Riforma del Senato

Seguo, dall’estero, con interesse e stupore la discussione nei media italiani sulla riforma del Senato. Mi colpisce soprattutto la confusione. Solo poche settimane fa sembrava che da parte del governo lo si volesse abolire, poi il tiro è stato corretto dicendo che non sarà abolito ma solo svuotato degli attuali poteri. Si parla di una «riforma radicale» del Senato, ma senza dire come sarà e a che cosa dovrebbe servire. Senza poteri, ha osservato più d’uno, tanto varrebbe abolirlo del tutto. Meglio no, hanno risposto in tanti, ma senza precisarne la nuova natura, la sua composizione, i reali poteri. In molti s’interrogano se davvero, almeno in questa legislatura, si arriverà mai a una riforma «radicale» del Senato.
Discussione confusa
Parte della confusione sembra nascere dalla premessa indimostrabile, secondo cui il «bicameralismo perfetto» (Senato e Camera con gli stessi poteri) nuoce alla governabilità e alla legislatura (nell’accezione di fare le leggi). Politici (Letta e Renzi compresi) ed esimi costituzionalisti (uno per tutti Michele Ainis) pensano che esista solo in Italia, una vera iattura, ignorando che il «bicameralismo perfetto» esiste, ad esempio, in un Paese vicinissimo all’Italia, la Svizzera, dove nessuno pensa di abolirlo. Se in Italia non funziona, prima di abolirlo bisognerebbe chiedersi perché e cercare eventuali rimedi per correggerne le disfunzioni.
Gran parte della confusione deriva invece, a mio parere, dal metodo utilizzato: si discute più sulla forma del futuro Senato che sui contenuti. Si sono creati fronti contrapposti tra chi vorrebbe ancora un organismo elettivo e chi, invece, solo un’assemblea di designati in rappresentanza degli enti territoriali, con una forte componente di nominati dal Capo dello Stato. Ma del sistema di elezione o dei criteri di designazione nessuno è in grado di fornire indicazioni precise. Anche sul numero dei membri c’è discordia, per non parlare della loro rappresentanza e responsabilità, del loro finanziamento, ecc.
Dei contenuti del nuovo Senato finora si parla solo in termini molto generici e per lo più in forma negativa. Una delle affermazioni più frequenti è quella che definisce la futura assemblea come «Senato delle autonomie». In realtà queste «autonomie» non sono ancora ben definite , tant’è che nella discussione si parla indifferentemente di Regioni (e le Regioni a statuto speciale?), Macroregioni, Province (le stesse che si vorrebbe abolire e in via di smantellamento), Grandi Città, Città metropolitane, Comuni.
Poteri o consigli?
Dei poteri del futuro Senato si dice, in negativo, che non avrà più gli stessi poteri della Camera dei deputati, che non avrà più né il potere legislativo, né il potere di controllo (voto di fiducia) sul Governo e non dovrà più approvare il bilancio dello Stato. Nessuno è in grado di spiegare quali poteri autoritativi potrebbe ancora avere soprattutto nel caso che fosse composto di membri non eletti ma designati. Il nuovo Senato sarà ancora una componente del Parlamento (Parte II Titolo I della Costituzione) o una sorta di assemblea consultiva per dispensare pareri e consigli?
Il colmo di questa strana discussione sui poteri o non poteri del nuovo Senato è che proprio tra i sostenitori di un Senato per così dire «leggero» e sostanzialmente depotenziato ci sono parecchi parlamentari che fanno affidamento proprio sui senatori per correggere presunte anomalie del decreto lavoro approvato alla Camera, della legge elettorale e naturalmente per la riforma del Senato.
Mi sembra un buon segnale, perché diversamente verrebbe da pensare che, un domani, con una sola Camera, si potrebbe arrivare facilmente a una sorta di dittatura della maggioranza, costituita dal partito uscito vincitore dalle elezioni. Una tale maggioranza condizionerebbe non solo l’attività legislativa, ma anche l’esecutivo, l’elezione del Presidente della Repubblica e la stessa composizione della Corte costituzionale. In altre parole non esisterebbero contrappesi allo strapotere del partito di maggioranza, soprattutto se dovesse sottostare al principio del pensiero unico.
Perché non un’assemblea costituente?
Probabilmente le disfunzioni del «bicameralismo perfetto» si potrebbero risolvere diversificando (non depotenziando) le funzioni delle due Camere, riducendo drasticamente il numero dei componenti, modificando i regolamenti interni. Inutile perdere tempo a litigare sulla forma di elezione o nomina dei senatori. Se dovranno rappresentare le istituzioni (o entità) territoriali, è bene che siano esse stesse a scegliere la forma di elezione, purché di elezione mirata si tratti.
Di fronte a tali incertezze e confusioni, mi viene un dubbio, concernente sia il metodo di discussione e sia la sostanza, ossia che le vere riforme non si vogliano nemmeno avviare in questa legislatura, da questa strana maggioranza e da questo strano governo (dal punto di vista delle legittimazione popolare). Tanto varrebbe eleggere un’apposita assemblea costituente, che proponga entro un anno la riforma dell’architettura dello Stato e, in particolare, l’organizzazione territoriale (in senso federalistico basato sulla sussidiarietà e sulla solidarietà), l’organizzazione del potere legislativo (bicameralismo funzionale), l’organizzazione dell’esecutivo (tipo sistema presidenzialista o cancellierato) e l’organizzazione della magistratura.
Diversamente si corre il rischio di perdere tempo, di approvare mezze riforme in gran parte inutili e rinviare ulteriormente le vere riforme utili all’Italia.
Giovanni Longu
Berna, 5.5.2014

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