Formazione e disoccupazione giovanile in Italia e in Svizzera

Nel corso della visita di Stato di questi giorni del presidente francese Hollande, la folta delegazione che l’accompagna sta dimostrando grande interesse al sistema di formazione professionale svizzero. La Francia, che ha un tasso di disoccupazione giovanile molto inferiore a quello dell’Italia, intende ridurlo investendo nella formazione professionale. L’Italia, con una disoccupazione giovanile, soprattutto nel Mezzogiorno, quasi da record a livello europeo sembra sottovalutarne la gravità. Mi meraviglia soprattutto che un governo dalle smisurate ambizioni come quello di Renzi non faccia nulla per aggredire alla radice il male che rischia di compromettere il futuro di un’intera generazione di giovani.
So benissimo che nel breve periodo è quasi impossibile raggiungere i tassi di due dei Paesi più virtuosi europei, la Germania e la Svizzera (attorno al 7,5%), ma bisognerebbe almeno proporsi di raggiungerli in un orizzonte temporale di medio periodo, investendo soprattutto nella formazione professionale. Invece niente, a meno che i guru dell’attuale governo non abbiano ritenuto sufficienti gli incentivi europei all’occupazione giovanile (la cosiddetta «garanzia giovani») e il disegno di legge di riforma della scuola, approdato da poco in Parlamento.
Non occorre essere statistici o studiosi del settore per rendersi conto che c’è una relazione molto stretta tra disoccupazione e formazione e che i rischi della disoccupazione sono tanto maggiori quanto più basso è il livello di formazione o quanto più inadeguata è la formazione professionale. Se la disoccupazione giovanile sopra il 25% diventa cronica (e la percentuale dei giovani senza lavoro in Italia è sopra il 40%) i rischi per il futuro dei diretti interessati ma anche del Paese sono enormi.
Formazione professionale in Germania e in Svizzera
Di fronte alla gravità del problema, non riesco a capire perché Matteo Renzi e il suo governo non abbiano ancora nemmeno avviato una impostato un’autentica riforma della formazione dei giovani.
Credo che l’Italia dovrebbe prendere esempio dai Paesi in cui la disoccupazione giovanile è entro limiti «fisiologici» accettabili (ossia da 1,5 a 2 volte superiore a quello della disoccupazione generale). A ben vedere, in questi Paesi, specialmente Germania e Svizzera, la formazione professionale è molto sviluppata e non a caso il numero dei giovani senza lavoro (o che non studiano) è più ridotto che in Paesi, dove questa preparazione manca o è carente.
Osservando più da vicino la situazione svizzera, che sta suscitando tanto interesse in Francia, non c’è dubbio che la disoccupazione in generale e quella giovanile in particolare è molto contenuta nel confronto internazionale proprio grazie a un sistema consolidato di formazione professionale che accompagna i giovani dal termine della scuola dell’obbligo al primo impiego e li segue anche dopo con la formazione continua sempre più generalizzata.
Per comprendere meglio il sistema di formazione professionale svizzero bisogna ricordare che è di tipo duale, ossia teorico (in una scuola professionale) e pratico (presso un’azienda), e fornisce a due giovani su tre una solida preparazione teorica e pratica corrispondente alle esigenze del mondo del lavoro. L’efficacia di un tale sistema non si esaurisce con l’acquisizione di un diploma o un certificato di capacità e l’avvio (quasi) immediato al lavoro, ma continua anche in seguito durante tutta la vita lavorativa. La formazione professionale costituisce infatti una solida base per ulteriori perfezionamenti o specializzazioni fino ai massimi livelli della ricerca (soprattutto nei politecnici) e della professionalità (nelle aziende) e per la formazione permanente.
Un Paese come la Svizzera, privo di materie prime, deve puntare necessariamente sull’alta qualificazione delle risorse umane a tutti i livelli per garantire la sostenibilità e la competitività del proprio sistema produttivo e il grado di benessere raggiunto.
Per queste ragioni, tanto l’economia pubblica e privata quanto i poteri pubblici (Confederazione e Cantoni) attribuiscono grande importanza e i finanziamenti necessari alla formazione professionale. La Confederazione, ad esempio, ne ha fatto un apposito obiettivo quantificabile del programma di governo: «il sistema di formazione professionale duale contribuisce a mantenere basso il tasso di disoccupazione giovanile nel confronto internazionale». In particolare, il governo si propone di sostenere «la formazione di giovani leve in ambiti specialistici altamente qualificati della scienza e dell’economia» e di migliorare «l’attitudine dei giovani alla formazione e all’impiego».
Insufficienza formativa
L’Italia dovrebbe investire molto di più nella formazione dei giovani e nella formazione professionale in particolare, non solo per superare il disagio giovanile di un’intera generazione senza lavoro e senza prospettive, ma anche per dare alla scuola, alla ricerca, all’economia la competitività e la sostenibilità di cui hanno bisogno. Proprio per questo meraviglia che un governo dalle smisurate ambizioni come quello di Renzi non faccia nulla per aggredire alla radice l’insufficienza formativa del sistema Italia.
Sono note dalle classifiche internazionali le scarse prestazioni degli alunni italiani della scuola dell’obbligo; il sistema scolastico italiano è bocciato dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE); il sistema universitario italiano non riesce a piazzare un ateneo tra i primi 100 al mondo (la Svizzera ne piazza ben quattro); la ricerca scientifica è insufficiente nonostante alcuni centri di eccellenza.
I rimedi finora proposti dal governo Renzi (e dai precedenti governi) sono dei palliativi, non misure risolutive. La scuola avrebbe bisogno di una profonda riforma strutturale (e non solo di facciata) per diventare competitiva a livello europeo. Invece il disegno di legge presentato recentemente dal governo è illusorio a cominciare dal titolo: «disegno di legge sulla buona scuola». E illusoria è la presentazione che ne hanno fatto il presidente Renzi e la ministra dell'istruzione, dell'università e della ricerca Stefania Giannini, come pure il senatore del Pd Andrea Marcussi, presidente della Commissione Cultura del Senato, parlando del disegno di legge come di una svolta, anzi una «rivoluzione». Per rendersi conto di quanto invece sia mediocre basterebbe leggere sul Corriere della Sera il commento ragionato di Ernesto Galli della Loggia, intitolato «La scuola cattiva è questa». Chi vuole può facilmente ritrovarlo in Internet.
Mancanza di volontà politica
Per realizzare in Italia una «buona scuola» occorrerebbe, fra l’altro, investire nel sistema scolastico molte più risorse di quelle assegnate attualmente, che sono sotto la media dei Paesi dell’OCSE. Una «buona scuola» sarebbe, inoltre, quella che «forma» mentalmente e culturalmente i cittadini di domani, ma anche quella che prepara adeguatamente i lavoratori di domani, in grado cioè di essere facilmente assorbiti, senza sussidi, dall’economia.
Non credo che porre mano a una seria riforma della formazione in Italia sia un’impresa impossibile e proprio per questo bisognerebbe non perdere altro tempo per avviarla, ma dubito che la classe politica attuale sia all’altezza del compito.
Giovanni Longu
Berna, 15.4.2015

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