TEORIA E PRATICA

L’art. 4 della nostra Costituzione recita: ” La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto di lavorare e promuove condizioni che rendono effettivo questo diritto”. Analizziamo, per un momento il fondamentale principio costituzionale. In esso compare il principio del ”diritto” e delle “condizioni” atte alla sua concretizzazione. Ora, a ben osservare, non basta questo dettato per garantire a tutti quello che, effettivamente, consideriamo un “diritto” dal quale s’evincono anche specifici “doveri”. Però, senza lavoro, diritti e doveri s’elidono e non rimane nulla per vivere decorosamente nel Bel Paese. In questo 2014, nato male, è difficile azzardare previsioni sul fronte occupazionale. Per noi restano assai poche, se non nulle. Come a scrivere che, per il caso prospettato, non è assolutamente possibile allineare la “teoria” con la “pratica”. Di fatto, il lavoro non c’è o, meglio, non c’è per tutti. Una mancanza perniciosa che ci portiamo appresso come un fardello sempre più pesante. In tanto squallore, forse, qualche distinguo è ipotizzabile. Intanto, c’è da tener conto dell’età dell’aspirante ad un’occupazione. Poi, si dovrebbe prendere in esame il tipo di lavoro che il nostro mercato richiede. In ultimo, solo per motivi d’elencazione, resta la prospettiva di chi non ha lavorato mai e di chi il lavoro lo ha perduto. Le due realtà, a ben ragionare, non sono la stessa cosa e, di conseguenza, rispecchiano situazioni assai differenti. Chi non ha mai trovato un’occupazione è, solitamente, un giovane ( età massima 30 anni). Chi lo ha perduto è un adulto; spesso con famiglia e mutuo immobiliare a carico. Insomma, da un lato c’è il giovane che “sopravvive”, dall’altro c’è l’adulto che “soccombe”. Del resto il concetto “vado a vivere da solo”, tanto in voga negli anni ’80, oggi non è più neppure ipotizzabile. La famiglia, per necessità, si è allargata e i figli preferiscono non rischiare di perdere il sicuro per l’incerto. Oggi sono i pensionati di ieri a supportare quelli che sperano di maturare una pensione domani. Lo spazio generazionale si è ampliato come, del resto, la necessità di continuare, ove possibile, l’attività lavorativa. A questo livello, i contrasti politici non hanno pregio e, spesso, costituiscono una delle concause che hanno determinato il decremento occupazionale. La stessa “qualità” del lavoro sarebbe da rivedere. Soprattutto nella sostanza. Da noi il numero dei diplomati e laureati è sempre più elevato. Tanto da farci ipotizzare una sorta di “limbo” per i titolati che, però, non sono in grado di panificare o coltivare un campo. Nel Bel Paese le apparenze, a tutt’oggi, contano di più della sostanza. Ne consegue che la mancanza di lavoro, pur se a differenti livelli, resta una piaga tipicamente nazionale che non ha parametri di paragone col resto dell’UE. Non a caso, sono le maestranze molto specializzate a lasciare la Penisola e le attività intermedie sono occupate da cittadini extracomunitari che hanno saputo utilizzare al meglio quello che il nostro mercato ancora offre. Quando, poi, sono i politici a farsi carico del problema, la situazione precipita. Com’è, purtroppo, capitato. Il rapporto tra chi offre lavoro e chi lo chiede non può basarsi unicamente su normative che non tengono conto di un mercato nel quale la concorrenza è tanto più spietata quanto maggiore è il divario tra “richiesta” ed “offerta”. Per investire in futuro sono necessari economisti che non abbiamo, servirebbero diversi rapporti tra chi investe e chi non è nelle condizioni di poterlo fare. Per garantire un’effettiva svolta sul fronte del lavoro, si dovrebbe smettere di fare demagogia e verificare, con molta umiltà, la serie d’errori che hanno preceduto la crisi e provare a correggerli. Se non si parte dall’origine del “male”, il divario occupazionale italiano s’andrà ad incrementare. Chi non vuole intendere che tra teoria e pratica c’è la necessità di un “ponte” di programma è perdente in partenza. Politici per primi.

Giorgio Brignola

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