celibato per i sacerdoti. Il versetto del vangelo che parla del celibato è il seguente: «Vi sono infatti eunuchi che nacquero così dal seno della madre, e vi sono eunuchi che furono resi tali dagli uomini, e vi sono eunuchi che si resero tali da sé per il regno dei cieli. Chi può comprendere, comprenda» (Mt 19,12). La Chiesa cattolica “ha compreso” che per i presbiteri, la rinuncia al matrimonio non debba essere una scelta, ma un obbligo. Le Chiese orientali “hanno compreso” invece che uomini sposati possono essere ordinati sacerdoti, ma non vescovi. Nel giudaismo, in base al precetto divino espresso in Genesi 1,28 («crescete e moltiplicatevi»), era sentito come un dovere religioso che l’uomo prendesse moglie; una sentenza rabbinica del secolo I d.C. dice: «Colui che non si preoccupa di avere una discendenza, è come colui che commette omicidio». Al n. 15 del Catechismo della Chiesa Cattolica: “I consigli evangelici, nella loro molteplicità, sono proposti ad ogni discepolo di Cristo. La perfezione della carità, alla quale tutti i fedeli sono chiamati, comporta per coloro che liberamente accolgono la vocazione alla vita consacrata, l’obbligo di praticare la castità del celibato, la povertà e l’obbedienza”. L’errore sta nel fatto di trasformare tranquillamente, arbitrariamente, i “consigli evangelici”, in obblighi evangelici.

Miriam Della Croce

Parte della risposta di Galimberti

La chiesa antica non condannava l’omosessualità. Solo dall’800, sotto la spinta del materialismo della scienza, i precetti della condotta sessuale hanno perso di vista il primato dell’amore.

I Vangeli sono stati scritti nel I secolo d.C. e fino al Concilio Lateranense III del 1179, l’omosessualità non era considerato un problema che meritasse una particolare discussione, tanto è vero che Anselmo d’Aosta (1033 – 1109), filosofo, teologo, abate e arcivescovo di Canterbury, poi elevato agli onori degli altari, poteva avere relazioni amorose prima con Lanfranco, poi con una serie di suoi allievi, a uno dei quali, Gilberto dedica un intero epistolario dove tra l'altro leggiamo: “Amato amante, dovunque tu vada il mio amore ti segue, dovunque io resti il mio desiderio ti abbraccia. E nulla potrebbe placare la mia anima finché tu non torni, mia latra metà separata” (Epistulae 1,75). Fu solo nell’800, con la nascita della medicina scientifica, che con gli occhi puntati alla fisiologia e alla patologia dei corpi si stabilì che, siccome gli organi sessuali sono deputati alla riproduzione, ogni rapporto sessuale al di fuori del rapporto tra maschio e femmina, è patologico. E così il “peccato” divenne “malattia”. Concetto ribadito dalla psicanalisi che, dopo avere indicato nel superamento del complesso edipico il giusto “verso” dello sviluppo psichico, rubricò l’omosessualità tra le “per – versioni”. E’ triste assai assistere al fatto che la Chiesa, la quale non di rado confligge con le posizioni di volta in volta assunte da sapere medico e psicoanalitico, ceda alla loro visione materialistica, e misconosca, proprio lei, lo “spirito” che, anche nelle relazioni omosessuali, si manifesta innanzi tutto nell’affettività e nell’amore, e solo dopo anche nel sesso. Di questo appiattimento soffrono anche gli Stati che non riconoscono le unioni omosessuali, dimenticando il monito di Platone che nel Simposio (182 d) scrive: “Ovunque è stabilito che riprovevole essere coinvolti in una relazione omosessuale, ciò è dovuto a difetti dei legislatori, a dispotismo da parte dei governanti e viltà da parte dei governati”

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