Sul Corriere della Sera del 25 aprile 2014, Simona Marchetti scriveva: “Crescere in una famiglia «tradizionale», ovvero composta da due genitori – che siano biologici o uno dei due acquisito per successivo matrimonio di quello biologico – non è affatto garanzia di felicità per un bambino. Che, al contrario, può essere ugualmente sereno e sentirsi amato anche in un contesto monogenitoriale. A ribaltare quella che ormai è una radicata (ma non per questo corretta) convinzione popolare è un’indagine, svolta dall’Istituto di ricerche britannico NatCen e che, analizzando i dati del “Millennium Cohort Study”, progetto multidisciplinare che nel 2008 ha interessato quasi 12.300 bambini di sette anni (ovvero, nati nel Regno Unito fra il 2000 e il 2001), ha permesso di concludere come non sia la composizione della famiglia ad incidere sul benessere e il desiderio di stabilità di un bambino, bensì la qualità della relazione che il minore vive all’interno del suo nucleo familiare. Un risultato di cui troviamo riscontro su “The Independent” e che trova d’accordo anche Anna Rezzara, docente di pedagogia dell’Università Bicocca di Milano. «Per essere felice, un bambino ha bisogno di sentirsi sicuro e protetto, di essere libero di esprimersi e di sperimentare, come pure di instaurare relazioni significative con adulti e coetanei. Tradizionalmente, siamo portati a pensare che tale funzioni vengano assunte da un papà e da una mamma insieme, ma l’epoca in cui viviamo ha reso queste divisioni di ruoli molto più sfumate ed articolate e, di conseguenza, la felicità di un bambino è legata alla percezioni che lui ha di questi suoi bisogni, o meglio all’esaudimento degli stessi. Ecco perché non è detto che la famiglia nel senso classico del termine sia la garanzia unica di felicità, perché quello che conta realmente è la capacità di comunicazione fra l’adulto e il bambino e soprattutto la presenza del primo nella vita del secondo»”.
Su Wikipedia si legge: “Numerosi studi condotti dall'American Psychological Association, American Psychiatric Association, American Academy of Pediatrics e altri gruppi non hanno evidenziato alcuna differenza, neppure minima, negli effetti dell'omogenitorialità rispetto alla genitorialità eterosessuale, neppure con riferimento alle dinamiche interne alla coppia dopo l'arrivo dei figli”.
Tutti persuasi? No, perché bisogna tener conto del parere (non studi, non indagini, non ricerche) dello psicoterapeuta Claudio Risé: “Non è vero che i figli senza padre stanno benissimo, gli studi in proposito affrontano archi temporali brevi, sono organizzati su base volontaristica e non sono attendibili”. Così, su “Io Donna” del Corriere della Sera (ma guarda un po’) di sabato 11 aprile 2015.
E adesso che facciamo? Chi glielo va a dire ai milioni di bambini nel mondo privi del padre, che non stanno benissimo giacché privi del padre? Chi glielo va a dire che sono più sfortunati dei milioni di bambini nel mondo che stanno benissimo, giacché hanno un padre? Ma anche se si riuscisse a dimostrare che i figli senza padre non stanno benissimo, o che stanno malissimo o benino o maluccio, studiosi, psicologi, psicoterapeuti, sociologi, quale sarebbe, di grazia, il rimedio? Gli regaliamo un papà? Impediamo alle donne di mettere al mondo figli senza la sicurezza di un padre fino a che non siano adulti? Sì, perché può sempre capitare una disgrazia.
Renato Pierri