L’orrore continua e dopo la barbara uccisione di James Foley, il 19 agosto, ieri lo stesso gruppo terroristico ha sgozzato Steven Sotloff, l’altro giornalista americano, con un altro video shock diffuso dal sito di intelligence Site.
Per cercare di salvare il figlio la famiglia Sotloff aveva implorato Obama ed il 27 scorso la madre si era rivolta anche al capo dell’Isis, Abu Bakr al Baghdadi, pregandolo di liberarlo, perché era “un giornalista innocente che ha viaggiato molto nel Medio Oriente per parlare delle sofferenze dei musulmani sotto il gioco dei tiranni”.
Un appello rimasto inascoltato ed una vita stroncata con violenza spettacolare da fanitici che, come è ormai certo, vengono da Occidente.
Altri 17 giornalisti, intanto, sono morti nei 50 giorni dell’operazione “Margine protettivo”, l’offensiva di Israelere, a Gaza con il Sindacato dei Giornalisti Palestinesi (PJS), affiliato alla Federazione Internazionale dei Giornalisti, che ha fatto appello per l’apertura di una commissione d’inchiesta indipendente sulla morte degli operatori stampa.
Morire per dare umana notizia, per documentare un fratto è una insesatezza che fa parte del mestiere
Ma questo non toglie nulla alla gravità di un uomo che decapita un altro uomo e all’orrore di tutte le guerre che mai, per nessun motivo, sono giuste.
“Cercando la morte dell’ultimo poeta/solo per trovare l’assassino dentro me/ affilando gli strumenti dell’ignoranza sui ricordi “di atti mai dimenticati di gentilezza in parole e fatti/, idee impossibili da comprendere”, scrive Abel Ferrara a commento del suo film su Pasolini presentato in concorso ieri a Venezia, con un William da Foe che sembra davvero “l’usignolo di Casarsa” che aveva compreso la ferocia che si nasconde dentro ciascuno.
Come ha scritto un anno fa su il Fatto Quotidiano Domenico Walter Rizzo e come mostra in questo film Abel Ferrara, servito da William Dafoe davvero ispirato, Psolini è stato fisicamente ucciso da sicari prezzolati, ma è stato massacrato dall’infamia di un Paese senza pietà e, potrtemmo oggi dire, da una umanità senza pietà.
Con “Qualcosa di scritto”, Emanuele Trevi ha tentato di porre luce sul concetto di “iniziazione”, un concetto che in Pasolini si carica di attributi misterici così radicati da renderne impossibile la semplice identificazione, lasciando libero spazio alle interpretazioni più degradanti che, come uno specchio prismartico in cui possiamo rifletterci, ci fa vedere quali orrori si celano dietro alle icone costruite e fatte di purezza e/o impegno.
Sostenega Trevi in quel saggio-romanzo, criticato da Carla Benedetti e Walter Siti, ma vincitore dello Strega, che per analizzare Pasolini si deve impiegare il dispositivo di specchio che riesce a valere quanto più si cerca di eliminare il proprio sguardo, ossia quando si cerca di leggere l’opera di Pasolini nel mondo più clinico possibile, virando verso il documentale.
E questo è riuscito a Abel Ferrara che ha descritto un personaggio doloroso e una dolorosa terra di conquista, padre nobile delle sinistre e delle destre, sempre frainteso, perché sempre troppo avanti.
Ha ragione Nanni Delbecchi che su il Fatto quotidiano traccia un parallelo fra lui e Leopardi (a Venezia col film di Martone, apprezzato dai nostri critici e meno dagli stranieri), scrivendo che i due poeti sono accumunati da una melanconia raziocinante e da un impegno della volontà che li portò a guardare l’uomo per quel misto di angelicità ed orrore che lo compone.
Il Pasolini descritto da Ferrara è quello ultimo degli “Scitti corsari”, di Petrolio, della intervista celebre a Furio Colombo e dalla abiura della trilogia della vita, perché ormai disperatamente certo che la malvagità umana è un pozzo di democrito ed un labirinto senza via d’uscita.
E questo perché si sono perse, progressivamente, radici ed identità, per acquisire un amorale comportamento globale, fatto di violenza e di sopraffazione.
Come disse Moravia al suo funerale, Pasolini fu probabilmente l’ultimo grande poeta (e profeta) italiano e Franco Ricordi, nel suo saggio “Pasolini filosofo della libertà” (Mimesis, 2012), lo avvicina a Dante, Foscolo e, appunto, Leopardi.
Non possiamo non pensare, guardando alla nostra realtà di oggi, pensando agli affabulatori di adesso, a Renzi a Grillo e, appena ieri, a Berlusconi, al senso che Pasolini diede alla “Parola”, un senso è che è quello Heidegger, della Arendt e di Gunther Anders, che distingue in maniera categorica la diversità dell’essere dall’omologazione dell’apparire nella nostra epoca, un “dramma”, delle logiche banalizzanti dello spettacolo che non teme di allargarsi al tessuto intero della globalizzazionem e che è orrifico solo quando lo sgozamento è mostrato e la decapitazione documentata in diretta, parte di una trama omicida fatta di merci compensative, atomi slacciati e insulsi di una pseudo-conoscenza invasiva.
Lo stesso Pasolini disse, in un’opera che sfugge alla sua bibliografia ufficiale: la “Divina Mimesis”, che “l’assenza di significato è già significato”, ovvero: i dispositivi nullificanti del potere sono quelli più devastanti poiché ci privano della parola, della comunicazione e di quell’operazione fenomenologicamente primaria del dare senso alle cose e alle relazioni.
E intuì, con un anticipo formidabile, che vomitare parole senza senso e spettacolizzare la morte, avrebbero completato questa opera di annientamento.
Nel bioptic di Ferrara Pasolini-Dafoe si muove in una Roma piena di luci ed ombre, che metaforizza il mondo e l’umanità alla deriva, con l’uynico edonistico desiderio della affermezione di sé. Il film, che ricostruisce l’ultimo giorno di Pasolini, fino alla sua morte-simbolo all’Idroscalo, 40 anni fa, vede come altri interpreti Riccardo Scamarcio, nel ruolo di Ninetto Davoli, Valerio Mastandrea che interpreta il cugino e biografo Nico Naldini, Maria de Medeiros, che è Laura Betti, Giada Colagrande, la cugina del poeta Graziella Chiarcossi, che prima di sposarsi con Vincenzo Cerami, viveva con lo scrittore e sua madre, interpretata da Adriana Asti.
A pensarci ora sono pasoliniani i contenuti profondi di due dei tre film italiani in concorso: “Anime nere” dall’omonimo libro di Gioacchino Criaco, che si muove come le tragedie greche che Paosolini amavba, e “Hungry Hearts”, del giovane (39 anni) e già bravissimo Saverio Costanzo, una apparente love story iper contemporaea, girata a New York in inglese, con Alba Rohrwacher che si innamora di Adam Driver e quando resta incinta, si convince di aspettare “un bambino indaco” che non può mangiare carne (dieta vegana strettissima), essere esposto alla luce e alla preenza fisica di altri che non siano i genitori, metafora di un mondo disumano in cui l’innocenza è estraena o rischia di essere rapidamente uccisa.
Forza Italia è ricorsa alla magistratura per chiedere il sequestro del film “Belluscone – Una storia siciliana” di Franco Maresco, che, nonostante le polemiche per l’immagine negativa dell’ex premier Silvio Berlusconi, ha raccolto applausi a scena aperta alla Mostra del Cinema, inserito nella sezione Orizzonti.
E anche qui fa capolino Pasolini, la sua stessa amarezza cupa, eppure ironica e grottesca, ed anche nel ploto che vede la storia (o la scusa) di un film mai finito per una serie di sfortune, con il pretesto di Tatti Sanguineti che attraversa Palermo alla ricerca di Maresco “scomparso”, che riappare sotto forma di tanto materiale girato.
Sembra di vedee, i immasgini, la stesura frammentaria di “Petrolio”, mentre si ricostruisce la storia d'amore tra Berlusconi e la Sicilia, usando le feste di piazza nei quartieri popolari come il Brancaccio e l'adesione totale a FI dei cantanti neomelodici, dovrebbe comunque alleviare la depressione.