Alberto Pasolini Zanelli
Obama forse ha fatto gol al novantesimo minuto, risparmiando all’America una nuova, più triste edizione della paralisi finanziaria federale e cogliendo un faticoso successo sull’opposizione repubblicana, dopo uno scontro sull’orlo dell’abisso. Pare ormai raggiunto un compromesso, non elegante ma essenziale, nato paradossalmente dalla prova di forza fra due strategie che escludevano i compromessi. I repubblicani, o almeno la loro fazione che domina la Camera di Washington, avevano annunciato per mesi e condotto per settimane una strategia del “tutto o niente”, sostanzialmente di boicottaggio. O il presidente ritira una legge, quella che istituisce un sistema sanitario analogo a quello di tutti gli altri Paesi sviluppati del pianeta, già approvata dal Congresso e in cui centinaia di migliaia di cittadini Usa si sono già “arruolati”, o la Camera, dominata dal partito di opposizione, rifiuterà il permesso, di routine, ad alzare la soglia della spesa pubblica e dunque del deficit. Non ci sarà più, non c’è già più, il permesso di spendere un solo dollaro. In altre occasioni la Casa Bianca aveva finito col piegarsi. Questa volta Obama ha giocato anch’egli la carta del “tutto o niente”, sottolineando la sua intransigenza perfino “disertando” il “vertice Asia-Pacifico” a Bali, di cui avrebbe dovuto essere il protagonista, dichiarando che il suo dovere primario era rimanere a Washington a salvare il salvabile. Una decisione che ha incontrato fra l’altro la comprensione e anzi la solidarietà di Vladimir Putin: “Al suo posto farei come lui”.
All’ultimo minuto il piano pare riuscito. I leader del Partito Repubblicano, costretti da Obama in una situazione da Scilla a Cariddi, hanno proposto un summit con il presidente, che è durato metà di una notte e che li ha visti sostanzialmente rinunciare al loro ultimatum, quello di bloccare le finanze federali se Obama non avesse ritirato la sua riforma sanitaria, già approvata dal Congresso. Questa volta l’opposizione ha proposto rinvii e modifiche ma ha in sostanza ritirato il veto. Più che agli argomenti della controparte, pare che essi si siano piegati a un argomento sempre prevalente in una democrazia: le reazioni dell’opinione pubblica. Anticipate, questa volta, dall’atteggiamento dei mercati finanziari di Wall Street, che non hanno dato segni di panico e, subito dopo e soprattutto, dai sondaggi da cui sono chiaramente emersi gli umori degli americani. L’ultimo, pubblicato giovedì, ha mostrato un crollo della popolarità del partito di opposizione, il cui “indice di approvazione” si è quasi dimezzato, scendendo al 24 per cento, il minimo degli ultimi ventuno anni, simile a quello che nel 1992 predisse la mancata rielezione di George H. Bush e il successo di Bill Clinton, ponendo fine all’“era reaganiana”. Il margine è ora di 22 punti in favore dei democratici. Il 50 per cento dei futuri elettori considerava “estremista” l’atteggiamento del Gop, soprattutto alla Camera dominata dai neofiti del Tea Party. Altrettanto indicative le reazioni degli ambienti finanziari tradizionalmente molto vicini ai repubblicani e che stavolta invece hanno fatto pressioni su questi ultimi perché desistessero da una strategia definita “ricattatoria”. Obama ha aggiunto di suo la scelta, dopo mesi e settimane di apparente incertezza, del nuovo capo della Federal Reserve, nominando Janet Yellen, che non solo è la prima donna pervenuta a quella carica ma è anche considerata una fedele seguace della visione keynesiana, avversa (e qui può esserci anche un messaggio per l’Europa) alle strategie di Austerity e concorde invece con l’impostazione di Obama, sintetizzata dal termine di “stimulus”, resa ancora più chiara dal ribadito impegno a continuare a immettere denari nell’economia, fino a quando la disoccupazione non scenderà al di sotto del traguardo del 6,5 per cento.
A lungo esitanti, i futuri elettori paiono oggi più convinti – anche se non esattamente entusiasti – di questo ripiegamento su strategie che ad altri paiono “di un’altra era” e che divergono radicalmente dalla risposta europea a una crisi che è mondiale e che dal campo della finanza è da tempo “straripata” in quello economico. L’Atlantico, dunque, torna a farsi “più largo”.
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