Mondello premia, L’Aquila dimentica

E’ andato a “Geologia di un padre” di Valerio Magrelli (Ed. Einaudi) il SuperMondello 2013, riconoscimento assegnato nell’ambito del Premio Internazionale Mondello, promosso dalla Fondazione Sicilia, dal Salone del Libro di Torino e dalla Fondazione Andrea Biondo, a uno dei tre autori già vincitori del Premio Opera Italiana, segnalati la primavera scorsa (gli altri sono Walter Siti, con “Resistere con serve a niente” e Andrea Canobbio, con “Tre anni luce”).
La consegna lo scorso 17 novembre, nel corso di una cerimonia svoltasi presso la Società italiana per la storia patria di piazza San Domenico a Palermo, che ha chiuso la 39esima edizione, durante la quale è stato anche assegnato il “Mondello junior”, conferito da una giuria di 120 studenti liceali.
Alla cerimonia hanno preso parte i tre finalisti, invitati a turno sul palco, Maurizio Bettini, vincitore del premio Mondello Critica con il saggio “Vertere” e la giornalista calabrese Marina Valensise, che col romanzo “Il sole sorge a sud” ha vinto la sezione speciale Narrativa di Viaggio.
Infine, dopo che l’attore Antonio Raffaele Addamo ha letto un brano da ogni libro vincitore, la scrittrice Melania Mazzucco è stata chiamata, in qualità di Giudice Monocratico, a individuare il vincitore del Premio Autore Straniero , che quest’anno è andato a Péter Esterházy, a cui verrà consegnato durante Il Salone Internazionale del libro, in occasione dell’incontro aperto al pubblico: ‘Melania Mazzucco conversa con il suo Maestro, previsto il 16 maggio del prossimo anno.
Chi scrive, segnalato dalla Libreria Colacchi de L’Aquila, ha fatto parte della giuria popolare definita di “lettori forti” (in numero di 240), designati da 24 libreria in tutta Italia.
“Geologia di un padre“, l’opera vincitrice, raccoglie i foglietti accumulati intorno a una figura che appare ora intima ora estranea, seguendo le tracce concrete di quella che a lungo può sembrare una funzione astratta e remota da ogni fisicità, fin quando, un giorno, lo specchio rivela nel volto i tratti di una sovrapposizione che non si immaginava.
Personalmente avevo scelto “Tre anni luce” di Andrea Canobbio, romanzo di uno strano, particolarissimo amore fra Cecilia e Claudio, medici nello stesso ospedale, che imparano a parlarsi e a desiderarsi in un tempo cadenzato dalla ritualità dei pranzi, dall'infittirsi di conversazioni e confidenze, da un'attrazione reciproca che, per quanto intensa, non riesce a manifestarsi, come una costellazione non ancora tracciata. Mi era piaciuto il fatto che vederla da fuori la loro storia risultava visibilissima: visibili le cautele che li allontanano – sono un uomo e una donna che vengono da convivenze esaurite e tuttavia non spente, lei accesa da una tormentata maturità di madre, lui protetto da una polvere di timide certezze -, visibile l'amore che li unisce.
Poi, al loro tavolo, siede un giorno la sorella di Cecilia, l'estroversa e generosa Silvia e in un gioco sempre più accelerato di rivelazioni e rincorse, Claudio, Cecilia e Silvia finiscono con l'abitare un triangolo singolare, che fa in modo che l’amore cerchi un'altra strada, capace di aprire un varco fra le scorie del passato, verso l'imprevedibile disegno di un nuovo universo affettivo.
Insomma, un bel romanzo, un insolito racconto e rendiconto sull’amore allargato , dove il cuore è come una fisarmonica che si estende come la dimensione del tempo.
Del romanzo che ha vinto invece, ho apperezzato il sapore a metà fra il rendiconto diaristico ed il saggio introspettivo, con, sulla copertina, un disegno dello stesso padre dio cui si narra, che traccia “La grotta di Polifemo”, come dice la didascalia e racconta un episodio odissiaco, tratto dal nostos fondativo della civiltà europea, dal racconto del ritorno di Ulisse a casa, dove Penelope e Telemaco lo hanno atteso per tanti anni, con un essere gigantesco che divora piccoli umani ed uno sviluppo narrativo che ti porta a chiedere se quel padre entro cui si scava è più Saturno che divora i figlim o Ulisse alla riocerca di un ritorno.
Ne ho amato, particolarmente, il capitolo 48, uno dei più lunghi, particolarmente importante perché si incarica di mettere in dubbio una dichiarazione fatta dall’io scrivente diverse pagine prima, quella sull’indifferenza agli archivi e l’odio per i documenti. La carta moschicida del ricordo, in questo caso (e in molti altri) si è dovuta arrendere a consultare una memoria esterna. Il capitolo, infatti, è composto per la maggior parte di estratti provenienti da studi di storia locale, guide per il viaggiatore, materiale informativo trovato su siti internet; questo supporto documentario è sezionato e alternato a brevi commenti di altro tono, che dovrebbero adeguare il suo nudo tono informativo alla ricerca, molto più affettiva e conoscitiva, che il consultatore si propone di intraprendere. Pofi è in un primo momento affrontata da lontano, e la curiosità con cui Magrelli spulcia le fonti sembra l’altra faccia di un’estrema cautela che confina con il timore. La brevissima epigrafe del capitolo (“Piccola terricciuola è Pofi”) è tratta da un testo ottocentesco, il Viaggio da Roma a Montecassino nuovamente descritto da Alessandro Guidi, pubblicato a Roma da Salviucci nel 1868; mettendo il nomen omen di Guidi e la sua guida in cima al capitolo, Magrelli, a guardare le cose retrospettivamente, sembra voler esporre subito la tonalità di questo. Un viaggio nelle tenebre non si fa saltando nel buio.
Sicché, in questi due romanzi ma anche, per molti versi in quello di Siti, il centro della’impianto è la memoria, memoria per perseguire il desiderio, il sogno, l’illusione che da sempre accompagna noi umani, ossia l’ambizione di soffermarsi nel tempo, di sopravvivere al nullo, sogno perseguito e rincorso nelle allucinazioni e nei desideriche può trovare talvolta soltanto un rispecchiamento concreto laddove la memoria diventa autobiografia e si incontra con la scrittura ed è da essa catturata; dove gli eventi, i volti, i sogni, i desideri sono trattenuti dall’emozione dello scrivere.
Romanzi in cui tutto questo si oppone a ciò che è aleatorio, saltuario, passeggero, effimero come quando il ricordo ripropone alla mente i propri cari, gli eventi, le immagini, i fantasmi del passato, facendo della scrittura un atto di eroismo quotidiano nel tentativo di trattenere il ricordo e lottare contro l’oblio inesorabile, crudele che in realtà si incarica di lasciarci qualcosa.
Mi rattrista allora vedere nella mia città la memoria frantuimarsi dietro a freddi conti da ragioniere ed un patrimonio di sogno e suggestioni che viene da “La città in cinema” e sfocia nell’”Accademia dell’Immagine”, fatto a pezzi da volontà incapaci di comprendere il senso del desiderio di continuare, di lasciare traccia, memoria, ricordo, per non chiudersi in solitudini che incupiscono l’inesorabile trasorrere del tempo, creando devastanti dimenticanze, con una politica che non prende impegni e si perora solo di giustificare se stessa.
Scrivere i propri obiettivi significa prendere un impegno con se stessi. Ci sono persone che li scrivono e poi addirittura li firmano: un rituale d’impegno ancora più stringente. In molte aziende si fa all’interno di un gruppo, di una squadra, legando il gruppo in un contratto psicologico. Alcuni scrivono il proprio obiettivo, ne fanno un sacco di fotocopie e le appendono ovunque, sul computer, in macchina, sul letto, ci tappezzano la casa, facendone un richiamo continuo, per ritornare all’impegno preso anche in eventuali momenti di cedimento.
Per questo ho scritto su fogli che ho sparso ovunque: “resistere per non dimenticare”, per ricordarmi che, come fece il grande storico francese Jacques Le Goff, prendendo le mosse da Sant’ Agostino: “Il nostro presente ha tre dimensioni: il presente del passato, il presente del presente, il presente del futuro” e, pertanto, la consapevolezza del passato e il presentimento del futuro sono compresenti nella nostra coscienza e compongono un dovere morale che ci vieta di cancellare la cultura e le sue espressioni con giudizi ideologici e motivazioni di opportunità, che impedisce da un lato che venta fatta piena luce sugli eventi e dall’altro di conservare quel grado di consapevolezza che ci rende degni della civiltà e del retaggio avuti come lascito e che abbiamo il dovere di trasmettere.
Ieri “Porta a Porta”, in occassione della Giornata Mondiale della Innovazione e della Crescita ha parlato del ritardo tecnologico italiano e della “fuga di cervelli” dovuta certamente a mancanza di investimenti e di prospettive, ma anche di una consapevoleza politica che punti sul patrimonio culturale e vi invesdta risorse invece di tagliare.
Si è detto che per promuovere la crescita occore promuovere la creatività e tutelare le opere dell'ingegno nella loro totalità.
Nel V capitolo del suo celebre Idiota, Dostoevskij si domandava “Quale bellezza salverà il mondo?”, una domanda che al giorno d’oggi risulta puramente retorica e priva di concretezza, nonostante tutto ci dica che siamo una Nazione che si fonda sull’arte e sulla cultura e, nel mondo, il nostro Paese è quello con il maggior numero di siti riconosciuti dall’Unesco (47 su 936); ma questo primato viene solo icordato a fini statistici e mai tenuto davvero nella giusta considerazione per la vera rinascita ed un autentico futuro.

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